Visualizzazione post con etichetta Steven Wilson. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Steven Wilson. Mostra tutti i post

domenica 9 marzo 2025

Steven Wilson - The Overview (2025)


Facciamo un gioco. Proviamo ad immaginare che Steven Wilson dopo The Raven That Refused to Sing non si sia mai distaccato dal progressive rock, che non si sia mai fatto tentare dal pop con velleità sofisticate (To the Bone, The Future Bites) o da un solipsismo tracotante ed eclettico che ha generato cose più apprezzabili ma tuttavia che rasentano l'esercizio di stile (The Harmony Codex, Hand.Cannot.Erase). Per quanto un artista senta il bisogno di cambiare traiettoria, per quanto abbia tutto il diritto di sentirsi libero di cimentarsi in altri ambiti stilistici, ci sarà sempre un legame in cui si sente a proprio agio e gli permette di essere più ispirato, in pratica di "ritornare a casa". Il fine del gioco è realizzare definitivamente che, quando si parla di Steven Wilson, questa caratteristica venga più in evidenza e con The Overview ha preso di nuovo il sopravvento.

Non ho mai fatto mistero della mia personale "antipatia" per il corso intrapreso negli ultimi anni da Wilson e non perché ritengo che debba dedicarsi esclusivamente al progressive rock, solo che ho sempre avuto l'impressione che con altri stili non riesce a connettersi a dovere e produrre qualcosa di convincente. Il suo nuovo album presenta solo due lunghe suite, ispirate non tanto a un concept quanto all'idea dell' "effetto della veduta d'insieme" ("The Overview" appunto), ovvero una particolare condizione di cambiamento cognitivo riscontrato negli astronauti che, una volta nello spazio, realizzano come la Terra sia un piccolo e fragile pianeta dove tutto ciò che è stato nel tempo costituito dall'uomo (conflitti, confini, religioni, ecc.) diventa all'improvviso insignificante di fronte alla precarietà del nostro pianeta fluttuante nell'universo. Una variante del discorso sul "Pale Blue Dot" di Carl Sagan in pratica.

L'intrigante premessa tematica si riflette nella musica più ispirata creata da Wilson dai tempi di Grace for Drowning a questa parte. Finalmente si sente scorrere linfa nuova nell'uso della sua voce (con tutti i limiti che si porta dietro), nel ricorso a multistrati vocali sfruttati in modo creativo, così come inconsueti timbri di tastiere e chitarre elettriche i quali, è vero che richiamano le asprezze di Yes e King Crimson, ma assumono una personalità tutta propria nel contesto sonoro.

La prima parte - Object Outlive Us - mette in prima linea il piano acustico e i temi musicali vengono sviluppati e impiegati forse in modo ridondante, ma in generale piacevolmente. Insistenti cori marziali si scontrano con cadenze reiterate minimali, come nel pop dei Field Music, ma allo stesso tempo imponenti e psichedeliche come nei Knifeworld. La parte strumentale che inizia circa dopo 14 minuti dall'inizio è tra le cose più interessanti prodotte da Wilson negli ultimi anni, una jam in cui si insinuano chitarrismi alla Steve Howe e Robert Fripp, mentre il groove ritmico spinge senza sosta.

Sulla title-track ritorna l'amore per le ritmiche elettroniche breakbeat, retaggio dei primissimi Porcupine Tree degli anni '90, quando Wilson era affascinato dai suoni IDM dei The Orb e dei Future Sound of London. La parte che segue forse è l'unico punto debole di tutto l'album, modellata come una più che ordinaria ballata per chitarra e piano, svogliata come un pezzo di David Gilmour, dimenticabile come una b-side di british pop. Il resto è una costruzione di suoni e accordi di tastiere avvolgenti che sfiorano la muzak e la fusion, dove si respira veramente del prog accattivante, soprattutto nelle varianti degli assoli che si susseguono, tra chitarre, synth e tastiere. Il tutto si chiude con lunghe note ambient di tastiere che sembrano provenire dal progetto collaterale Bass Communion.

Con The Overview Steven Wilson sembra perseguire un proprio ideale su grande scala alla Mike Oldfield, dove a tratti compaiono stratificazioni strumentali e architetture sonore che lasciano da parte l'ambizione in favore di un'organizzazione strutturale focalizzata su un fluire coerente e ben collegato. Al di là di tutte le voglie di peregrinazione stilistica che si è potuto togliere Wilson come artista, in definitiva si sente che è questo che deve perseguire e che gli riesce meglio. Intendiamoci, The Overview non è un capolavoro, ma almeno in questo caso la componente sonica e timbrica funziona meglio che altrove e possiede un sapore nuovo, svolto in modo molto più efficace rispetto agli album precedenti, strombazzati dall'autore all'epoca quasi come produzioni che sondavano territori musicali inediti, quando in realtà, con il senno di poi, non hanno lasciato un granché.

venerdì 29 settembre 2023

Steven Wilson - The Harmony Codex (2023)


E' incredibile come ogni nuova pubblicazione del "genio" Steven Wilson, da quando la sua fanbase si è compattata in un manipolo di fanatici, venga annunciata alla stregua di un secondo avvento di nostro signore Gesù Cristo, oltre a paventare nuovi e rivoluzionari orizzonti musicali finora mai raggiunti. Con il senno di poi, i due controversi capitoli della sua discografia To The Bone e The Future Bites, a parte il clamore iniziale, si sono incartati sotto il peso della loro stessa ambizione, mostrando una versione di pop e art rock fredda, scostante e inconcludente, ovvero tutto il contrario di ciò che il pop dovrebbe essere. Riguardo a questo argomento il fanatismo di cui sopra mi pare abbia guidato ad aggredire chiunque si sia azzardato a criticare la nuova direzione di Wilson, liquidandolo come un ascoltatore dalla visione ristretta, incapace di accettare cambiamenti poiché vorrebbe solo che il suo idolo si concentrasse sul prog rock. Personalmente in passato mi è capitato di criticare più volte Wilson, non perché ha il sacrosanto diritto di ampliare e cambiare genere, ma perché non reputo la sua scrittura altrettanto efficace in questi ambiti. L'immagine che ne viene fuori è quella di un personaggio che vorrebbe essere moderno e adatto alle masse, ma allo stesso tempo intellettuale, sperimentale e artisticamente più elevato. E in tale campo avviene il corto circuito.

Questi due aspetti non si conciliano bene nell'universo wilsoniano e forse deve averlo capito anche lui visto che, prima con il ritorno dei Porcupine Tree e ora con The Harmony Codex, cerca di ripercorrere i propri passi. Il fatto stesso che il suo ultimo sforzo discografico venga celebrato in modo quasi unanime come un netto passo avanti rispetto alle due opere precedenti la dice lunga sulla considerazione di cui godono attualmente. Come annunciato The Harmony Codex è un album piuttosto eterogeneo nella sua forma, forse non caotico come Insurgentes, ma l'ambizione di mostrare le proprie capacità nell'uso dell'elettronica e della versatilità timbrica è la medesima, solo amplificata all'ennesima potenza. Ormai sappiamo tutti che Wilson è diventato un mago dello studio di registrazione e The Harmony Codex sonicamente è il suo capolavoro. Tanto che, anche qui, commette il solito errore: se prima la sfrenata voglia di deviare in territori pop aveva offuscato la qualità delle composizioni, adesso la cura maniacale riservata all'architettura sonora ha preso il sopravvento rispetto all'impegno della scrittura. Raramente nella discografia di Wilson si sono ascoltate delle canzoni piatte e scialbe come Economies of Scale, Rock Bottom e What Life Brings, tutti e tre singoli nei quali, a livello di idee armoniche, succede poco o niente, la dinamica delle svolte viene ridotta all'osso e che di certo non hanno aiutato ad intensificare l'hype per l'uscita dell'album. L'unico elemento che riesce a dare un po' di spessore ai brani risiede nel gran lavoro che enfatizza l'attenzione sui dettagli sonori. E' per questo che con The Harmony Codex Wilson si certifica come gran "valorizzatore" piuttosto che come un autore di spessore. Comunque non si discute che anche in questo modo è lecito trasmettere emozioni, ma nell'insieme è come se ci regalasse un bellissimo pacchetto a livello estetico, il cui contenuto però non è all'altezza dell'involucro e delle aspettative.

Tra i pezzi più lunghi invece spiccano Inclination e Impossible Tightrope, dei veri e propri puzzle memorabili dove si intuisce che Wilson si sia divertito a dare sfogo alla propria frenesia prog, nei quali l'abbondanza di ardite sovrapposizioni di elettronica trascendentale alla David Sylvian, psichedelia cosmica alla Ozric Tentacles (oltre ai soliti Pink Floyd) e qualche sprazzo art rock jazz alla No-Man (non a caso su Impossible Tightrope ritroviamo il vecchio compagno di Wilson Ben Coleman al violino) fanno capolino in una tavolozza composita di interconnessioni timbriche. Gli altri due brani dilatati dell'album sono ben differenti. La title-track, ad esempio, non avrebbe sfigurato in un'opera dei Bass Communion, plasmata com'è in un'estesa e reiterata serie di arpeggi "synthetizzati" che prende i principi del minimalismo e li applica alla fredda estetica del krautrock (facendo comunque a meno dei proverbiali beat). Anche Staircase si basa su pulsazioni percussive e dei pattern di sintetizzatore che avvolgono tutto in un clima oppressivo e dark, mantenendo questa impostazione per più della metà della sua durata (9:27) e spegnendosi lentamente in una coda di accordi di piano incrociato a tastiere e synth. Nulla di trascendentale o indimenticabile, ma un pezzo mediamente interessante che non coinvolge molto a livello emotivo. Come del resto pure le rimanenti Time is Running OutBeautiful Scarecrow e Actual Brutal Facts che assomigliano più ad esperimenti sonori per audiofili che a canzoni.

Penso che la maggior parte degli ascoltatori (me compreso) possa solo immaginare come suoni l'album nella sua veste sonora "immersiva" nel modo in cui lo ha originalmente inteso Wilson. Sicuramente la resa sarà spettacolare per apprezzare ancora di più ogni sfumatura dinamica, anche se credo che alla fine, tirando le somme, la morale rimanga invariata: The Harmony Codex è un'opera dove la forma soverchia prepotentemente la sostanza. L'ultima riflessione (o meglio, domanda retorica) che mi ha fatto sorgere The Harmony Codex sul coniugare in modo efficace sperimentazione sonora prog e accessibilità pop è: se questo è genio, cosa è Falling Satellites dei Frost*?

 

martedì 28 giugno 2022

Porcupine Tree - Closure/Continuation (2022)


E insomma, dopo dieci anni di silenzio radio sul pianeta Porcupine Tree, accompagnato dal timore di molti che la band di Steven Wilson non si facesse più viva, non solo c'è stata la tanto attesa reunion (anche se parziale), ma si è scoperto che in gran segreto per tutto questo tempo (fin dal post The Incident quindi), in realtà Wilson e Gavin Harrison non hanno mai smesso di lavorare su idee, bozze e demo per quello che oggi è diventato Closure / Continuation, undicesimo album in studio dei PT. Il buon Wilson si è fatto carico pure delle parti di basso, buttando giù riff e groove improvvisati in un'atmosfera informale a casa di Harrison, perché in quei momenti era sprovvisto di chitarra. Al che Wilson si è accorto che il suo stile e il suo approccio allo strumento erano ovviamente molto differenti da quelli dell'assente Colin Edwin e, dato che il bassista in questi anni è stato l'unico irresponsabile a non chiamare ed essersi fatto vivo col capo per pregarlo in ginocchio di riformare la banda, si è pensato bene di escluderlo dalla reunion (almeno a quanto raccontato da Wilson, anche se in contrasto con la versione di Edwin).

Il basso è proprio il primo strumento che ascoltiamo quando inizia Harridan, pezzo d'apertura e anche primo ad essere stato reso noto alcuni mesi fa. E oggi possiamo aggiungere pure abbastanza rappresentativo della direzione di Closure / Continuation. In prospettiva, per chi se lo chiedesse, non c'è nulla di veramente nuovo nel lavoro, sia in generale sia per ciò che riguarda i Porcupine Tree. Anche lo stesso basso riadattato da Wilson si rifà alle tendenze aggressive prog metal/djent che oggi sono stra-abusate. Ma questa non è una critica, solo una constatazione. Harridan è anzi un bel concentrato di tecnica, sprazzi melodici e scontro di stili, tra il groove di basso che si sposa con l'organo sinistro di Richard Barbieri e la batteria impeccabile di Harrison che sposta il baricentro verso ritmiche dal sapore jazz e fusion. Stesso discorso si potrebbe fare per Rats Return che questa volta però, ad un interessante riff iniziale saturo e distorto che avrebbe meritato un differente sviluppo, controbilancia una parte cantata che spezza il pathos e indebolisce l'aria minacciosa del brano. Con Herd Culling invece non si capisce bene dove il gruppo voglia arrivare. E' sempre una traccia sulla scia di Harridan e Rats Return, guidata da un groove di chitarra e da tensioni latenti che esplodono in riff elettrici, ma in questo caso si ha proprio l'impressione di un pezzo nato da una jam session irrisolta e troppo lunga, poiché non ha una destinazione precisa e ancor di più dotato di una struttura chiusa a compartimenti stagni, che ripetono un'idea il cui unico gancio degno di nota sono gli abbellimenti synth di Barbieri.

Cambiando prospettiva l'album offre tracce a carattere più distensivo e melodico, come la ballata elettroacustica Of the New Day che sembra provenire dal periodo Stupid Dream / Lightbulb Sun, ma francamente con quel suo andamento melenso si rivela come una tra le cose più deboli e sfilacciate prodotte dai Porcupine Tree. Altri due brani che puntano su atmosfere acustiche sono Dignity e Chimera's Wreck, anche se in questo caso la durata si raddoppia (8 minuti e mezzo e ampiamente oltre i 9 rispettivamente). Ascoltando Chimera's Wreck e il suo arpeggio acustico è impossibile non ripensare ai bucolici paesaggi di stampo genesisiano, ma i PT rimangono fedeli alle loro impostazioni e l'atmosfera creata dal brano è altamente depressiva e malinconica, animandosi dal suo torpore narcolettico solo nella seconda parte, quando fa irruzione un riff metal e una ritmica sostenuta che sono la perfetta antitesi di quanto venuto prima. Dignity si dipana invece come fosse uno scontro di più canzoni pop, fluttuando in un patchwork di idee e progressioni di accordi che sembrano messi lì un po' a caso e dove il pezzo pare smarrirsi, una sensazione rafforzata dalle linee melodiche cantate da Wilson, mai incisive o memorabili. Quest'ultimo aspetto in verità è quello che fa soffrire un po' tutto l'album, ovvero delle parti vocali che si inseriscono a forza e con poca convinzione nell'architettura strumentale. 

La conclusione a cui sono arrivato per Closure / Continuation me l'ha resa chiara la "deluxe edition". Si dice che è sempre dura rinnovarsi con credibilità... e tornare dopo dieci anni con novità rilevanti non deve essere altrettanto facile. Eppure, dopo trenta anni che ascolto Porcupine Tree e Steven Wilson, questo album una novità l'ha effettivamente portata. Una novità che ha aleggiato per tutto l'ascolto dell'"album standard", rilevata inizialmente con qualche riserva da parte mia, ma che con l'aggiunta delle tre tracce che compongono la "deluxe edition" si è rafforzata senza più dubbi. Closure / Continuation è l'apoteosi dello Steven Wilson killer (in senso negativo) di memorabili linee vocali, la maggior parte dei suoi interventi sono trascurabili e per nulla incisivi (e non parlo del timbro della sua voce che può piacere o meno). Gli ultimi pezzi della "deluxe edition" in particolare, Never Have e Love in the Past Tense (Population Three è uno strumentale), hanno le idee strumentali più riuscite ed interessanti di tutto il disco, tanto che avrebbero meritato ulteriori sviluppi e un posto di maggior rilievo nella tracklist ufficiale. Le linee vocali e melodiche di Steven Wilson in questi due pezzi sono quasi superflue e dimenticabili. Closure / Continuation si rivela un album che ha i suoi pregi ed è sicuramente molto più rilevante di ciò che sta facendo il Wilson solista da molto tempo a questa parte. Eppure non è un album che invita a molteplici ascolti, questo soprattutto per una freddezza latente generalizzata a causa di pezzi tecnicamente e sonicamente ineccepibili, ma che faticano a regalare emozioni. 

lunedì 1 novembre 2021

Porcupine Tree - Harridan (single, 2021)


I criptici messaggi lanciati qualche giorno fa nella pagina ufficiale dei Porcupine Tree hanno oggi trovato conferma nell'annuncio di una reunion del gruppo, ma solo con Gavin Harrison, Richard Barbieri e Wilson (senza Colin Edwin al basso, sostituito da Nick Beggs) e un nuovo album dal titolo Closure/Continuation in uscita il 24 giugno 2022, anticipato dal singolo Harridan.

“’Harridan’ and a few of the other new songs have been in play since shortly after the release of The Incident. They initially lived on a hard drive in a slowly growing computer file marked PT2012, later renamed PT2015, PT2018, and so on. There were times when we even forgot they were there, and times when they nagged us to finish them to see where they would take us. Listening to the finished pieces, it was clear that this wasn’t like any of our work outside of the band – the combined DNA of the people behind the music meant these tracks were forming what was undeniably, unmistakably, obviously a Porcupine Tree record. You’ll hear all of that DNA flowing right through ‘Harridan’.” 

Closure/Continuation is a seven-track album (the track listing hasn’t been revealed) and will be available on CD, 2LP black vinyl, 2LP blue vinyl, cassette and as two limited edition box sets (3LP or 2CD+blu-ray). The limited edition 3LP box is a 45RPM pressing on audiophile approved crystal clear vinyl and includes two bonus tracks. The 2CD+blu-ray deluxe set includes three bonus tracks, instrumental versions, 5.1 and Dolby Atmos versions plus hi-res 96/24 stereo. This comes in a large format art book presentation. 

 https://porcupinetree.tmstor.es/

lunedì 18 gennaio 2016

Steven Wilson - 4 ½ (2016)

 

L'anno appena trascorso ha, nel bene e nel male, sancito il successo di Steven Wilson, eleggendolo il "re del prog moderno" con una consacrazione resa possibile grazie al suo peggior album come solista, che naturalmente è balzato in vetta alle classifiche di fine anno di quasi tutte le webzine di progressive rock in circolazione. Di Hand.Cannot.Erase. si è già detto qui, un album epigonico, povero di idee e privo di mordente, che però sembra aver fatto presa sul grande pubblico, più per quello che rappresenta - e cioè il culmine dell'ascesa di Steven Wilson come fenomeno di massa nel prog rock - che non per effettivi meriti artistici, dimostrato anche da un fanatismo ingiustificato (e francamente incomprensibile) che talvolta può offuscare giudizi imparziali. Come molte altre volte accaduto nella storia del rock, il plebiscito di consensi è in parte meritato frutto di un duro lavoro, in parte marketing. Il nome di Wilson è cresciuto nel tempo, ma il caso ha voluto che esplodesse nella sua fase meno interessante. Così non importa se Grace for Drowning o The Raven risultano artisticamente più rilevanti, Hand.Cannot.Erase. sarà da qui in avanti riconosciuto incondizionatamente come il suo capolavoro.

Bene, detto ciò arriviamo a questo EP di sei tracce (che comunque ha una bella durata di 37 minuti), denominato 4 ½ (poichè il suo compito è di traghettarci verso il quinto album di Wilson) che raccoglie quattro inediti scaturiti dalle sessioni di Hand.Cannot.Erase., uno da quelle di The Raven e, per finire, una solida versione live di Don't Hate Me (tratta da Stupid Dream) con ospite Ninet Tayeb alla voce, registrata durante l'ultimo tour europeo. Tra i musicisti presenti in questi pezzi ritroviamo quelli che hanno accompagnato Wilson ultimamente da Adam Holzman a Nick Beggs, Marco Minnemann e Guthrie Govan, fino a Dave Kilminster, Craig Blundell, Chad Wackerman e Theo Travis.

Quindi iniziamo con una domanda: può un EP di outtakes essere migliore del suo full-length-predecessore? Sì che può e non solo, la prima traccia My Book of Regrets da sola mette all'angolo l'intero Hand.Cannot.Erase. E a questo punto ci si chiede: come possono degli avanzi di studio superare quelle che sono state delle prime scelte? Forse la risposta va ricercata proprio nella loro natura di essere destinati virtualmente ad un album minore, posti in un angolo per filologi completisti, un EP dove ci si può permettere di rischiare e presentare del materiale fuori dai soliti schemi. Parlando di Wilson, però, questo non succederà, poiché ormai la sua figura di rilievo impone che tutto ciò che il "genio" produce deve necessariamente assumere un livello di primo piano. Per tale motivo 4 ½ non sarà diverso e credo andrebbe recensito e giudicato come un nuovo album da aggiungere a Hand., Raven, Grace e Insurgentes, proprio in virtù dello status di icona del prog che il personaggio Wilson ha conseguito.

Quindi dicevamo: My Book of Regrets nei suoi nove minuti abbondanti ci mostra un complesso in stato di grazia, una canzone che è divertente da ascoltare per tutti i suoi piccoli accorgimenti strumentali. Incasellati dentro ci sono le rifiniture dell'ottimo Kilminster, un bel basso bolso alla Yes, gustosi impasti di synth che si sposano con ottimi arpeggi di chitarra, ritmo da ballata funky con un gradevole ritornello che richiama l'antico brit pop anni '90. Anche Year of the Plague è uno dei pezzi strumentali più delicati usciti ultimamente dalla penna di Wilson. Dopo un intro ambient e aleatorio con piano elettrico, violino e un leggero mellotron, il pezzo prende l'avvio da un arpeggio acustico reiterato sul quale poi poggiano le fondamenta di tutta l'impalcatura di strumenti. In pratica è un'elegia poetica in musica, molto atmosferica e malinconica. Abbastanza trascurabile Happiness III che non nasconde la sua natura di ballata folk, arrangiata però come fosse un pezzaccio da rock FM. Sunday Rain Sets In e Vermillioncore sono altri due brani strumentali: il primo, con un paio di accordi depressivi e un mellotron, si accompagna ad un tema da film noir, trasformandosi in una sorta di soft muzak che sfiora atmosfere fusion, anche se non sono presenti assoli; il secondo punta su un groove di basso che accenna a delle arie malate come avveniva in molti punti di Grace for Drowning, infatti ci sono fratture elettriche improvvise e sintetizzatori spaziali e invasivi.

In breve, tutto sommato questi outsider potrebbero essere stati prelevati da qualche b-side dei Porcupine Tree e 4 ½ starà alla discografia di Steven Wilson come Recordings sta a quella dei PT. Materiale trascurabile? Forse in parte, ma c'è più voglia di progredire e qualche sprazzo di genuina lucidità qui dentro che su Hand.Cannot.Erase.

giovedì 26 febbraio 2015

STEVEN WILSON - Hand. Cannot. Erase. (2015)


Premessa: Hand. Cannot. Erase. ha riportato a galla il personale rapporto conflittuale che ho con questo signore. Non è sempre stato così in verità, lo amavo veramente nei primi lavori dei Porcupine Tree, poi, quando conseguì il "successo" con il cambiamento di rotta stilistico, qualcosa si è incrinato. Non mi reputo uno di quelli che vorrebbe un artista relegato perpetuamente alla sua piccola nicchia di appassionati e che quando questo diventa un po' più conosciuto, lo ritiene un traditore (prova ne sono le recensioni positive che riservai a Grace for Drowning e The Raven That Refused to Sing). Quello che mi dispiace davvero è che Wilson ha conseguito una maggior popolarità per i motivi sbagliati. Se per i meriti raccolti sul campo Wilson doveva diventare l'icona del progressive rock cui è ritenuto oggi, in teoria, lo sarebbe dovuto diventare immediatamente, dato che i suoi lavori più intrinsecamente progressive sono i primi. Quindi, diciamoci la verità: il pubblico che ha iniziato ad amare Steven Wilson attraverso gli ultimi album dei Porcupine Tree non è necessariamente affezionato al progressive rock, ma fa parte di una varietà trasversale, che al limite ne possiede una concezione relativamente giovane e più ingenua (nel senso buono del termine). Il che non è una critica, ma solo un modo per sottolineare come la figura di Wilson sia stata nel tempo sopravvalutata da persone non preparate in materia di progressive rock, fino ad attribuirgli un'aura che lo rende praticamente immune alle critiche.

Lasciamo perdere i meriti riconosciuti per i vari e recenti remix di album storici per il prog, oltre che le sue doti di stimato produttore che nessuno mette in dubbio, tutto questo è venuto dopo. Parliamo delle sue scelte discutibili che lo hanno portato a realizzare degli album (sia con i PT che in altri ambiti) dagli esiti artistici altalenanti, dimenticando volentieri la trascurabile parentesi Storm Corrosion. Naturalmente per la maggior parte dei suoi fan "post In Absentia" non è così. Wilson è in pratica diventato un santo intoccabile, un genio che trasforma in oro tutto ciò che tocca e, leggendo le recensioni preventive di Hand. Cannot. Erase. comparse nei siti stranieri, sembra che il grande Autore abbia fatto centro di nuovo. E così arriviamo alla sostanza del discorso: qui si assiste alla solita glorificazione di quest'ultimo album come l'ennesimo capolavoro, cosa che oggettivamente non è. Potrei al limite capire chi lo considera un bell'album per questioni di gusto, ma talvolta si dovrebbe avere il coraggio di andare fuori dal coro e affermare che Hand. Cannot. Erase. è tutto fuorché un capolavoro. Anzi, è una delle opere più deboli partorite da Wilson, e lo dico da fan.

Un vero amante del progressive rock non può appassionarsi a Hand. Cannot. Erase. o, perlomeno, non può assolutamente giudicare Wilson un padreterno del prog, poiché questo album è pieno zeppo di cose già sentite e risentite. E non sto parlando di ridare smalto alle classiche sonorità di King Crimson e Genesis con attitudine moderna, come già sperimentato nel grandioso Grace for Drowning e nel pur pregevole The Raven That Refused to Sing. Qui si parla di riciclare le sonorità del neo prog degli anni '90 tanto odiate dallo stesso Wilson. Se prendete 3 Years Older, ad esempio, non c'è nulla che nei suoi 10 minuti gruppi come Spock's Beard e The Flower Kings non abbiano già fatto.





Anche la title-track si rivela abbastanza debole. Come molti giustamente hanno notato, essa ha le sembianze di un pezzo estrapolato dalla già non eccitatane ex band parallela di Wilson, i Blackfield. Il primo singolo tratto dall'album fa il suo dovere di semplice canzone per attirare l'attenzione, ma si capisce chiaramente che il suo compito si limita a questo, dentro non sono racchiusi dei particolari memorabili da rilevare. Si è discusso, poi, sulla scelta azzardata e quanto mai coraggiosa di lanciare come secondo singolo (con tanto di video) la divisiva Perfect Life: voce narrante della cantante israeliana Ninet Tayeb sopra una base electro ambient con il canto di Steven Wilson che interviene solo a metà canzone, ripetendo la stessa frase più volte. Al di là dei giudizi soggettivi che portano ad amare o odiare Perfect Life, esso è, in realtà, un pezzo abbastanza debole che, messo in prospettiva, si può rilevare come un artista tipo David Sylvian abbia dato contributi più incisivi in materia.

Routine, che a quanto pare per molti rappresenta il brano cardine dell'album, possiede, al contrario, un senso di incompiuto, ammassando la successione di almeno tre sezioni - dai connotati inequivocabilmente genesisiani e floydiani - senza mai decidere quale strada imboccare. Qui il gioco di prestigio di Wilson è piuttosto quello di ammaliare con trucchi di arrangiamento sinfonico, toccando le corde emotive dell'ascoltatore. Qualcosa di buono comunque lo troviamo quando si arriva alla sequenza composta da Home InvasionRegret #9: la prima viene pilotata da un groove di piano elettrico alla Alan Parson Project e un incedere da blues metal (non privo di strappi solisti psichedelici nella prima parte); il secondo, interamente strumentale, tra oscuri bordoni e un grande solo di synth di Adam Holzman prima e uno magnifico di Guthrie Govan poi, si attesta come il miglior pezzo di tutto il disco.

La lunga Ancestral, nei suoi toni cupi e oppressivi, poteva benissimo comparire in un album dei White Willow e nessuno avrebbe gridato al miracolo, ma in questo contesto scommetto che sarà considerato un altro capolavoro. Happy Returns è invece la classica glossa a forma di ballata malinconica per piano e chitarra acustica che di sovente troviamo in chiusura negli album firmati da Wilson (quindi anche quelli dei Porcupine Tree) che stupisce per la sua modestia, con in più l'aggiunta di un coretto a modo di inciso abbastanza imbarazzante. Tirando le somme Hand. Cannot. Erase. appare un'opera che vive di momenti diversificati a livello stilistico, che in altri casi avrebbero potuto anche funzionare, ma qui la maggior parte delle volte non vengono messi bene a fuoco e rispecchiano una certa confusione su quale indirizzo dare all'album e penso che la cosa la potrà percepire anche chi lo apprezzerà. Parlando di genialità Hand. Cannot. Erase. in effetti non ne è privo: al suo interno c'è un solo genio, le sue iniziali sono GG e non a caso le parti migliori sono quelle che lo vedono protagonista.

 

lunedì 19 gennaio 2015

Gli album attesi per il 2015

 
Facendo un breve resoconto degli album attesi per il 2015 ecco alcuni nomi e titoli che finalmente, dopo tanti annunci, come nel caso di Mew, Kaddisfly, Agent Fresco, 22 e Happy Body Slow Brain, vedranno la luce. Partiamo da quelli sicuri:

Il 27 febbraio sarà la volta dei Sanguine Hum che, con Now We Have Light, pubblicheranno il loro primo doppio concept album.



Seguirà a ruota il 2 marzo l'attesissimo Hand. Cannot. Erase. di Steven Wilson che non ha bisogno di presentazioni.



Il 27 aprile, dopo addirittura 6 anni di assenza, uscirà il nuovo dei Mew +/-, anticipato dalla nuova (e ottima direi) canzone Satellites. La buona notizia è che alla produzione è tornato Michael Beinhorn, colui che aveva prodotto il capolavoro And the Glass Handed Kites, uscito proprio dieci anni fa.



Il 9 marzo torneranno anche i Firefly Burning con Skeleton Hill prodotto da Tim Friese-Greene dei Talk Talk.



Tra i gruppi che, invece, hanno annunciato il loro nuovo album per il 2015, ma di cui non c'è ancora una data certa di pubblicazione ci sono: Echolyn, Ankedoten, Antemasque, Coheed and Cambria, Thank You Scientist, Kaddisfly, 22, Agent Fresco, Hidden Hospitals, The Tea Club, IZZ, Half Moon Run e Happy Body Slow Brain, dei quali potete vedere il teaser video del nuovo lavoro.

domenica 5 maggio 2013

Porcupine Tree - Yellow Hedgerow Dreamscape (Archive material 1984-91) - remastered


Steven Wilson ha annunciato una nuova edizione rimasterizzata della raccolta di inediti Yellow Hedgerow Dreamscape. L'album fu editato in un primo momento solo in CD dall'etichetta Magic Gnome in un'edizione limitata di 2500 copie. In seguito fu ristampato in un'altra edizione limitata in vinile (della quale sono un fortunato possessore) dall'etichetta Gates of Dawn nel 1999. Quest'ultima edizione si differenzia per il rimpiazzo di una versione molto spartana del brano The Cross di Prince con una più pertinente Out degli Hawkwind.

La nuova pubblicazione (su etichetta Headphone Dust) farà riferimento proprio alla versione in vinile e non credo che questa volta sarà limitata. Ricordo che il materiale presente su Yellow Hedgerow Dreamscape proviene dalle tracce scartate per ...On The Sunday of Life (1992) che a loro volta facevano parte delle cassette-demo Tarquin's Seaweed Farm (1989) e The Nostalgia Factory (1990).

In effetti, nella smania di Wilson di ripubblicare vecchio materiale ampliato e rimasterizzato, mi chiedevo come mai questa pietra angolare, sicuramente non fondamentale, ma comunque necessaria per i completisti della band, non avesse subìto sinora lo stesso trattamento e fosse rimasta nel cassetto. Forse c'era una certa ritrosia poiché il materiale naturalmente è molto simile al primo album dei Porcupine Tree e non credo andrà a genio ai fan che hanno scoperto il gruppo grazie a In Absentia e Fear of a Blank Planet. Ad ogni modo sono queste le radici garage-psichedeliche dei Porcupine Tree, un retaggio che Wilson non ha dimenticato nella sua attuale carriera solista.


Tracklist:

1 Mute (8.08)
2 Landscare (3.02)
3 Prayer (1.35)
4 Daughters in Excess (6.35)
5 Delightful Suicide (1.09)
6 Split Image (1.52)
7 No Reason to Live, No Reason to Die (11.06)
8 Wastecoat (1.11)
9 Towel (3.37)
10 Execution of the Will of the Marquis de Sade (5.08)
11 Track 11 (3.00)
12 Radioactive Toy (5.59)
13 An Empty Box (3.19)
14 Out (8.58)
15 Yellow Hedgerow Dreamscape (10.45)
16 Music for the Head (1.30)

http://stevenwilsonhq.com/sw/headphonedust/porcupine-tree-yellow-hedgerow-dreamscape-cd/




venerdì 11 gennaio 2013

STEVEN WILSON - The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) (2013)


Il terzo album in studio da solista di Steven Wilson segna alcune novità. Innanzitutto è la prima volta che Wilson non si serve di vari session man come ospiti in singoli brani, ma tutto il disco è suonato da una vera e propria band (della quale ho già accennato). Quattro di loro - Marco Minnemann (batteria), Nick Beggs (basso), Adam Holzman (tastiere), Theo Travis (flauto e sax) - hanno partecipato al tour di promozione di Grace For Drowning, in più si aggiunge la chitarra esperta di Guthrie Govan (forse consigliato da Minnemann con il quale condivide il progetto The Aristocrats). Poi c'è la presenza del leggendario Alan Parsons come ingegnere del suono, nel cui studio di Los Angeles il disco è stato registrato in pochi giorni nel settembre scorso.

Un lavoro, quindi, che vede fin da subito impegnata tutta la band e non il solo Wilson che a più riprese diluisce il tutto in varie sessioni di registrazione. Un modus operandi che probabilmente ha ravvicinato Wilson alla metodologia Porcupine Tree, anche se questo album, ancora una volta come successo per Grace For Drowning, prende le distanze dal suono degli ultimi porcospini. E questo è già di per sé un valore aggiunto, poiché si deve ammettere che questa "pausa di riflessione" che Wilson si è preso dalla sua creatura è stata una ventata d'aria fresca per il proprio repertorio, un ritorno alla genuinità della sua musica.

Come sappiamo Steven Wilson ha maturato negli anni un'autorevole tecnica in materia di lavoro in studio, quindi il coinvolgimento di Alan Parsons dietro il banco di regia non può che essere la ciliegina sulla torta per un'opera che sicuramente non avrebbe snaturato dal risultato finale. E' come una fotografia ben definita e messa a fuoco alla quale viene aggiunta una risoluzione ottimale.

La vera sorpresa è forse rappresentata proprio dalla presenza di un chitarrista virtuoso come Guthrie Govan. La chitarra è sempre stata uno strumento centrale nella musica di Steven Wilson che raramente ha coinvolto in studio altri chitarristi oltre a lui. Tuttavia Wilson tiene a freno l'esuberanza di Govan ed è proprio quest'ultimo che comprende e sa calarsi, adattandosi, in un ambito progressive distante, ma non poi così tanto, dalla sua fusion.

Detto questo, The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) può essere considerato il proseguimento naturale di Grace For Drowning? Sicuramente si. Le recenti influenze crimsoniane, le pieghe dai sapori jazz rock e le mutuazioni dal prog anni '70 sono ancora tutte qui, protagoniste indiscusse di un nuovo colpo da maestro di Wilson. Delle sei tracce che compongono l'opera, le tre che superano i 10 minuti hanno un impatto semplicemente devastante. Esse danno l'impressione di essere delle jam strumentali alle quali sono state aggiunte delle parentesi cantate. Prese sotto questo aspetto, la sola potenza delle sezioni strumentali è tale da spazzare via dieci anni (e forse anche quindici) di rock progressivo moderno, che sia neo-sinfonico-metal o quello che volete voi. Qui non ce n'è per nessuno: inchinatevi di fronte a Steven Wilson, è lui il Re del prog e ce lo ribadisce con tre pezzi dalla statura immensa. Una grossa parte del merito, non dimentichiamolo, va anche ai musicisti che Wilson ha avuto la lungimiranza di coinvolgere, aggiungendo delle parti soliste ineccepibili. Gli altri pezzi sono a modo loro interessanti, ma non altrettanto imponenti, facendo di The Raven un album bello e intenso, ma comunque non propriamente perfetto.

In Luminol (già presentata in anteprima nell'ultimo tour) il corposo muggito del basso di Beggs è la colonna portante di buona parte dell'impalcatura su cui poggiano il pezzo e il nervoso riff principale. La parte strumentale si spiega tra progressioni di accordi chitarristici e febbrili fraseggi di piano elettrico. A circa 1/3 del brano tutto si placa ed entra in scena il cantato di Wilson in perfetto "Porcupine Tree style". Questo tema è utilizzato anche per un gustoso assolo di piano molto jazzy. Poi, in un crescendo di chitarre elettriche e mellotron, fa capolino l'ombra dei Genesis, una band la cui influenza non ha mai rivestito un ruolo rilevante nell'estetica wilsoniana e che ritroveremo altrove in questo disco.



The Holy Drinker è forse il pezzo migliore della collezione, i groove del piano elettrico imbastiscono un'atmosfera dark e da rock classico. Nella parte strumentale si trova di tutto: mellotron e solismi di sax e flauti crimsoniani (più virtuosi che mai), l'organo solenne degli ELP e quello sepolcrale dei Van der Graaf. The Holy Drinker è un po' la Remainder the Black Dog di The Raven, ovvero la traccia che fa uscire il progger di razza che è in Wilson.

Altro pezzo da brividi è The Pin Drop, breve ma intenso - sorvolando sul fatto che l'arpeggio principale è molto simile a quello di Water Under the Bridge di Kevin Gilbert. La voce di Wilson canta inusualmente su un registro per lui più alto del solito, la sezione ritmica irrompe in modo ossessivo a turbare la calma apparente e quello che si può definire il ritornello è preceduto prima da un solo di sax soprano, poi di chitarra, entrambi strepitosi nel dare un alone catartico a ciò che viene dopo.

The Wacthmaker inizia con una chitarra acustica arpeggiata dal sapore vittoriano, ritornando con più convinzione ad un palesissimo omaggio ai Genesis. E' una ballata dalle tinte nostalgiche che passa dalle parti di The Musical Box e Can-Utility and the Coastliners e di nuovo da quelle del Kevin Gilbert di Tired Old Man. Come da copione il brano si anima nell'intermezzo, nel quale si cela la stessa cadenza blues di Money dei Pink Floyd, con un Govan finalmente libero di sfogarsi in un assolo micidiale. La seconda parte cambia impostazione e diventa un'ariosa ballad per pianoforte, concludendosi in modo antitetico all'apertura: dura e quasi apocalittica, con chitarra distorta e mellotron angoscioso.
.
Drive Home e The Raven That Refused to Sing sono invece dei brani più ordinari, delle ballate malinconiche che sembrano uscite dal repertorio dei Blackfield. La prima, che si trascina in maniera abbastanza moscia, raggiunge il suo apice nell'assolo finale di chitarra. La seconda, presentando un tema di piano con una progressione reiterata, dà la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande o la coda di una suite, andando anch'essa a crescere in un climax dalle sfumature estatiche e liberatorie.

Ho dimenticato di dire che il tema su cui è incentrato The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) sono vecchie storie di fantasmi e che la cover ad opera di Hajo Mueller (che per questa volta ha rimpiazzato all'artwork Lasse Hoile) è proprio bruttina. Ma non fa niente, ciò che importa è il contenuto.



Tracklist:

1. Luminol 12:10
2. Drive Home 7:37
3. The Holy Drinker 10:13
4. The Pin Drop 5:03
5. The Watchmaker 11:43
6. The Raven that Refused to Sing 7:57

http://stevenwilsonhq.com/

domenica 21 ottobre 2012

Steven Wilson dream team line-up e nuovo album



Un breve commento sul nuovo album di Steven Wilson. Come saprete il musicista è attualmente impegnato a Los Angeles per registrare il successore di Grace for Drowning insieme al leggendario produttore Alan Parsons. Wilson ci fa sapere che le registrazioni sono appena iniziate con il pezzo Luminol, l'inedito presentato durante l'ultimo tour e presente nell'imminente DVD Get All You Deserve.

Ma la notizia più bella, secondo me, è rappresentata dalla line-up davvero da sogno che Wilson è riuscito a mettere insieme. Oltre a Nick Beggs, Theo Travis, Adam Holzman e Marco Minnemann (che hanno accompagnato Wilson in tour), si è aggiunto il talentuoso chitarrista Guthrie Govan che con Minnemann (e Bryan Beller) ha già condiviso il funambolico trio The Aristocrats. La curiosità di tale sodalizio viene dal fatto che Wilson non si era mai misurato finora con un chitarrista dalle caratteristiche come Govan, noto virtuoso dello strumento. Wilson ha sempre preferito atmosfere, diciamo, dilatate e che prediligono paesaggi sonori privi di cascate di note. Forse imporrà a Govan un metodo di lavoro differente per tenere a freno la sua esuberanza, o forse lo lascerà libero, vedremo. L'album come è noto uscirà il prossimo anno, ma da tali premesse c'è da aspettarsi grandi cose.

edit: 18/09

beh, direi che la seconda parte risponde alla mia curiosità su Govan.







edit: 21/10

Oltre ad aver pbblicato altri video estratti dalle registrazioni in studio (ora terminate) Steven Wilson ha aggiornato le news riguardanti il prossimo album, il tour europeo e un nuovo sito web:

Recording for the next Steven Wilson album has wrapped in Los Angeles, and you can see clips of the recording sessions (still being added to) over on the official SW YouTube page. 

There is still some work to do before work is complete, but the provisional track listing (subject to change) for the as yet untitled album is as follows: 

1. The Holy Drinker (10.00) 
2. Drive Home (8.00) 
3. Luminol (12.00) 
4. The Watchmaker (12.00) 
5. The Pin Drop (5.00) 
6. The Raven That Refused to Sing (8.00) 

The album will be released towards the end of February on KScope in an array of formats (including a very special deluxe edition) and will contain 5 or 6 lengthy pieces. The line up on the album is SW (vocals, guitars, keyboards), Guthrie Govan (lead guitar), Adam Holzman (piano, Fender Rhodes, Hammond organ, Moog), Theo Travis (flutes, saxes), Nick Beggs (bass guitar, stick), Marco Minnemann (drums).  The sessions in LA were engineered by legendary producer / engineer Alan Parsons.


http://stevenwilsonhq.com/

giovedì 28 giugno 2012

Steven Wilson - Get All You Deserve DVD (2012)


Uscirà il 25 settembre il DVD del fortunato tour di Steven Wilson che riporta l'intera registrazione del concerto tenuto a Città del Messico. Il set dura la bellezza di due ore e conterrà l'inedito Luminol, brano che comparirà nel prossimo disco solista di Wilson.



Filmed in Mexico City and directed by long-time visual collaborator Lasse Hoile during the Grace For Drowning Tour, the set is a superb representation of the spectacular live experience that Wilson and Hoile created for the tour. Grace For Drowning was the second album released under Wilson's own name, following 2009's exceptionally well-received Insurgentes. The album, released in September 2011, entered the UK top 40 album chart at #34, both the Dutch and German national charts at #22, the US Billboard Rock album chart at #19 (#13 in independent chart) and debuted at #7 in the Polish national charts.

Following the release of Grace For Drowning, Steven embarked on his first ever solo tour, assembling a virtuoso band, featuring Marco Minnemann (drums), Nick Beggs (bass), Theo Travis (flute and sax), Adam Holzman (keys) and Niko Tsonev (guitars), to accompany him. For the shows he worked extensively with Lasse to create a show unlike anything else he had attempted with his other bands, Porcupine Tree, Blackfield, No-Man or Bass Communion.

The shows submerged fans in a rich sensory experience: rear speakers provide surround-sound effects, giant screens show off Lasse's films made specifically to accompany these songs, and cutting-edge lighting designs giving texture to each song. Get All You Deserve captures one of the key shows from the tour. Recorded at a sold-out Teatro Metropolitan in Mexico City, the gig features tracks from both Wilson's solo albums along with the new, as yet unreleased, track Luminol.

Tracklist:
1. Intro ('Citadel')
2. No Twilight Within the Courts of the Sun
3. Index
4. Deform to Form a Star
5. Sectarian
6. Postcard
7. Remainder the Black Dog
8. Harmony Korine
9. Abandoner
10. Like Dust I Have Cleared From My Eye
11. Luminol
12. Veneno Para Las Hadas
13. No Part of Me
14. Raider II
15. Get All You Deserve
16. Outro ('Litany')

Pre-order link

In altre news, il frontman dei Porcupine Tree ha pubblicato nella sua pagina Soundcloud un demo inedito dell'era In Absentia / Deadwing intitolato Godfearing che mi sembra molto meglio di qualsiasi cosa pubblicata su Deadwing.

Godfearing (demo 2001-03?) by Steven Wilson

domenica 29 aprile 2012

"Luminol" - un nuovo inedito di Steven Wilson

Steven Wilson ha appena terminato la sua parte di tour di promozione per Grace for Drowning in Sud America. Nella data del 18 aprile, in Cile, è stato registrato da Radio Futuro il seguente brano inedito dal titolo Luminol. In effetti Wilson sta lavorando a nuovo materiale in previsione di rientrare in studio questo autunno e realizzare un altro album solista probabilmente nella primavera 2013. L'album sarà il suo terzo come solista, in quanto ha recentemente dichiarato che i Porcupine Tree sono ufficialmente in pausa (non è dato sapere per quanto) e solo lui deciderà quando è il momento di riprendere le redini della band.

Luminol (che potete anche scaricare) è per lo più un brano strumentale con qualche intervento vocale. Il suo stile ripercorre il progressive rock presentato su Grace for Drowning anche se le atmosfere sono molto più frenetiche. In definitiva, direi promosso!



mercoledì 25 aprile 2012

STORM CORROSION - Storm Corrosion (2012)


Credo sia innegabile che il concretizzarsi del progetto Storm Corrosion è stato, per molto tempo, il sogno di molti. Dietro ad esso due delle menti più eccelse e osannate del progressive mondiale che si uniscono per la prima volta in un lavoro sotto lo stesso nome, notizia di cui si parla da più di un anno. Naturale che tutto ciò abbia comportato tra i fan grande eccitazione e grandi attese.

L’album è stato presentato come la terza parte, o il tassello mancante, tra il secondo album solista di Steven Wilson Grace for Drowning e l’ultimo degli Opeth Heritage. Ma, svelando lentamente i particolari dell’ultima parte di questa trilogia in divenire, alcune cose hanno fatto insospettire. Wilson si è subito affrettato a dichiarare che i Storm Corrosion non si sarebbero imbarcati in un tour di promozione, un po’ per gli impegni precedenti dei due musicisti, un po’ per la natura stessa della musica. Insomma un trattamento da terzogenito trascurato, come se fosse un esperimento venuto male. Ed è proprio l’indirizzo musicale intrapreso dal duo a essere stato pesantemente avvolto nel mistero.

In più, nel mantenere il materiale più segreto possibile, sono comparsi su YouTube dei clamorosi fake (e non parlo dei trailer finto-kitsch anni ’80) spacciati per brani dell’album che, seppur palesemente falsi, hanno comunque tratto in inganno qualcuno (a proposito, è possibile scaricare gratuitamente il finto album Storm Corrosion (of Love and Emotion) che credo sia opera di quel burlone di Åkerfeldt). I sospetti sono aumentati quando anche i 20 secondi di preview - in genere caricati da Amazon qualche settimana prima della release ufficiale - poco dopo che erano online sono stati revocati (per la cronaca, ora sono accessibili). E qui si dirà che non c’è nulla di strano e si fa tutto questo per aumentare l’hype attorno all’album. Invece alcuni hanno intravisto in tutto ciò un certo nervosismo, iniziando a chiedersi se Storm Corrosion fosse effettivamente quel capolavoro annunciato sulla carta o una prova minore. In un certo senso, anche le confidenziali dichiarazioni di Wilson tendevano con cautela a ridimensionare la portata del lavoro, forse proprio per non creare false aspettative.

Cioè, provate a immaginarvi Wilson e Åkerfeldt alla fine delle registrazioni, album alla mano, quando ormai è troppo tardi per tornare indietro, gli annunci sono stati fatti, il lavoro deve essere consegnato e i due musicisti, non proprio soddisfatti del risultato finale, discutono: “Steven…e adesso cosa facciamo?”. “Niente, lasciamo tutto così e creiamo un’aura di mistero intorno al progetto, tanto la gente si aspetta questo”. Teoria esagerata forse. Sicuramente, ma ascoltando Storm Corrosion il sospetto s’inspessisce. Il fatto è che si ha quasi l'impressione che esso sia il frutto di una forzatura e che abbia colto i due in un momento di calo creativo, quando entrambi avevano già speso molte energie per i rispettivi album.

Questo per dire che tipo di mitologia si può creare ancora oggi, nonostante tutto, intorno ad un album lungamente atteso. E tutto ciò non può che fare bene alla musica, la rende viva e pulsante e non certo un mero accessorio come la vorrebbe ridurre l’mp3. Ma non divaghiamo.


Storm Corrosion si adatta sicuramente a quella estetica settantiana che i due autori, separatamente, hanno voluto imprimere al dittico Grace for Drowning - Heritage, dei quali, si diceva, questo dovrebbe essere il naturale completamento. Anche se, comunque, tale caratteristica è l’unica che può accomunare la trilogia, poiché, se ascoltata finalmente nella sua totalità, il percorso da essa tracciato non potrebbe essere più eterogeneo. Ma va bene così, ognuno dei tre tasselli rappresenta la visione di una musica d’altri tempi: Wilson l’ha interpretata con un’adesione quasi scolastica, ma con piglio moderno; Åkerfeldt è stato più radicalmente vintage e allo stesso tempo coraggioso ad applicare tale cambiamento alla sua band, allontanandosi dai toni più marcatamente metal (tanto da aver subìto nel privato delle minacce di morte dai fan, diciamo così, più intransigenti).

Di sicuro i primi a sconcertarsi saranno proprio i fan degli Opeth, che qui non scorgeranno neanche lontanamente un’ombra di metal. Per trovare la cosa più vicina ai Storm Corrosion prodotta dagli Opeth si deve risalire alla calma di Damnation. Poi ci sono coloro cresciuti a pane e In Absentia, che troveranno qui invece il Wilson più progressivo e sperimentale, il lato cioè che forse sarà più apprezzato dai fan della prima ora dei Porcupine Tree.

In defintiva la sorpresa c’è. Storm Corrosion non è quell’album di prog spettacolare che in tanti si sarebbero aspettati. Tutt’altro. Storm Corrosion è un’opera bucolica, acustica, pacata e quasi avant-garde. Il duo lavora per sottrazione, consegnandoci un pugno di ballate pagane dai colori tenui e pastello, gli stessi che tratteggiano l’inquietante cover che descrive bene anche il contenuto. Gli strumenti che prevalgono sono chitarre acustiche, tastiere e percussioni, l’assenza di batteria è quasi totale e le orchestrazioni non sono barocche o sinfoniche, ma minimali.

Ora, Wilson e Åkerfeldt si sono conquistati nel tempo una tale popolarità di culto che il solo tentare di muovere qualche critica ad una loro collaborazione sembra da snob. Il fatto è che basta avere una minima cognizione di storia del progressive rock moderno per capire che Storm Corrosion è pieno zeppo di richiami a cose che molti altri gruppi hanno già fatto, e pure meglio. Prendete ad esempio Landberk, White Willow e, se proprio vogliamo, gli ultimi Ulver, allora avrete una vaga idea sul tipo di atmosfera che aleggia su tutto il lavoro. A differenza dei suoi due predecessori complementari, Storm Corrosion non pesca direttamente dal prog degli anni ’70 per attualizzarlo ai nostri giorni, ma bensì passa attraverso il checkpoint degli anni ’90 e lì si ferma.

Storm Corrosion affonda come un macigno nella malinconia autunnale (tanto che farlo uscire a maggio sembra quasi un controsenso), in tristi madrigali dall’impostazione crepuscolare, a tratti soporiferi, tipici dell’estetica progressive scandinava. In più riesce a far sviscerare compiutamente l’amore di Åkerfeldt per i Comus, oltre ad esprimere quello per il cinema di Wilson, attraverso una generale sensazione da rituale pagano alla The Wicker Man.

Drag Ropes è un lungo e tortuoso requiem che, posto in apertura, più che creare curiosità lascia perplessi, generando un anti-climax continuo. Si inizia con dei cupi bordoni di tastiere che mano a mano si sommano a melloton e orchestrazioni sintetiche non solenni ma misteriose. In questo clima oppressivo si aspetta una liberazione o esplosione che non arriva mai.



La title-track si apre con un flauto e un arpeggio di chitarra pastorali che non avrebbero sfigurato su un album dei White Willow. Quando entra la flebile voce di Wilson si raggiunge forse il picco espressivo dell’album, essendo questo anche il brano migliore dell’intera collezione. Questo è puro folk psichedelico, arricchito dagli intarsi elettrici della chitarra, poi all’improvviso arriva un breve intermezzo strumentale dissonante, pretestuoso e inconsistente, che poi va a chiudersi fortunatamente con la stessa impostazione della premessa.

Hag è una cantilena mortifera di una monotonia unica che ha solamente un sussulto crimsoniano verso il finale, ma è troppo poco per una ballata deprimente. Un umore che sembra proseguire nella successiva Happy. Ascoltando i delicati arpeggi acustici in tonalità minore, i sospiri di Wilson che possiedono la stessa vitalità di un corteo funebre, il titolo pare puro sarcasmo.

Se uno riesce a sopravvivere a questi due brani letali, si arriva alla strumentale Lock Howl che almeno è ravvivata da un ritmo costante, determinato dalle note gravi della chitarra. Ma è davvero tutto qui, il resto è pura aria fritta.

L’intro di Ljudet Innan è quasi romantico con piano elettrico e falsetto di Åkerfeldt che trasmettono un che di soul. Poi il brano si astrae in un lungo tappeto etereo di tastiere ambient, fino a stagliarsi delicatamente su territori post rock molto simili ai Bark Psychosis. Forse i Storm Corrosion hanno voluto omaggiare i Talk Talk, aggiungendoci un pizzico di psichedelia spaziale, ma Ljudet Innan rimane un brano debole e senza un briciolo di sentimento. Ecco, il sentimento, è questo che forse manca in tutto l’album e si arriva alla fine pensando “Tutto qui?”.

Storm Corrosion avrebbe potuto prendere tante direzioni, Wilson e Åkerfeldt hanno scelto di intraprendere quella meno scontata e sicuramente più coraggiosa, ma fondamentalmente rimane un esperimento non riuscito. Lo avesse prodotto un qualsiasi gruppo prog scandinavo sarebbe passato inosservato o, al limite, come un lavoro minore, ma qui si parla di Steven Wilson e Mikael Åkerfeldt…

http://stormcorrosion.com/

venerdì 9 marzo 2012

Storm Corrosion rimandato all'8 maggio

Ecco le ultime anticipazioni sull'atteso album della collaborazione tra Steven Wilson e Mikael Åkerfeldt (che sarebbe dovuto uscire il 23 aprile):

Storm Corrosion is the long-discussed and highly anticipated collaboration between two of the modern progressive rock scene's most innovative and multi-talented artists: Mikael Åkerfeldt of Opeth and Porcupine Tree’s Steven Wilson. The pair will release Storm Corrosion on May 8 via Roadrunner Records.

Double-LP Set:
• Limited Edition Double-LP set of the self-titled album with exclusive artwork
• 180-Gram black virgin vinyl in gatefold jacket
• Digital download of high quality Flac files of the entire album
• Autographed 12" x 12" poster of exclusive artwork
• 24" x 36" fold out poster of exclusive artwork

* Please Note that this is a Pre-order and will not ship until the week of Album Release, 5/8.

Track Listing
1. Drag Ropes - 9:52
2. Storm Corrosion - 10:12
3. Hag - 6:28
4. Happy - 4:53
5. Lock Howl - 6:09
6. Ljudet Innan - 10:20

Blu-Ray/CD:
• 5.1 audio mix of entire self-titled album
• 2 exclusive demo tracks
• 5 instrumental tracks
• Storm Corrosion self-titled CD

CD Track List:
1. Drag Ropes 9:52
2. Storm Corrosion 10:12
3. Hag 6:28
4. Happy 4:53
5. Lock Howl 6:09
6. Ljudet Innan 10:20

Blu-Ray Track List:
1. Drag Ropes
2. Storm Corrosion
3. Hag
4. Happy
5. Lock Howl
6. Ljudet Innan
7. Drag Ropes
8. Storm Corrosion
9. Hag
10. Happy
11. Lock Howl
12. Ljudet Innan
13. Drag Ropes (demo)
14. Hag (demo)



L'album avrà due differenti edizioni in LP:

http://merch.roadrunnerrecords.com/storm-corrosion-collector-s-edition-double-lp-set.html

http://merch.roadrunnerrecords.com/storm-corrosion-collector-s-edition-double-lp-set-special-edition-blu-ray-cd-bundle.html

mercoledì 8 febbraio 2012

Steven Wilson - Catalogue / Preserve / Amass (2012)


E' disponibile il live in edizione limitata (3000 copie) registrato durante il tour europeo per promuovere Grace for Drowning. Il CD è acquistabile esclusivamente attraverso il sito di Steven Wilson nella parte riservata alla sua etichetta Headphone Dust.

Line-up:
Marco Minnemann (drums)
Nick Beggs (bass/stick)
Adam Holzman (keys)
Theo Travis (flute/sax)
Aziz Ibrahim (guitar)

Tracks:
1. No Twilight Within the Courts of the Sun (10.54)
2. Index (5.03)
3. Deform to Form a Star (8.29)
4. Sectarian (7.22)
5. No Part of Me (6.04)
6. Veneno Para Las Hadas (7.28)
7.Raider II (24.47)

NO PART OF ME (live in London) by Steven Wilson

SECTARIAN (live in London) by Steven Wilson

INDEX (live in London) by Steven Wilson

domenica 29 gennaio 2012

The Aristocrats e Guthrie Govan


Essendosi conquistato un posto ragguardevole nella classifica di fine anno di Altprogcore, penso che l'omonimo album d'esordio degli Aristocrats meriti due parole. The Aristocrats è un trio formato dal bassista Bryan Beller (collaboratore di lunga data di Mike Keneally), dal batterista Marco Minnemann (anche lui con Mike Keneally e poi Eddie Jobson e Adrian Belew) - che sta riscuotendo una fama crescente grazie a Steven Wilson che lo ha voluto nel suo tour come solista - ed infine dal chitarrista Guthrie Govan (già con Asia e poi GPS). Dei tre, quest'ultimo, era quello a me meno noto, ma che, alla fine, ha stupito di più.

Il trio suona una fusion chitarristica riconducibile ai più famosi colleghi Steve Vai e Joe Satriani. Diciamo che in tale ambito il picco creativo fu toccato proprio da questi due tra la fine degli anni '80 e la prima metà degli anni '90. Dopodiché il genere si è evoluto a malapena con chitarristi ingessati, soprattutto a livello sonoro, che a stento sono riusciti a rinnovare la propria formula. Ad esempio gli unici due concerti di Steve Vai a cui ho assistito li ricordo tra i peggiori a cui abbia mai partecipato, con il chitarrista impegnato più nel dare risalto alla forma e all'estetica che non alla sostanza (sintomo di una cronica mancanza di idee?). In pratica si è venuta a creare una sorta di staticità che ha intrappolato i suddetti nei loro cliché virtuosistici.

Quindi capirete con quale spirito scettico mi sono avvicinato a The Aristocrats, convinto che ormai questo filone avesse esaurito il suo percorso. E invece ho trovato tre musicisti d'alta classe e in Govan ho rilevato uno stile versatile e inventivo, che mi ha stupito e invogliato a saperne di più. In effetti il suo estro funziona ancora meglio su Erotic Cakes, l'esordio come solista del 2006.

L'album, sebbene abbia avuto un successo relegato credo al solo circuito dei fan del genere, merita molto, molto di più. Esso, oltre a rappresentare una pietra miliare di shred guitar e fusion, andrebbe incorniciato accanto ad altri classici come Surfing with the Alien (1987) e Passion and Warfare (1990). Eroric Cakes è un capolavoro che riesce nell'improbabile e difficilissimo compito di risvegliare dal torpore una scena chitasrristica ormai troppo uguale a se stessa. E la cosa è proseguita con The Aristicrats. Ciò che rende unico Govan è quello di essere innanzi tutto un compositore sopraffino. Prima di diventare un funambolo della sei corde dovresti possedere la capacità di creare dei buoni temi sui quali ricamare e improvvisare sopra. Govan è un maestro in questo: la sua tecnica è fluida e coinvolgente, mette in chiaro sin da subito che per lui l'esposizione, il suo sviluppo e la relativa improvvisazione sono un limite. Lui deve andare oltre. Nei brani di Govan c'è sempre qualche sorpresa o un imprevisto nel percorso, i temi possono essere molteplici e la sua versatilità stilistica fa il resto.

Quello che mi ha stupito dei due album presi qui in esame è la loro scorrevolezza, i brani sono essenziali, non si dilungano eccessivamente e in pochi minuti riescono ad esporre ciò che altri farebbero in 15 o venti minuti. Eppure, nella sua essenzialità, la ricchezza, la fantasia e l'inventiva sono le vere risorse di un lavoro come Erotic Cakes. Govan non vuole solo suonare per il piacere di farlo, ma vuole intrattenere l'ascoltatore e in questo è un maestro.

The Aristocrats - Sweaty Knockers by Abortion Factory

Waves - Guthrie Govan (Erotic Cakes) by evetke

Guthrie Govan - Wonderful Slippery Thing by sfrdmrc

Guthrie Govan - Fives by jrhetf4xb

http://the-aristocrats-band.com/


sabato 28 gennaio 2012

No-Man - Love and Endings (2012)

Il primo live album dei No-Man - ovvero Steven Wilson e Tim Bowness - uscirà il 12 marzo ed è già preordinabile sul sito della Burning Shed (link).
L'album è abbastanza intrigante in quanto riporta alcuni brani del catalogo del duo (più l'inedito Beaten by Love) riletti in parte in chiave più rock e quindi con arrangiamenti nuovi.

Love and Endings è stato registrato l'11 ottobre al Leamington Spa Assembly in occasione del decimo anniversario della label Burning Shed.

lighthouse (live 2011) by no-man >

L'album avrà due versioni: CD/DVD e doppio vinile da 180 gr. in edizione limitata a 300 copie (!)

Tracklist:

1. my revenge on seattle (6.02)
2. time travel in texas (4.51)
3. all the blue changes (6.10)
4. pretty genius (3.58)
5. lighthouse (8.16)
6. beaten by love (3.58)
7. wherever there is light (5.09)
8. mixtaped (9.32)
9. things change (8.24)

DVD: A 'guerilla style' film of the full concert, shot on two cameras plus a photo gallery.

Vinyl:

Side One:
1. my revenge on seattle (6.02)
2. time travel in texas (4.51)
3. all the blue changes (6.10)

Side Two:
4. pretty genius (3.58)
5. lighthouse (8.16)

Side Three:
6. beaten by love (3.58)
7. wherever there is light (5.09)
8. mixtaped (9.32)

Side Four:
9. things change (8.24)