martedì 31 luglio 2018

The Mercury Tree + Cryptic Ruse - Cryptic Tree (2018)


Sarà una seconda parte di anno molto intensa per i The Mercury Tree, splendida band che finora ci ha regalato album memorabili come Permutations e Countenance. In attesa di un album in uscita il prossimo ottobre, il trio di Portland pubblica infatti oggi l'EP Cryptic Tree frutto della collaborazione con il musicista microtonale di Seattle Igliashon Jones attivo nei propri progetti Cryptic Ruse e City of the Asleep. Per l'occasione quindi anche i The Mercury Tree si sono fatti coinvolgere in questa tipologia di composizione (che farà parte anche del prossimo lavoro), spingendo le possibilità della loro già avventurosa musica ancora più avanti.

Per chi non lo sapesse la musica microtonale, soggetto qui in questione, non fa uso esclusivo della scala diatonica che siamo stati abituati a conoscere la cui caratteristica sono gli intervalli di un tono o di un semitono tra una nota e l'altra. Come dice il nome, comporre attraverso note microtonali significa utilizzare intervalli di tono ancora più piccoli e microscopici del semitono e di conseguenza accordando il proprio strumento non in base al nostro classico temperamento equabile - che prevede la suddivisione in 12 semitoni dell'ottava (accompagnato dalla sigla TET che nei paesi anglofoni sta a significare Tonal Equal Temperament) - ma, come nel caso del qui presente EP, in 23 e 17 TET. Il suono che ne consegue per un orecchio come il nostro non abituato ad infrastrutture tonali così elaborate risulta alieno ed estraniante.

Tutto questo per spiegare e non allarmare l'ascoltatore impreparato che sicuramente troverà disarmonica una musica del genere. I The Mercury Tree però sono dei maghi nel ricondurre molti passaggi ad un senso di armonia o comunque ad una consonanza delle forme, possibilità che molto spesso viene ignorata o esclusa da altri compositori microtonali più radicali. Il fatto curioso è notare soprattutto come il materiale di Cryptic Tree non si discosti molto dalla filosofia sonico/estetica dei precedenti lavori dei The Mercury Tree, a dimostrazione di come la band abbia saputo costantemente coniugare un approccio avant-garde a 360 gradi con la materia prog. E' come se nei brani vigesse questa continua battaglia tra consonanza e dissonanza portata alla luce dalla giustapposizione tra le chitarre dell'ospite Jones e del leader Ben Spees. Proprio per questo quella che sulla carta poteva essere l'opera sperimentale più astrusa, complessa e sganciata dal contesto del gruppo, va invece ad inserirsi benissimo ed in perfetta continuità nella discografia dei The Mercury Tree come un altro tassello essenziale.


martedì 24 luglio 2018

The Velvet Teen - Parallel Universes (single, 2018)


Fin da dopo l'uscita di All is Illusory (2015) ci si era chiesti se i The Velvet Teen a quel punto avrebbero continuato la loro avventura musicale a stretto giro oppure se si sarebbero fermati ancora per altri nove anni prima di produrre un nuovo album. Poi una parziale risposta è arrivata lo scorso settembre quando, in un breve tour autunnale giapponese, la band per l'occasione aveva messo in vendita esclusiva per quel Paese un 7" con due inediti dal titolo Parallel Universes e Mean Mind che facevano presagire una imminente nuova attività. Come sempre, senza alcuna fretta, i The Velvet Teen ci hanno fatto attendere quasi un altro anno per arrivare alla pubblicazione ufficiale (al di fuori dei confini giapponesi) del singolo Parallel Universes che anticipa sicuramente qualcosa di ben più consistente (ancora non è dato sapere se sarà un EP o un full length poiché credo di essere il primo nel Globo a scrivere di questa cosa).

Per il resto Parallel Universes ci mostra una band che non ha smesso di integrare nel proprio indie rock elementi di elettronica e dream pop, influssi contemporanei che al momento vanno per la maggiore, ma sono influenze delle quali i The Velvet Teen furono pionieri anche intransigenti e radicali attraverso l'esoterico glitch pop di quel capolavoro sottovalutato che fu Cum Laude! (2006). Famosi per aver cambiato direzione stilistica ad ogni nuova uscita, i tre di Santa Rosa sembrano inclini a continuare sulla strada di All is Illusory anche se pare prematuro affermarlo, quello che è certo è che ogni loro sortita corrisponde ad un evento.

the Velvet Teen / Parallel Universes from Brady Baltezore on Vimeo.

http://thevelvetteen.com/

mercoledì 18 luglio 2018

Quiet Child - Clara (2018)


Avevamo lasciato Peter Spiker e il suo progetto Quiet Child a due anni fa con la pubblicazione del settimo album Listen, Love, The Thunder Calls. Da allora poco e nulla è trapelato dal quartier generale se non che il lavoro che lo avrebbe seguito sarebbe stato l'ultimo dei Quiet Child per stessa ammissione di Spiker il quale ha espresso la volontà di intraprendere altri percorsi musicali che non si adattano al progetto. Nonostante tale decisione una delle poche certezze associate ai Quiet Child è che si può ammettere che in ogni nuova produzione Spiker ha cercato costantemente di cambiare prospettiva musicale, pur rimanendo in un ambito prog rock e metal cantautorale. Tocca quindi a Clara il compito di chiudere il sipario sui Quiet Child e rimane un'ottima sintesi dei dodici anni di vita della creatura di Spiker. Nell'album troviamo molti degli elementi che si sono succeduti nei precedenti sette capitoli: ambient, metal, qualche riferimento al melodismo wilsoniano, post rock, avant-garde e minimalismo. A piccole dosi ritroviamo tutto ciò su Clara, praticamente un bel modo di accomiatarsi.

domenica 15 luglio 2018

Hopesfall - Arbiter (2018)


Le cose più belle e inaspettate accadono sempre per caso. Per chi non li conoscesse, gli Hopesfall sono stati tra i gruppi più amati dello scorso decennio nel circuito post hardcore indipendente americano, fino a che insormontabili beghe legali con la loro etichetta discografica Trustkill e continui ricambi di line-up ne decretarono la fine prematura nel 2008, ad un anno di distanza del loro quarto album in studio Magnetic North. Lasciandosi alle spalle un EP e quattro full lengths all'attivo, la disillusione prese il sopravvento e nessuno della band era più intenzionato a tornare sui propri passi a parte il cantante Jay Forrest.

Come è risaputo però il tempo e il destino agiscono in modi non dipendenti dalla nostra volontà e gli Hopesfall sono tornati a sorpresa ad undici anni di distanza con una reunion assolutamente non prevista, non forzata e del tutto naturale, pubblicando Arbiter grazie anche al rinnovato interesse della Equal Vision Records. Il chitarrista e fondatore Josh Brigham racconta che qualche tempo dopo la separazione iniziò ad incontrarsi di nuovo con Dustin Nadler (chitarra) e Adam Morgan (batteria) per delle jam senza impegno, in modo informale, nella loro città natale Charlotte in North Carolina. I tre si ritrovarono ad accumulare musica in modo rilassato, senza alcuna pressione da case discografiche e tempi di consegna da rispettare tanto che alla fine avevano messo da parte abbastanza materiale per un nuovo album. A quel punto rientrò in scena Forrest (che nel frattempo si era trasferito a Chicago) per registrare le sue parti vocali in un demo da inviare al loro vecchio produttore Mike Watts (The Dear Hunter, As Tall As Lions, Dillinger Escape Plan). Da questa vicenda è nato Arbiter, il quinto capitolo della storia degli Hopesfall.

Iniziamo premettendo che non sono in molti qua in Europa a conoscere gli Hopesfall ed è bene introdurli sapendo che i loro primi tre album erano un perfetto esempio di post hardcore senza deviazioni sperimentali, immerso perfettamente nella linea della scena statunitense di dieci anni fa. Quindi, come affrontare un ritorno dopo una così lunga assenza in un quadro musicale che nel frattempo si è evoluto e passato attraverso vari cambiamenti? Ripiegare su parametri già sperimentati e sicuri ma comunque sintonizzati con il presente, oppure alzare il livello e considerare nuove direzioni? Come per altre reunion il rischio di deludere il proprio pubblico era molto alto, ma gli Hopesfall si sono dimostrati dei professionisti dalla grande sensibilità artistica.

In pratica Arbiter è un'evoluzione all'ennesima potenza non solo del loro suono, ma anche del loro metodo compositivo: gli Hopesfall si sono presi i loro rischi, hanno intensificato ciò che li caratterizzava trasportandolo verso nuovi e inediti territori. Da un lato è innegabile che Arbiter rimanga ancorato all'estetica del post hardcore, ma osservandolo sotto una prospettiva più aperta la band ci ha infilato dentro tutto ciò con cui negli anni il genere è venuto a contatto, facendolo fermentare come un buon vino. Ne è uscito un sound più adulto e ricercato, arricchito da un retrogusto composto da più sapori che hanno assorbito elementi stilistici esterni: l'emocore, il prog, il metalcore, il pop punk e persino lo stoner e lo space rock, tanto che la serie di gruppi che potrebbe aver ispirato quet'opera sarebbe infinita quanto eterogenea: Thrice, Shiner, Cave In, Acceptance, Texas is the Reason, Failure, ecc, aggiornandone le connotazioni.

Le avvolgenti atmosfere cosmiche sprigionate dalle chitarre elettriche che adesso, più che in passato, creano riverberi e vortici spaziali abbinati a cadenze ritmiche ipnotiche sono responsabili dei trip psych-core di I Catapult e Indignation and the Rise of the Arbiter. H.A. Wallace Space Academy e Bradley Fighting Vehicle sommano e attraversano tutti questi umori primordiali con un'epicità ed un entusiasmo inediti per un come back album. Oltre a questo, come se non bastasse, gli Hopesfall sono riusciti ad accontentare tutti: sia chi voleva un ritorno all'approccio più radicale e seminale di The Satellite Years, preservato dalle abrasive tinte forti di Faint Object Camera e Drowning Potential, sia chi era legato a quello più conforme di A Types e Magnetic North, impeccabilmente tirato a lucido dalle melodie dissonanti di To Bloom. In un augurio che gli Hopesfall siano tornati per restare, Arbiter segna una serie di fattori positivi che raramente capitano di trovare in una reunion.

venerdì 13 luglio 2018

Le uscite più interessanti del weekend


Come preannunciato il ritorno sulla scena dei giapponesi Koenji Hyakkei a tredici anni di distanza dall'ultimo album in studio è arrivato con DHORIMVISKHA che presenta ancora un frenetico mix di zeuhl, fusion e classica contemporanea. Per ora è stata resa disponibile solo la versione digitale, mentre per la versione fisica toccherà attendere il 31 agosto come indicato dalla loro campagna Kickstarter.



Rimanendo sempre in tema di avant-garde, Canterbury e Rock in Opposition, per chi si fosse perso a suo tempo il magnifico esordio solista di Ske aka Paolo Botta 1000 Autunni, uscito nel 2011 e da tempo fuori catalogo, viene rieditato oggi in una versione doppia la quale aggiunge all'album originale una performance live registrata nel 2013. 



I Covet della chitarrista Yvette Young tornano con una seconda prova (che ruba il titolo al primo album degli Oceansize), passando all'etichetta Triple Crown Records e registrando con Mike Watts (The Dear Hunter, O'Brother, Gates, Dillinger Escape Plan). Ospite in un brano Mario Camarena dei Chon che rende abbastanza esplicita la direzione musicale del trio strumentale.



L'EP degli Archabald, come il titolo fa intuire, trae ispirazione dagli scritti di Ambrose Bierce e Robert W. Chambers seguendo il tema di un concept sulla mitologia della città immaginaria Carcosa (popolarizzata dalla serie True Detective) e si immerge in atmosfere dure e sperimentali con brani post hardcore che si ispirano tanto ai Thrice quanto alle elucubrazioni dark degli O'Brother.

mercoledì 11 luglio 2018

Visitors - Crest (2018)


Come precedentemente annunciato un anno fa, i Visitors pubblicano il loro esordio che prosegue la linea narrativa della storia iniziata con l'EP Vortices, A Foreword, una specie di concept del quale esiste anche una graphic novel dal titolo Axis B in pieno spirito con la saga multimediale ideata dai Coheed and Cambria. Come spiegato a suo tempo i Visitors sono un quintetto di Salt Lake City che suona experimental post hardcore di cui il cantante e chitarrista Ian Cooperstein milita anche nei Gloe, molto consigliati anch'essi.

La già ottima alchimia della band, che comprende anche Bryan Lee (batteria), Cameron Jorgensen (basso), Ty Brigman (chitarra), and Ian Hilton (chitarra, synth), emergeva già nell'EP, ma su Crest assume aspetti grandiosi e quasi epici. L'album è un tour de force da gustare tutto d'un fiato con pezzi dalle dinamiche massicciamente complesse ed estreme e, oltre a questo, un lavoro perfettamente compiuto nell'interazione contrastante tra le interazioni vocali harsh e clean. I Visitors partono da tutto ciò che è stato lasciato all'eredità di questi anni in campo prog hardcore (che siano i The Mars Volta o i Sianvar) e lo sfruttano per andare ad inerpicarsi su territori personali, incentivando visioni psichedeliche, acide e post metal anziché involute digressioni math rock.

In Crest convivono e si scontrano le svolte dinamiche più inaspettate tra spasmi violenti e vortici spaziali elettrici che riconducono ad oasi melodiche dosate con perizia. Il tutto è assolutamente compatto e solido, controllato e pilotato con mano sicura dall'inizio alla fine senza un attimo di respiro o di esitazione. Questo per dire che, tirando le somme, i Visitors con il loro amalgama strumentale ottengono esattamente ciò che vogliono: l'aggressività riversata nell'album, che raggiunge l'apice su Fugue (in D Minor), rimane in secondo piano in favore di un visionario concept che trasmette sensazioni di catarsi lisergica senza il pericolo di sbavature.

Il paesaggio che si squarcia attraverso brani come Sea of Limbs (A Diminisher), Storyfoam Needles e In Part (Entrained) è di quelli vividi e cervellotici, come un viaggio in una mente schizofrenica e multidimensionale. In definitiva Crest non è un album di facile assimilazione, ma ad ogni nuovo passaggio scopriamo qualcosa di gratificante che ci fa capire la quantità di stratificazioni soniche sulle quali è stato costruito. Praticamente soddisfa e consolida ogni sfumatura compresa all'interno del prog hardcore sperimentale, concorrendo a diventare il miglior lavoro ascoltato in questo genereda un bel pezzo a questa parte.



lunedì 9 luglio 2018

Vennart - To Cure A Blizzard Upon A Plastic Sea (2018)


Superato lo scoglio del primo album da solista Mike Vennart ha fortunatamente ancora voglia di condividere la propria musica, il che per i fan più affezionati equivale a colmare l’enorme vuoto lasciato dalla sua defunta band Oceansize. Come per The Demon Joke ritroviamo in studio al fianco di Vennart il batterista Dean Pearson (Young Legionnaire) e gli ex compagni d’avventura Steve Durose (adesso chitarra negli Amplifier) e Richard Ingram. Ritagliandosi spazio tra un tour dei Biffy Clyro e l’altro, dove lui e Ingram aggiungono supporto strumentale live al trio, Vennart ha scritto To Cure A Blizzard Upon A Plastic Sea (in uscita il 14 settembre), celando nel singolare titolo i vari temi affrontati nell’album, più che altro di carattere personale: la paternità, l’inquinamento, la politica e l’importanza di mantenere la razionalità mentale in una società sempre più divisa e complessa, temi che si scontrano l'uno con l'altro e si intrecciano.

“Non c'è dubbio che essere genitore abbia portato alla luce alcune cose. - dice Vennart - Ho dovuto stabilizzare le mie emozioni perché ho un bambino a cui badare.” In un certo senso questa tempesta di emozioni corrisponde metaforicamente al blizzard da cui guarire, una necessità tradotta in musica con un espediente altrettanto folle e contraddittorio: “La maggior parte delle idee del disco provengono da un grazioso giocattolo giapponese degli anni '70 chiamato Omnichord. Il suono non è molto interessante, ma ha sputato fuori le sequenze di accordi dei miei sogni, portando il mio songwriting in luoghi che da solo non avrei mai potuto immaginare.”

Uno di questi brani è per l’appunto la già nota Immortal Soldiers: un corale dall’andamento melodrammatico vicino agli stralunati caroselli dei Cardiacs. Il singolare argomento trattato è un'osservazione ironica sulla compulsione di suo figlio nel mettere in scena battaglie con centinaia di minuscole figurine di plastica: "Invecchiando sono divenuto incredibilmente fobico nei confronti della plastica stessa; ogni volta che una nuova action figure arriva in casa, penso che sia un'altra cosa che sta prendendo spazio su questo pianeta e rimarrà qui per sempre, qualunque cosa accada."

Il nume tutelare di Tim Smith e dei suoi Cardiacs brilla anche nelle frenetiche progressioni di Sentientia che in qualche modo trattiene qualcosa anche della solennità degli Oceansize. Ma, a parte questi piccoli richiami, To Cure A Blizzard Upon A Plastic Sea è molto eterogeneo e ogni traccia possiede una propria attitudine e personalità nel completare uno schema esclusivo. Come può apparire Donkey Kong che racchiude al suo interno molteplici sfaccettature (una canzone dentro una canzone dentro una canzone e così via), mentre Binary e Into the Wave sono due trip ultraterreni dalle atmosfere avvolgenti e malate basate molto sulla delicata tribalità della sezione ritmica e il potere ipnotico dei synth. Friends Don’t Owe potrebbe essere un normale indie rock se non fosse per l’incasinata sequenza di suoni chiptune in vari registri sepolti sotto gli intrecci di chitarra e basso.

Si sarà inteso che in questo lavoro Mike Vennart si spinge ben oltre le coordinate dettate da The Demon Joke: la sensazione è che, anche se i pezzi sono costruiti come canzoni, possiedano un’aura sperimentale che li trascina a confini tra l’avant-garde e il post rock (Spider Bones, Diamond Ballgag). Come lo stesso Vennart ci svela in un gustoso retroscena: “Verso la fine della stesura di questo disco mi sono confidato con Steven Wilson sulla mia preoccupazione che il tutto fosse scollegato, che non aveva senso, che non c'erano hit per le radio. Il suo consiglio è arrivato al momento giusto. Ha praticamente detto Che si fottano Mike, fai quello che vuoi, è il momento di una follia artistica! Mi ha consigliato di dar sfogo al mio Trout Mask Replica interiore. Mentre questo disco non è neanche lontanamente incasinato come TMR (e cosa lo è), sono eternamente grato per le sue parole di incoraggiamento.” Vennart deve aver proprio pensato agli espedienti di arrangiamento di Wilson per rendere ancora più orchestrali le operatiche sinfonie prog di That’s Not Entertainment e Robots in Disguise. Ok, non ci sono singoli? Ce ne faremo una ragione, To Cure A Blizzard Upon A Plastic Sea è perfetto così com'è.



To Cure A Blizzard Upon A Plastic Sea outtakes

www.vennart.com

venerdì 6 luglio 2018

Orchards - Losers​/​Lovers (2018)


Attivi ormai da cinque anni circa, gli Orchards hanno marcato diverse tappe prima di arrivare a questo esordio. Un paio di EP per iniziare, poi con l'arrivo della nuova cantante Lucy Evers hanno iniziato a fare sul serio e dal 2016 hanno iniziato a sfornare singoli a ripetizione fino a firmare un contratto con l'etichetta indipendente Big Scary Monsters e raccogliere la maggior parte dei suddetti all'interno di Losers​/​Lovers. Lo stile degli Orchards è un frizzante math pop che si pone sulla scia di altre band inglesi similari come Signals. e gli ultimi arrivati Sketchshow, ma forse gli Orchards sono ancora più votati ai chorus orecchiabili e al lato disimpegnato, allegro e colorato della sponda math rock. Il che non è detto debba essere un punto penalizzante, anzi Losers​/​Lovers potrebbe quasi avere le possibilità di esplodere a livelli di pubblico considerevoli.






mercoledì 4 luglio 2018

Distorted Harmony - A Way Out (2018)


Dopo quattro anni di silenzio gli israeliani Distorted Harmony pubblicano il terzo album A Way Out con alcune novità. Il disco è una solida affermazione delle proprie capacità di evoluzione: infatti, se il primo album Utopia (2012) voleva essere un excursus tra il più classico prog metal con influenze sinfoniche e barocche, il secondo Chain Reaction (2014) indulgeva su toni progressive metal decisamente più melodici, questa nuova uscita pone i Distorted Harmony in prospettiva ad una visione moderna e in pieno accordo con i tempi. Il principale compositore rimane il tastierista Yoav Efron, ma dal punto di vista del rinnovamento è un ottimo acquisto nella line-up l'arrivo del chitarrista metal fusion Yoel Genin (in coppia con Amit Plaschkes) che i più attenti lo possono ricordare come il responsabile del notevolissimo progetto HAGO con i quali ha pubblicato pochi mesi fa l'omonimo album di esordio.

A Way Out sposa quindi un prog metal più asciutto nelle soluzioni tematiche attraverso brani che non si dilungano eccessivamente, ma dall'altro lato scelgono una nuova prospettiva di sound che li allontana dallo stantio sinfonismo progressivo, anche optando per i riff più duri e aggressivi prodotti finora dalla band. L'efficace Downfall ricorre a contrasti ben dosati tra riff metal, tastiere futuristiche e la voce di Michael Rose sempre pronta a portare equilibrio melodico nel ruvido caos elettrico. Il nuovo territorio toccato da A Way Out non poteva poi che essere il djent che nelle parentesi strumentali di Room 11, Anima e Severed prende dei contorni veramente potenti e aggressivi, dando spazio ad impensabili sfoghi alla Meshuggah, anche se le sezioni vocali stemperano per contrasto qualsiasi aspettativa che volga verso orizzonti di metal estremo.

In realtà, pur essendo presente una minimissima parte di harsh vocals, l'album viaggia su un'impronta di progressioni armoniche e melodiche molto ben strutturate e ben inserite nel mood djent metal dove un brano come Awaken è un saldo punto di riferimento nel suo spaccarsi in due tra introspettiva ballad nella prima parte e incalzante ouverture prog metal nella seconda. In pratica i Distorted Harmony spingono ancora di più le proprie capacità al fine di fortificare e rendere solide le inflessioni tecnicamente più complesse e al tempo stesso concorrono ad aumentare il carico di pathos emotivo grazie a stratificazioni atmosferiche dettate dalle tastiere e dagli arpeggi clean di chitarra. A Way Out, nonostante dei predecessori di tutto rispetto, si distingue così per essere il lavoro più evoluto e maturo della band israeliana.

lunedì 2 luglio 2018

Altprogcore July discoveries


Stratus EP è l'esordio degli Haven State, un quartetto guidato dalla voce femminile di Josie Banks. Partendo da basi prog rock che potrebbero accostarli ai District 97 per quel modo di unire sottili influenze fusion a sezioni più marcatamente da rock melodico, sanno apportare anche una pregevole vena più hard e math rock alle composizioni. Un EP molto gradevole.



Sentience è l'album d'esordio dei Von Citizen, quintetto proveniente dalla Cina che suona un insospettabile ottimo djent che si unisce alla fusion nello spirito di Plini, Sithu Aye e Intervals. La domanda a questo punto sorgerà spontanea: che cosa hanno i Von Citizen rispetto alle migliaia di altre band sulla stessa linea? Beh innanzitutto al momento attuale se pratichi questo genere il rischio è comporre un vuoto involucro di riff e assoli che scivolano via senza lasciare traccia. I Von Citizen invece hanno il pregio di sommare i vari ingredienti di prog metal, ambient e fusion, facendoli lavorare in una ricetta che esalta sia la melodia armonica degli accordi sia i virtuosismi chitarristici. In pratica su Sentience rintraccio quella scintilla che era in grado di elevare gli indimenticati Exivious di Liminal a indiscussi maestri del metal fusion.



For Mange Melodia può essere considerato uno degli album più interessanti pubblicati ultimamente dal prog rock scandinavo. Certo, c'è da fare i conti con la spigolosità dei testi poiché i norvegesi Knekklectric non solo cantano in questa lingua, ma adottano il dialetto usato nella loro cittadina di Ålesund. A parte questo la musica è assolutamente brillante e le capacità strumentali nel fondere Canterbury sound e le complessità del prog nordico (tipo Wobbler) sono impeccabili.



ZOFFF è l'attuale band nella quale milita il mitico Christian "Bic" Hayes (ex chitarra di Cardiacs, Levitation e Dark Star). Gli ZOFFF si basano fondamentalmente sul principio di improvvisazioni lisergiche tra psichedelia e krautrock, creando musica cosmica e spaziale adatta per far viaggiare la mente.


Gli Slow Crush sono un gruppo belga che fonde dinamiche shoegaze, dream pop e slowcore e dopo l'EP Ease si prepara a pubblicare il suo album di esordio dal titolo Aurora dal quale per ora è stato tratto un video per la title track. La loro posizione si inserisce molto bene tra Cocteau Twins, Slowdive e My Bloody Valentine.