giovedì 25 maggio 2017

Introducing Coco Columbia


Dando un'occhiata alla pagina web ufficiale di Coco Columbia ci si accorge, osservando estratti da riviste che ne lodano il talento e concerti live ristretti ad una regione, di quanto questa giovane cantautrice non sia ancora molto nota oltre i confini dell'Oregon e della sua città natale Portland. La signorina è infatti, oltre che cantante, tastierista e soprattutto batterista, e possiede un gusto innato per i pattern ritmici più ricercati e stravaganti, basta ascoltare cosa ha fatto con la cover di Kate Bush Running Up That Hill, contenuta nel suo secondo album When the Birds Begin to Walk pubblicato lo scorso anno.

Comunque, partendo dall'inizio, Coco Columbia comincia a mettere in pratica i suoi studi musicali jazz con l'esordio The Weight realizzato nel 2014 grazie ad una campagna Kickstarter e quasi immediatamente organizza intorno a sé una band in modo da poter suonare dal vivo i suoi pezzi. Lo stile di Coco Columbia è un insolito art pop che si arricchisce di spezie soul e jazz le quali rendono le armonie imprevedibili in un connubio molto simile a ciò che produrrebbero Prince e Kate Bush se solo si fossero incontrati. When the Birds Begin to Walk, oltre ad essere stato eletto album jazz dell'anno 2016 dalla stampa locale, è un'opera assolutamente pregevole piena di deviazioni ritmiche articolate e intermezzi chitarristici prog costantemente in bilico tra elettronica funk e jazz rock. 





PS. E comunque una che ti suona la batteria vestita da principessa Mononoke non può che essere automaticamente cool.



www.cococolumbia.com

giovedì 18 maggio 2017

Arch Echo - Arch Echo (2017)


Il chitarrista Adam Rafowitz, il tastierista Joey Izzo e il bassista Joe Calderone della band Sound Struggle hanno creato il sideproject Arch Echo e tirato fuori dal cilindro una pregevolissima prima prova dalle fattezze progressive/fusion/djent strumentale che pare una versione di Plini sotto steroidi. Il gruppo al completo comprende l'altro chitarrista Adam Bentley (studente del Berklee College of Music e proveniente dalla band Without Walls di base a Boston) e il batterista Richie Martinez.

L'album Arch Echo, pubblicato oggi, sembra una macchina del tempo che attraversa tutti gli stadi della fusion progressiva del passato fino ad arrivare al presente (nel quale si inserisce benissimo), partendo dagli anni '80 con i synth vintage di Izzo, mentre le chitarre aggiungono sprazzi anni '90 mutuati dal sound Vai/Satriani e allo stesso tempo irrompono in frammenti di djent aggressivo. Il bello è che in questo vortice, ogni tassello, ogni cambio di registro nelle veloci manovre strumentali è una vera e propria goduria sensoriale per chi apprezza la scuola dei nuovi fenomeni djent fusion come Plini, Sithu Aye, Owane e anche il recente progetto Nova Collective. La forza del quintetto Arch Echo è infatti calare il tutto in una veste in continuo movimento, molto enfatica e assolutamente mozzafiato. La scena satura in tale ambiente è ormai arrivata ad un punto in cui gli sforzi delle nuove leve per risultare originali ottengono molto spesso l'effetto opposto di sembrare solo ripetitivi. Al contrario, gli Arch Echo mi pare abbiano prodotto un album di indubbio fascino.



mercoledì 17 maggio 2017

tricot - 3 (2017)


Arrivate al terzo album le tricot sono riuscite a fare il grande salto che porterà finalmente la loro musica oltre i confini del Giappone. O meglio, le tre ragazze di Kyoto c'erano già riuscite con una serie di concerti, EP e con i due album (T H E e A N D), assicurandosi la fedeltà di molti fan dediti sia al math rock che al J-pop. Sì, perché le canzoni delle tricot sono così irresistibili, ma allo stesso tempo funamboliche, da catturare immediatamente l'attenzione, solo che fino ad ora i loro dischi erano leggermente difficoltosi da reperire se non d'importazione (almeno in forma fisica). Adesso invce, grazie all'interessamento delle etichette Topshelf Records (per gli USA) e Big Scary Monsters (per l'Europa), il nuovo album delle tricot, intitolato semplicemente 3, è pronto per sbarcare in tutto il mondo.

Come biglietto da visita per chi ancora non conosce le trictot, 3 è quanto di meglio si possa chiedere. Recuperando i singoli Pork Ginger e Setsuyakuka, pubblicati già in passato, l'album si muove nei consueti ambiti math rock grazie a ritmiche e accordi tra il funky e il jazz, ma questa volta aumentano la componente punk pop in modo da costruire ritornelli trascinanti anche grazie all'ausilio di polifonie vocali ben dosate, una pratica che tocca il vertice nei coretti di Namu e di 18,19. Dall'irruzione di apertura con Tokyo Vampire Hotel alle brillanti arie simil disco di Yosoiki, le tricot alternano ritmiche lineari che improvvisamente si spezzano in tempi dispari o in veloci sincopati hardcore, costantemente tenute insieme da un invidiabile senso per la melodia. Persino quando le atmosfere si fanno più rarefatte, come su Sukima e su Munasawagi, le chitarre non di tessere trame intrecciate, mantenendo viva una certa tensione. Rispetto ai due album precedenti 3 si concentra sull'essenzialità, sostituendo le deviazioni prog con un uso più prominente di dinamiche quiet/loud, viene così mostrato un lato che ben sintetizza quanto le tricot abbiano da offrire sia in ambito math rock sia in ambito pop rock, incoronandole maestre del crossover tra queste due discipline.






martedì 16 maggio 2017

Bryan & the Aardvarks - Sounds From The Deep Field (2017)


Una volta Robert Wyatt disse a proposito di Phil Miller: "Phil è l'unico chitarrista che non mi fa girare le palle". Chissà se Wyatt adesso ascoltasse i Bryan & the Aardvarks gradirebbe le escursioni chitarristiche jazz di Jesse Lewis presenti su Sounds From The Deep Field, in qualche modo così simili a quelle che Miller proiettava pacatamente ma con decisione negli album di Matching Mole e National Health.

Sounds From The Deep Field è fondamentalmente un disco jazz, ma anche così trasversalmente chamber pop da far risuonare il Canterbury Sound nei ricordi di ogni appassionato (Strange New Planet su tutte), aggiungendo negli aspetti fusion anche qualcosa del lirismo del Pat Metheny più orchestrale (Bright Shimmering Lights, Soon I'll Be Leaving This World). Il gruppo che dà vita a questa magia si chiama Bryan & the Aardvarks ed è stato assemblato dal contrabbassista texano, ma residante a New York, Bryan Copeland, che insieme a Chris Dingman (vibrafono), Fabian Almazan (piano) e Joe Nero (batteria) aveva già realizzato nel 2011 Heroes of Make Believe e adesso amplia la formazione con l'ingresso di Lewis, appunto, e della cantante e chitarrista Camila Meza (attiva anche come solista) che con i suoi vocalizzi all'unisono con la chitarra di Lewis richiama inevitabilmente le Northettes degli Hatfield and the North (Supernova).

Le dieci tracce contenute all'interno di Sounds From The Deep Field hanno come ispirazione il campo profondo di Hubble (Hubble Deep Field), unite quindi in una sorta di concept sull'universo che sarebbe perfetto per un album a sfondo psichedelico o space rock. Ma il disco si muove in delicati campi di post bop melodico, aggraziato per la maggior parte dal tocco delicato del vibrafono e da quello armonico del piano, ma che sa anche farsi strada in momenti solisti più ricercati e avant-garde.


venerdì 12 maggio 2017

Bubblemath - Edit Peptide (2017)


No, i Bubblemath, anche se forse molti di voi non li avranno mai sentiti nominare, non sono degli esordienti. Quindici anni or sono debuttarono con il sorprendente Such Fine Particles of the Universe, un'opera prima che non mancò di destare sorpresa nei sotterranei della comunità progressive rock per una verve camaleontica, anticonvenzionale e iconoclasta. Da quel momento i fan attesero invano una seconda prova che il gruppo aveva già confermato e annunciato ma che, con il passare degli anni, era diventata una vera e propria chimera. La questione non era SE sarebbe stata realizzata ma QUANDO, poiché i Bubblemath, nonostante aggiornamenti dosati con il contagocce, non hanno mai fatto intendere di voler gettare la spugna. Per giustificare un tale gap temporale, la band ha parlato di una serie di sfortunati eventi: inconvenienti tecnici, problemi familiari e logistici, persino ritrovarsi anche solo poche ore alla settimana per provare il materiale era diventato difficoltoso testimoniando, loro malgrado, quanto sia complicato realizzare un album se il fare musica non è il tuo income primario. In effetti, ascoltando il risultato contenuto su Edit Peptide (titolo palindromo nello spirito goliardico/scientifico tipico del gruppo), non solo registrare e assemblare ogni brano avrà sicuramente impegnato un considerevole lasso di tempo, ma mixare e editare una bestia del genere deve essere stato un incubo.

Non c'è niente nel panorama odierno che assomigli anche vagamente ai Bubblemath, il loro frenetico taglia e cuci potrebbe trovare forse un parallelismo nel Mike Keneally dei tempi andati, ma i suoni orditi da Blake Albinson (chitarra, tastiere, sax tenore, voce), Jay Burritt (basso, voce), Kai Esbensen (tastiere, voce), James Flagg (batteria, voce), Jonathan G. Smith (chitarra, voce, flauto, clarinetto, percussioni, gong, glockenspiel, xilofono, dulcimer, mandolino, banjo) sono assolutamente unici. I costanti e convulsi cambi di traiettoria seguono di pari passo le liriche ancora una volta intrise di ironia e giochi di parole, come a voler smentire chi sostiene che il progressive rock è una musica che si prende troppo sul serio. Se tali premesse vi suggeriscono di scomodare anche il fantasma di Frank Zappa non siete poi tanto lontani dall'immaginarvi il maelstrom musicale che sono capaci di produrre questi cinque folli di Minneapolis.

In definitiva, la lunga incubazione a cui è stato sottoposto Edit Peptide (in uscita il 26 maggio per la Cuneiform Records) non ne ha intaccato la freschezza e anzi, arriva in un momento in cui, paradossalmente, il math rock progressivo gode di una popolarità underground piuttosto consistente. Di fronte a tutta questa scena Edit Peptide si pone come un gigante in grado di spazzare via qualsiasi concorrente e i Bubblemath si piazzano a loro volta avanti anni luce a chiunque "ora e in questo momento", figuriamoci se l'album fosse stato realizzato, che so, dieci anni fa. Edit Peptide è l'album math rock definitivo, un avant prog rock synthetico che arriva direttamente dal futuro.

Forse il gruppo ha voluto infrangere il record di cambi di tempo in un solo album o provare ad impallare qualsiasi metronomo ma, se pensavate che Such Fine Particles of the Universe fosse già di suo un lavoro complesso, dovrete preparavi ad ascoltare Edit Peptide mentre raccogliete la vostra mascella dal pavimento. Senza alcuna pietà i Bubblemath ci catapultano immediatamente nei dodici minuti di evoluzioni da capogiro di Routine Maintenance, accostando contrappunti dissonanti e ardite involuzioni armoniche. All'interno vi si trovano acrobazie disorientanti di botta e risposta tra strumenti e fusion cubista incline all'accumulo di deviazioni. Qui e in ogni brano quando un tema fa la sua ricomparsa non è mai stilisticamente uguale all'esposizione precedente. Su Destiny Repeats Itself, ad esempio, i Bubblemath mettono un'idea sul piatto, introducendola con una ritmica latinoamericana, che poi si divertono a smontare e rimontare attraverso incursioni fusion ed electro-prog.

Avoid That Eye Candy, per i loro canoni, è quasi accostabile ad una canzone pop prog con i suoi allegri passaggi funky e jazz. Questo è il massimo che la band può offrire in quanto a immediatezza ed infatti Perpetual Notion ci riporta su sentieri così musicalmente ingegnosi da procurare vertigini nel suo svolgersi a spirale. L'alto livello nell'abilità compositiva viene mantenuto tanto nelle atmosfere più melodiose di A Void That I Can Depart To e Get a Lawn, quanto in quelle più aggressive di The Sensual Con, fino a sembrare l'equivalente musicale di un cubo di Rubik manipolato a perdifiato o, al limite, un rompicapo tipo tangram. Inoltre, l'uso di strumenti insoliti tipo banjo e xilofono in un pezzo come Making Light of Traffic - plasmato similmente al flash rock degli Utopia di Todd Rundgren e a una versione post moderna della scuola di Canterbury - è imprevedibile e creativo tanto nell'alimentare la tensione melodica quanto nel dettare la ritmica.

Saltando repentinamente da un umore all'altro è comunque completamente inutile assegnare un'atmosfera ben precisa ai brani, ma la cosa più incredibile ascoltando Edit Peptide è che nelle sue continue evoluzioni non dà l'idea di toccare generi ben precisi come metal, jazz, classica, folk, ma fluttua in un universo a sé stante. Questa è musica che, molto semplicemente (o meglio, complicatamente), si spinge ai limiti nella frenetica ricerca di qualcosa di nuovo, in due parole: "progressive rock" nella sua accezione più compiuta.


domenica 7 maggio 2017

A Lot Like Birds - DIVISI (2017)


E' arrivato il momento di dare spazio su altprogcore agli A Lot Like Birds, una band che finora avevo solo menzionato di striscio, associandola ad altri act post hardcore come Dance Gavin Dance, Hail the Sun, Stolas, Sianvar. Quindi un po' di storia per chi ancora non è a conoscenza di questa band è quantomeno doverosa, in virtù di un'evoluzione piuttosto singolare: il primo album degli A Lot Like Birds, Plan B (2009), era composto da una formazione allargata, messa in piedi dal chitarrista Michael Franzino con tanto di fiati e archi che, per la maggior parte, collezionava brani strumentali con sporadici e selvaggi interventi vocali. La musica poteva richiamare in maniera abbastanza ingenua tanto il post rock quanto il math rock, entrambi rielaborati in modo da ricavarne un post hardcore sperimentale e orchestrale. Plan B poneva chiaramente in primo piano gli intenti ambiziosi degli A Lot Like Birds che, dopo questo lavoro, si stabilizzarono provvisoriamente come quintetto con Cory Lockwood (voce), Ben Wiacek (chitarra), Joseph Arrington (batteria) e Michael Littlefield (basso).

Non passò molto tempo però che il gruppo accolse tra le proprie fila anche Kurt Travis, cantante dei Dance Gavin Dance, il quale decise di separarsi da questi ultimi per entrare in pianta stabile negli A Lot Like Birds e condividere le parti vocali scream con Cory Lockwood. Conversation Piece (2011) e No Place, uscito nel 2013 per la Equal Vision Records, furono il risultato di tale sodalizio: due lavori capaci di accostare le più avvincenti melodie alle dissonanze più devastanti e aggressive, inquadrando la band tra le realtà più complesse ed estreme nel filone prog hardcore del dopo-Mars Volta. Per arrivare a DIVISI si è dovuti passare dall'abbandono di Littlefield, sostituito da Matt Coate, da un album buon solista di Franzino con lo pseudonimo di alone. dal titolo Somewhere in the Sierras e, infine, a ciò che ha segnato veramente il cambio di rotta stilistico del gruppo. Lavorando infatti al materiale per DIVISI è emerso, da parte degli A Lot Like Birds, la necessità innanzitutto di abbandonare le parti vocali più aggressive che Lockwood condivideva con Travis, alle quali quest'ultimo teneva particolarmente, facendogli quindi decidere di abbandonare i suoi compagni. Le seconde parti vocali sono state affidate a Coate, ma la scelta di basare la quasi totalità dell'album su clean vocals è stata talmente importante che Lockwood ha dovuto iniziare a prendere lezioni di canto, cavandosela piuttosto egregiamente, c'è da aggiungere.

Ma c'è un altro fattore che ai fan della prima ora farà risultare questa transizione a dir poco traumatica. L'album mette da parte completamente quella componente di hardcore sperimentale che faceva leva su violenti e repentini cambi di registro nell'atmosfera e animava gli imprevedibili assalti ritmici e canori. Nonostante ciò, a dire il vero, gli A Lot Like Birds si presentano con grande impatto già dall'artwork, grazie alla misteriosa presenza della bellissima e suggestiva cover ad opera del pittore Marco Mazzoni, ed inoltre scegliendo un titolo dal potente significato drammatico (almeno per noi italiani) che acquista un valore ancor più evocativo nella scelta dei caratteri in caps lock. Sommata a questi fattori la musica contenuta acquista maggior fascino, a riprova che un album molto spesso è una forma d'arte completa: visiva, musicale e letteraria.

DIVISI è un salto stilistico forse ancora più radicale rispetto a quello operato ultimamente, sempre nello stesso fronte, dagli Stolas e si pone quasi come una continuazione del progetto solista di Franzino, alone. Nelle note di For Shelley (Unheard), uno dei brani più riusciti, si ritrovano quelle impronte di alternative atmosferico e leggermente malinconico che portano a contaminare The Sound of Us e Trace the Lines con tracce di emo qua e là. In effetti il primo gruppo di canzoni è presentato in una veste sonica dalle dinamiche emozionali costruite appositamente per far presa sull'aspetto melodrammatico, anche se l'impresa è riuscita solo in parte poiché, escludendo la già citata For Shelley (Unheard) e Atoms in Evening, non c'è un chorus potente abbastanza da penetrare a fondo. Allora molto meglio il secondo blocco di canzoni, dove tali finalità non sono rilevanti alla riuscita del pezzo, ma gli A Lot Like Birds si concentrano piuttosto in una più equilibrata dimensione tra experimental hardcore e prog nella quale riemerge una visione d'insieme imponente che colloca l'accento sull'edificazione di arrangiamenti orchestrali (From Moon to Son) e finalmente dà il giusto e meritato risalto al lavoro ritmico di Arrington (Infinite Chances e No Attention for Solved Puzzles), alla ragnatela di basso funk di Coate (Further Below) e in generale alle parti incrociate delle chitarre di Franzino e Wiacek, che inoltre vengono affiancate a degenerazioni di electro-synth su Good Soil, Bad Seeds.

Non essendo mai stato un fan della ormai vecchia versione degli A Lot Like Birds proprio a causa delle harsh vocals, ho trovato in DIVISI una piacevole nuova veste per la band californiana che però ancora deve mettere a fuoco qualche idea. Se Franzino avesse provato a smussare gli aspetti più sperimentali del suo album Somewhere in the Sierras e li avesse applicati in questo contesto, probabilmente sarebbe uscito un lavoro più strutturato e coeso ma, a parte questo piccolo appunto, d'ora in poi seguirò gli A Lot Like Birds con più attenzione.


venerdì 5 maggio 2017

Palm - Shadow Expert (2017)


Ascoltare una canzone dei Palm significa preparasi a lasciare alle spalle ciò che abbiamo imparato sulla razionalità del pop e dell'indie rock. Già nell'album d'esordio Trading Basics avevano dato prova delle propria eccentrica e singolare visione melodica, ma nel nuovo EP Shadow Expert, in uscita il 16 giugno, rincarano la dose con una padronanza esemplare della materia.

L'approccio alla scrittura del quartetto di Philadelphia è totalmente fuori dalla norma e schizofrenico. Il nuovo singolo Walkie Talkie è una delizia cubista, quasi a ricordare le dissonanze armoniche vicine alle elucubrazioni avant-garde dei Time of Orchids e 5uu's. Gli spasmi delle chitarre di Eve Alpert e Kasra Kurt si contrappongono come nell'art pop idiosincratico dei Dirty Projectors (periodo Bitte Orca) e degli Shudder to Think, mentre i controtempi che si interpolano tra il basso di Hugo Stanley e la batteria di Gerasimos Livitanos approcciano il folle math rock dei Tera Melos.

I loro pezzi sembrano costruiti su giustapposizioni di parti differenti di canzoni e persino ogni membro pare seguire un proprio ritmo dissociato dal resto della band, creando una sorta di "tetraritmia". Magari ce ne possiamo rendere conto guardandoli dal vivo nella session che i Palm hanno realizzato negli studi Audiotree lo scorso giugno dove, tra i cinque brani suonati, hanno anche anticipato Two Toes e Shadow Expert, tratti dell'imminente EP.


giovedì 4 maggio 2017

At the Drive-In - in•ter a•li•a (2017)


Non credo di essere stato l'unico scettico leggendo la notizia di un nuovo album degli At the Drive-In a distanza di diciassette anni da Relationship of Command, eppure, devo ammettere, non hanno deluso le aspettative, almeno le mie. Da veri professionisti, gli At the Drive-In hanno sfornato un lavoro ineccepibile che riparte esattamente da dove eravamo rimasti, logicamente con il carico e l'esperienza di qualche anno in più. Perché non c'è delusione? Forse perché in•ter a•li•a è un album da non perdere? No. Molto semplicemente, è un album che ti dà ciò che vuoi sentire da una band come gli At the Drive-In. Puro e semplice. Curioso che a riprendere il discorso dove era stato interrotto siano stati gli stessi due membri che all'epoca vollero troncare ogni rapporto con quel gruppo (ossia Rodriguez Lopez e Bixler-Zavala), mentre chi avrebbe voluto continuare è oggi assente (Jim Ward, il quale si è persino astenuto da ogni commento, negandosi ad un'intervista del New York Times con tutta la band).

Per recensire in•ter a•li•a ribadisco quanto scritto a dicembre in occasione dell'uscita del primo singolo Governed by Contagions: "Tutto sembra avvolto da una gran voglia di preservare quello che è stato: l'ermetismo sociale e urbano evocato dal titolo e dai testi di Bixler-Zavala, la chitarra stridente di Rodriguez-Lopez e quell'atteggiamento post punk sottolineato dalle ritmiche e dalla metrica irregolare del cantato. Insomma, gli At the Drive-In sono tornati indietro al primo lustro degli anni Zero e sarà un piacere ascoltare con curiosità il loro nuovo imminente album, pubblicato via Rise Records e prodotto da Omar Rodriguez-Lopez e Rich Costey. La cosa che fa più male però, e si sente, è l'assenza di Jim Ward, dalla quale forse non mi riprenderò del tutto: una cosa è non vederlo sul palco accanto agli altri, un'altra è non averlo in studio durante il processo di composizione, in fase di registrazione e nel ruolo di voce comprimaria."

E' proprio così: tornano i gloriosi testi in formato criptico di Bixler-Zavala, questa volta influenzati dall'opera di Philp K. Dick poiché "la sua visione è la più paranoica e la più vicina alla realtà odierna", torna persino l'artista Damon Loks che si era occupato dell'artwork di Relationship of Command, manca solo Ward (al suo posto alla chitarra c'è Keeley Davis che aveva militato negli Sparta). E dire che la voce un po' acciaccata dagli anni di Bixler-Zavala avrebbe tratto giovamento da qualche attimo di pausa. Tutto è comunque ben preservato, anche la rabbia sembra genuina: gli At the Drive-In non sono più dei ragazzini punk che si dimenano febbrilmente come dei tossici tarantolati, ma degli adulti consapevolmente incazzati, dato che il mondo di oggi gliene dà motivo.

A dirla tutta No Wolf Like the Present non apre il disco nel modo epico che ci si aspetterebbe: è un veloce punk memore delle cose più semplici che Bixler-Zavala e Rodriguez-Lopez hanno realizzato nella parentesi Antemasque. A partire da Continuum comincia a farsi largo quella visceralità trasmessa dal cantato da comizio di Bixler-Zavala insieme alle chitarre contorte e deraglianti che poi ritornano su Call Broken Arrow e Pendulum in Peasant Dress. Arrivati a Tilting at the Univendor l'album imbocca il giusto indirizzo in quello che è di sicuro il pezzo più riuscito, insieme a Torrentially Cutshow, nel ricreare quel surrogato di hardcore melodico che si piazzava al confine tra In-Casino-Out e Vaya EP. Avendo questi due pezzi come termine di paragone si percepisce una certa atmosfera da esercizio di stile in altri episodi come Incurably Innocent, Hostage Stamps e Holttzclaw. Esercizio portato a termine a pieni voti, ben inteso: solo Bixler-Zavala e Rodriguez-Lopez, dopo aver rivoluzionato il progressive rock da indomiti guastatori con i The Mars Volta, sanno ancora come riportare a galla la loro natura hardcore delle origini.

L'unico appunto, che forse apparirà chiaro ad alcuni o negato e nascosto dal subconscio ad altri, è che gli At the Drive-In hanno spogliato in•ter a•li•a delle sperimentazione più ardite di Relationship of Command e lo hanno rivestito come una versione aggiornata di In-Casino-Out, ma senza quella sua immane drammaticità emotiva. Ne viene fuori un post hardcore prodotto benissimo, di nuovo senza sovranincisioni che ne camufferebbero l'urgenza genuina punk, ma impacchettato in una veste più presentabile e accattivante, come se fosse diventato improvvisamente popolare anche al di fuori della scena alternativa.

mercoledì 3 maggio 2017

gP. - Destroy, So as to Build (2017)


Fin dall'esordio con l'EP Foundation, i Ghost Parade hanno destato in me un certo interesse per la loro energetica fusione tra post hardcore e alternative rock. Dall'uscita di quell'EP risalente al 2013 il gruppo è rimasto piuttosto inattivo dal punto di vista delle pubblicazioni, a parte un inedito realizzato nel 2014 (Drugs with strangers, on lovers), incluso in uno split single con gli Idlehands (che per la cronaca si sono sciolti dopo un solo album), il quale certificava una notevole crescita.

I Ghost Parade nascono a San Francisco nel 2012 per volontà dei due chitarristi Justin Bonifacio e George Woods ai quali si aggiungono Kenny Rodriguez (basso) e Anthony Garay (batteria). Dopo l'EP e il singolo succitati, i quattro continuano ad esibirsi in concerti nel circuito alternativo statunitense mentre contemporaneamente preparano altri brani inediti che andranno a finire in questo nuovo lavoro. Nel frattempo il tempo passa e i Ghost Parade si ribattezzano nel 2016 con le sole iniziali gP. e, negli ultimi mesi dello stesso anno, annunciano la pubblicazione di Destroy, So as to Build per i primi mesi del 2017. Presentato come un secondo EP, anche se la durata di 35 minuti lo può accostare tranquillamente alla definizione di mini album, Destroy, So as to Build è stato pubblicato digitalmente il 28 aprile.

La produzione molto curata, attenta a dare risalto ad ogni aspetto e pronta a sottolineare i contorni di ogni deviazione tematica, polifonica o ritmica, fa delle canzoni di Destroy, So as to Build qualcosa di più che semplici inni alternative rock. Continua, come era accaduto su Foundation, quella sensazione di sintesi tra il prog dei The Dear Hunter e il post hardcore dei The Receiving End of Sirens anche se in versione più accessibile, ma questa volta, come era lecito aspettarsi, i gP. sono cresciuti: a questo punto sanno come gestire le dinamiche, essendo coinvolgenti sia nei momenti quiet che in quelli loud, si destreggiano in abbellimenti ritmici, talvolta frenetici altre volte sincopati al fine di creare tensione continua e crescendo infuocati. Non c'è un brano che risalti su un altro o un calo di pathos, ogni traccia di Destroy, So as to Build ha da offrire qualcosa e il livello di scrittura rimane pressoché invariato, nel senso che se uno qualsiasi di questi pezzi farà presa su di voi, allora vi piacerà tutto l'album.



Link su soundcloud per chi non avesse Spotify

martedì 2 maggio 2017

Altprogcore May discoveries


L'album Vetur del quintetto islandese VAR è praticamente una raccolta che contiene i primi due EP della band rimasterizzati con l'aggiunta di quattro brani inediti. Una compilation pensata inizialmente per il solo mercato giapponese (dove è stata pubblicata nel 2016) e che ora i VAR rendono disponibile in versione digitale per tutti. Vetur può essere così considerato come il primo full length del gruppo che, neanche tanto per coincidenze geografiche, possiede un sound malinconico e delicato simile a quello dei Sigur Ros. L'evocativo post rock dei VAR si lascia comunque scoprire lentamente, forse con caratteristiche più terrene e meno eteree, ma pur sempre indirizzato a creare paesaggi sonori crepuscolari.



I Lambhorn sono invece un quartetto strumentale di "surf prog" (definizione loro) con all'attivo solo un EP risalente al 2014. Chris Lambourne, Nathan Long (chitarre), Oliver Cocup (batteria) e Ben Holyoake (basso) hanno appena pubblicato il lungo brano Cascade che mi ha immediatamente colpito. Le multipartizioni dei vari cambi che avvengono nei suoi dieci minuti hanno il sapore post progressivo e psichedelico di illustri ispiratori come Pink Floyd, Dredg e Ozric Tentacles.


Per quanto riguarda i bostoniani Bat House erano già entrato nel mio radar lo scorso anno grazie ad un EP che ora, insieme ad altre canzoni, viene qui incluso e pubblicato nell'omonimo esordio del gruppo. Bat House è un trip di garage math rock psichedelico sotto al quale sono sepolte pop songs insolite, guastate da pause e accelerazioni, sequenze electro-noise ed un velo lo-fi che pervade tutto l'album.


I Conxux sono un trio di Los Angeles nato da qualche anno, ma che finora ha reso noti soltanto i due brani qui presenti. Con un'impostazione triangolare che ricorda i GoGo Penguin, i tre suonano un nu jazz ancora più tecnico che si avvale del piano di Dani Ahndreç, delle ritmiche matematiche di David Daniel Diaz (batteria) e Khris Kempis (basso).



I FES sono tre ragazzi inglesi che suonano math pop nella stessa vena di Signals. e Orchards. Capitanati dalla cantante Polly Holland-Wing, il gruppo ha preso vita da più o meno un anno, ma ha già realizzato il presente EP di quattro tracce You Do You.

lunedì 1 maggio 2017

Branch Arterial - Beyond The Border (2017)


Talvolta i tempi tecnici di produzione per un album possono durare veramente molto (avete qualche nome in particolare che vi viene in mente? Magari che inizia con la T). In altri casi, come quello degli australiani Branch Arterial, si mette di mezzo la sfortuna. Formati nel 2009 a Melbourne, dopo aver prodotto l'EP Voices Unknown (2011), nel 2013 la band inizia i lavori per il proprio album di debutto. Se non che, il bassista Kade Turner viene coinvolto in un terribile incidente motociclistico in Sud America che quasi gli costa la vita e, poco dopo, il cantante Nigel Jackson ha dovuto iniziare un trattamento contro una malattia per la quale si è dovuto sottoporre a trapianto di midollo osseo. Capirete che i Branch Arterial sono andati forzatamente in ibernazione a causa di questi tragici eventi, aspettando l'esito del ricovero di entrambi i membri. Un po' come la recente storia di Daniel Gildenlow, tutto è andato per il meglio, i due si sono rimessi e il lieto fine prevede che il quintetto è finalmente riuscito a realizzare l'album Beyond The Border, co-prodotto insieme a Julian Meyer.

Per i fan di gruppi australiani in odore di progressive metal e alternative rock come Karnivool, Dead Letter Circus, Chaos Divine e Twelve Foot Ninja, Beyond the Border può essere collocato accanto alle release di questi senza problemi. Brani come Waste Away, My Curse e Dreamer, con i loro riff che si camuffano tra metal e djent, rappresentano immediatamente una dichiarazione d'intenti indirizzata verso le tendenze odierne del prog metal. Quindi abbiamo molta tecnica da una parte, ma anche brani in grado di piegarsi a strutture contenute nel classico formato canzone con esiti a volte molto gradevoli come nel caso di New Way Home. Mentre l'ottima sezione ritmica in grado di combinare metal, funk, fusion, mostra i muscoli mettendosi molto spesso in primo piano, la voce femminina di Jackson, con un timbro simile a Geddy Lee, assicura un apporto melodico che equilibra l'inclinazione massiccia di certi passaggi, un esempio di stile che raggiunge un aspetto più chiaro su Alone Together. Insomma, contando sui paragoni dei gruppi precedentemente citati, non aspettatevi chissà quali rivoluzioni dai Branch Arterial, ma Beyond The Border può fungere da buon calmante nell'attesa del nuovo lavoro dei Karnivool.