mercoledì 28 giugno 2017

Three Trapped Tigers live @ Audiotree


Gli inglesi Three Trapped Tigers stanno attualmente concludendo un tour negli Stati Uniti di supporto a Deftones e Thrice e lo scorso 9 giugno hanno approfittato di questa trasferta per fare visita agli studi Audiotree di Chicago in modo da registrare una delle loro session dal vivo. La performance viene pubblicata adesso nei vari canali streaming ed è forse inutile che vi dica che la visione e l'ascolto non solo sono consigliati, ma sono assolutamente da non perdere. Incredibilmente, tra i cinque brani presentati, la band ha deciso di escludere il materiale dell'ultimo album Silent Earthling e di offrire invece una selezione dai precedenti Route One or Die e Numbers: 1-13, rivitalizzandola con un'energia pazzesca.




martedì 27 giugno 2017

Alpha Male Tea Party - Health (2017)


Se esiste uno spazio vacante tra il prog math hardcore dei The Physics House Band e quello degli Strawberry Girls, allora ad occuparlo sono sicuramente gli Alpha Male Tea Party. Nati come un progetto solista del chitarrista Tom Peters, si è ben presto evoluto e trasformato in un power trio con l'ingresso di Greg Chapman alla batteria e Ben Griffiths al basso. Health è il terzo album della loro carriera ed arriva dopo che Droids (2014) li ha fatti conoscere e apprezzare al mondo del math rock.

Lo stile degli Alpha Male Tea Party è irruento e rumoroso con suoni pesanti come macigni, non diciamo a livello di durezza, ma piuttosto nell'impatto d'insieme del volume sonoro. Alternando riff massicci e matematici con groove graniticamente geometrici, il suono distorto della chitarra passa da un normale registro elettrico ad un altro stridulo ed elettronico con naturalezza, mentre la sezione ritmica gestisce e rafforza i bombardamenti sonici. Non c'è da dubitare che con tali premesse gli Alpha Male Tea Party abbiano trovato un proprio sound riconoscibile, anche se a lungo andare spingono un po' troppo sugli stessi espedienti per sviluppare un brano con il risultato di far apparire l'album un coagulo di idee abbastanza somiglianti. Piuttosto bene invece fa l'opener Have You Ever Seen Milk che, a differenza degli altri brani, si pone come una lenta edificazione di umori in crescendo e improvvise detonazioni.

A partire dalle complesse giravolte mathcore della seconda traccia Ballerina, Health stordisce e disorienta per l'incessante assalto sonoro, quello che di pregevole affiora da brani come The Museum Walking, Carpet Diem e I Still Live at Home non è però un'aggressività brutale e fine a sé stessa, ma tutt'altro. Gli Alpha Male Tea Party tirano fuori temi melodici, divertenti e dalla forte carica futurista. Così, se la proposta proveniente da band di progressive hardcore talvolta vira verso una complessità oppressiva e dai toni oscuri, Health ha da offrire anche spiragli di sole tra le pieghe di Nobody Had The Heart To Tell Him He Was On Fire o Some Soldiers. Nonostante qualche pecca, la terza prova del trio segna comunque un'evoluzione rispetto a Droids, grazie ad una scrittura leggermente più versatile e strutturata che li guida verso una maggiore consapevolezza dei propri mezzi.




domenica 25 giugno 2017

DEELAY - Deelay (2017)


DEELAY è il nome con il quale si presenta l'unione dei tre musicisti romani Dario Esposito (batteria), Federico Procopio (chitarra) e Roberto Lo Monaco (basso) ed è anche il titolo del loro primo album appena pubblicato dall'etichetta milanese AMS Records. Anche se parliamo di un esordio discografico il trio ha alle spalle varie collaborazioni ed esperienze in veste di session man nell'ambiente progressivo e pop italiano, esperienze che sono confluite nelle composizioni qui contenute e scaturite da un lavoro in cooperazione.

Quello che propongono i DEELAY è un interessante ibrido di post rock, fusion e progressive dove ognuno di questi ingredienti viene equamente dosato fino ad offuscare la linea che li separa e in modo da non poter ascrivere pienamente il gruppo in uno di questi generi. Vengono toccate varie corde stilistiche in modo personale ed originale che potrebbero attrarre anche i meno inclini a questo tipo di musica, un fattore che sicuramente vale come un risultato da tenere in considerazione.

Deelay rappresenta una sorta di confine ideale dove perdersi tra le trame strumentali di mondi musicali differenti che comunque collimano nelle visione comune di Esposito, Lo Monaco e Procopio, creando suggestivi paesaggi sonori che assumono varie forme con la chitarra e il basso che si scambiano ruoli solisti, mentre la batteria si preoccupa di orchestrare le ritmiche con tocchi delicati e mai invadenti. Nel flusso dei brani i DEELAY sanno ben amalgamare atmosfere contrastanti tra cornici di riverberi ambient, tocchi minimali, sprazzi di elettronica e improvvisazioni solistiche le quali talvolta animano uno spirito più prettamente rock, elementi presentati già nell'incipit con l'eterea Opening.

In generale prevalgono toni notturni e pacati descritti musicalmente in maniera efficace e suggestiva attraverso la title-track e Man Tra, ma a fare da protagonista è una dualità (richiamata anche dal titolo della terza traccia) che si ritrova nei groove elettronici di Astral Projection e Apocalypse in Three Steps, andando a confluire in aperture fusion sempre caratterizzate da spezie psichedeliche, le quali rimangono la costante più evidente di tutte le otto tracce. Nei momenti più distorti, infatti, come in Awaken, Rough Landing e nei pattern blues di Duality, i DEELAY non perdono mai quel tocco onirico che ricopre la cifra stilistica dell'album. Una boccata d'aria fresca post rock, in un genere ultimamente troppe volte uguale a sé stesso.

domenica 18 giugno 2017

Elder - Reflections of a Floating World (2017)


Partiti come una heavy stoner band, gli americani Elder hanno dato dimostrazione di una notevole evoluzione del proprio sound nell’arco di soli tre album, arrivando nel 2015 a quella pietra grezza di psichedelia e doom che fu Lore, lavoro apprezzatissimo da pubblico e critica. Possibile fare di meglio per superare quella prova? Il nuovo Reflections Of A Floating World equivale ad un’affermazione positiva senza compromessi a tale quesito. Gli Elder crescono ancora e lo fanno su vari fronti: prima di tutto allargando la propria line-up che da power trio diviene quintetto (con l'aggiunta Michael Risberg alla seconda chitarra e Michael Samos alla pedal steel) e poi, di conseguenza, raffinando il proprio sound attraverso l’aggiunta strumenti che donano più corpo e struttura al già poderoso muro sonoro creato.

I brani mantengono una durata elevata ma, nonostante questo, il fluire degli stessi non risulta mai pesante. Non si pensi ad un parallelo con il prog metal, poiché qui non si trovano suite multi-tematiche, ma delle lunghe jam che si dipanano tra interscambi di riff heavy metal, assoli lisergici, e arpeggi elettrici, dove gli Elder sanno come mantenere desta l’attenzione con un controllo encomiabile delle dinamiche e delle variazioni. Soprattutto Nicholas DiSalvo e compagni si dimostrano abili manipolatori di un genere che ha esplorato e abusato in ogni declinazione le possibilità della sei corde nel tessere stratificazioni elettriche, mettendo sul piatto idee ancora fresche e mai monotone. Inoltre, al di là della potenza delle chitarre, quello che stupisce è l’uso attento e oculato di Mellotron e Fender Rhodes, interventi mai così pertinenti neanche in un album di prog sinfonico contemporaneo. La coda finale da brividi di The Falling Veil, sospesa tra King Crimson e Motorpsycho, acquisisce prestigio proprio grazie all’aggiunta unificante del Mellotron, ma tutta la sua cavalcata sfiora l’epica mitologica zeppeliniana di un pezzo come Achilles Last Stand.

Tra i lunghi vortici di Blind e Thousand Hands c’è anche lo spazio per la digressione strumentale quasi floydiana di Sonntag che, nella sua staticità post rock, spezza la tensione di un album monolitico dall’inizio alla fine. La riuscita di un lavoro come Reflections Of A Floating World la si può cogliere in una semplice constatazione: se prima gli Elder potevano essere riconosciuti come una nuova promessa circoscritta ad una nicchia metal e stoner rock, adesso, mantenendo comunque quel retaggio, certificano la propria grandezza avvicinandosi sempre di più al progressive e alla psichedelia. Un ampliamento dei propri orizzonti che permetterà loro di accogliere nuovi adepti.

venerdì 9 giugno 2017

Bent Knee - Land Animal (2017)


In un mondo dove i tempi tra una pubblicazione discografica e l'altra si dilatano è bello ritrovare i Bent Knee che tornano ad un solo un anno di distanza dall'ultimo lavoro Say So. E proprio durante il tour europeo dell'estate scorsa, passato fortunatamente anche da Milano, il gruppo aveva presentato a sorpresa una buona parte dei brani contenuti su Land Animal, in uscita il 23 giugno per l'etichetta InsideOut. Già, perché c'è anche questa di novità: i Bent Knee hanno lasciato la Cuneiform e sono approdati all'etichetta progressive rock per antonomasia.

I nuovi pezzi suonati dal vivo nella tappa milanese, ad un primo impatto, avevano dato l'impressione di essere ancor più avventurosi e velleitari rispetto al materiale di Say So e adesso ne possiamo testare la bontà su disco. Land Animal appare in superficie come una facciata che attenua le asperità più avant-garde del suo predecessore, ma scavando a fondo si percepisce come il gruppo stia ancora cercando di perfezionare quel giusto equilibrio tra prog rock e pop intellettuale con il costante ricorso a deviazioni dalla normale formula canzone. Ma la peculiarità non è da individuare nella struttura, bensì delle trame degli arrangiamenti. L'esperimento si avvia con Terror Bird, che si preoccupa di creare una tensione di dinamiche tra piano/forte piuttosto che un vera e propria cadenza condivisa da strofa/ritornello. Per poi proseguire tra riff di chitarra obliqui sovrapposti a temi orientali con Hole e quelli funky di Holy Ghost le quali creano un bizzarro mix di rock teatrale, amplificato dai beat di Gavin Wallace-Ailsworth (batteria) e Jessica Kion (basso) che rendono le ritmiche frizzanti rimarcandole come fossero segni d'interpunzione grammaticale insieme alle pennate della chitarra di Ben Levin.

In qualche modo il gruppo si piega alla direzione del violino di Chris Baum, il quale molto spesso viene accompagnato da una sezione di archi nei cui contrappunti si ineriscono anche gli altri strumenti. Direi che se in passato si è giustamente puntato il riflettore sulle doti canore di Courtney Swain, forse mettendo un po' in ombra gli altri membri della band, in questo caso è bene ricordare l'importanza e la coesione che i Bent Knee riescono a creare a livello strumentale. Ad esempio nello spingere un pezzo come Time Deer in varie direzioni stilistiche pur rimanendo nei confini di una forma tradizionale preimpostata inizialmente oppure, di contro, nel lungo fluttuante finale con Boxes, che porta l'album ad un lento spegnimento tra tappeti ambient e i soli colpi della batteria, che ci fa apprezzare il sound design di Vince Welch.

La parte centrale dell'album che comprende il trittico Inside In, These Hands e la title-track è forse la più emozionante di tutto il lavoro, in quanto ci regala un ampio squarcio di umori e sfumature che vanno in crescendo: dalla dimessa calma apparente della prima che si ricollega idealmente delicate note della seconda, per infine sfociare nelle sbilenche e altalenanti pulsazioni intermittenti della terza. C'è una sottile linea che lega questi brani nei quali viene racchiuso l'universo musicale eterogeneo dei Bent Knee, saltando da carezzevoli armonie orchestrali da colonna sonora ai tocchi stravaganti e melodrammatici che convivono in uno stesso pezzo. Ma quello che è veramente rimarchevole, oltre alla stesura, è l'interpretazione fondata sulla sottrazione anziché sull'ostentazione, ma più in generale su impalcature così precarie che basterebbe il minimo errore per far crollare tutto.



 
www.bentkneemusic.com

venerdì 2 giugno 2017

Eidola - To Speak, to Listen (2017)


Un fenomeno che non di rado capita tra le band di experimental hardcore più estreme è quello di lasciare per strada le harsh vocals e dedicarsi completamente ad un cantato clean, rischiando di tradire le proprie radici e i vecchi fan per ingraziarsi un pubblico più vasto (esempi recenti contano Tesseract, Stolas e A Lot Like Birds). Sinceramente non avevo mai assistito al processo inverso come accaduto adesso con gli Eidola. E' vero che l'elemento harsh non era del tutto esente nei due album precedenti, ma assumeva un ruolo più che marginale. Il nuovo album To Speak, To Listen, lavoro che completa una trilogia concept, invece stupisce per quanto spinge su tale aspetto (Primitive Economics è radicale in questo).

Gli Eidola sono cresciuti immensamente a livello strumentale e riportano in vita quell'hardcore progressivo di fine anni Zero che vedeva spuntare band come funghi (Closure in Moscow, Children of Nova, Emarosa e Tides of Man), riassumendone i connotati però elevandolo ad una nuova dimensione sperimentale. Ma se da una parte elaborano delle trame armoniche veramente sorprendenti e complesse, dall'altra i momenti harsh vocals che colpiscono all'improvviso sembrano talvolta fuori contesto. Partiamo quindi dalle note negative: qui non siamo dalle parti dei Car Bomb dove tutto è perfettamente in linea con l'atmosfera e lo sviluppo di un equilibrio che deve essere spezzato. Gli Eidola arrivano invece da Degeneraterra che si presentava con una forte personalità nei confronti di un experimental hardcore melodico. Con quel disco la band aveva disegnato i contorni di uno stile che funzionava perfettamente e che ora su To Speak, to Listen viene sbaffato da un nuovo elemento. Penso che dei pezzi come le due parti di Trascendentium e Sir Vishnu Yantra, ripuliti da certi vezzi metalcore, avrebbero potuto essere veri capolavori e degni prosecutori di The Great Deception Of Marquis Marchosias, Contra: Second Temple e To Know What's Real.

Passando alle note positive: fortunatamente rimane qualcosa (molto) che raccoglie quell'eredità e che rimane incastonato nelle note di Querents, Loti e Dendrochronology, pezzi dal respiro epico e gigantesco, in continua evoluzione nelle spiazzanti continue deviazioni e tensione strumentale. Infatti un plauso particolare va tributato al batterista Matthew Hansen che spinge il suo strumento ai limiti e alle chitarre di Brandon Bascom e Matthew Domme le quali pennellano con la stessa intensità acquarelli psichedelici ed eterei e compositi quadri math hardcore. L'inventiva e l'interazione tra le loro parti, come su Amplissimus Machina, è così ben oliata da lasciare sbalorditi. In fin dei conti l'idea musicale degli Eidola rimane imponente e To Speak, to Listen è un'opera che ne segna l'ambizione.