Visualizzazione post con etichetta Recensioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Recensioni. Mostra tutti i post

martedì 22 aprile 2025

Michael Woodman - Hiss of Today (2025)


Messi in pausa i Thumpermonkey ormai da un po' di tempo, il chitarrista e frontman del gruppo Michael Woodman si è dedicato ad un quieta ma ispirata carriera solista, prima con l'EP Psithurism (2021) e ora con il suo vero e proprio primo album di debutto Hiss of Today. Con questo lavoro sembra quasi che Woodman si sia prefissato uno scopo artistico con i mezzi a disposizione, puntando su una solita minuziosa ricerca timbrica della chitarra attraverso intrecci arpeggiati, riverberi cosmici e lontani vortici sintetici.

Nella sua descrizione dell'album, in cui Woodman rivela un'ispirazione esoterica riferita al personaggio di William Robert Woodman fondatore dell'Hermetic Order of the Golden Dawn, racchiude sinteticamente ed efficacemente il senso estetico musicale con il termine hauntology, genere che trae i suoi principi dall'avanguardia e si applica volentieri a territori rock. In effetti i loop a spirale, i continui accavallamenti di eco in cui Woodman cerca di immergere la sua musica, creano un'aura persistente di sottofondo mistico, come se da un album barocco/casalingo se ne volesse ricavare un profondo rituale laico.

Questo è ciò che si deduce dall'introduttiva V.I.T.R.I.O.L/ No Moon, No Throne dove la batteria programmata e l'incontro tra il basso minaccioso e l'elegiaca atmosfera data dalla chitarra creano un corto circuito tra lo-fi e psichedelia. Le fa da contraltare il finale da corale innodico Telomeres che, con il suo organo spaziale al quale si aggiungono note allungate di chitarra memori della frippertronics, pare chiudere un cerchio magico musicale.

La sensazione di astrazione si acuisce nell'ipnotica Ignathox, che pare un'improvvisazione per solo voce e chitarra, un po' fingerstyle un po' space rock, anche se dietro c'è una formula ben studiata. Ci sono poi brani più concreti come The Button e il singolo Lychgate (con Kavus Torabi come ospite) dove risorge quel rock alternativo obliquo e non convenzionale dei Thumpermonkey, ma come sempre il "viaggio" della struttura che traghetta dal punto A al punto B conta come un valore aggiunto. E nel suo bilanciamento tra forma canzone e sperimentazione lo-fi Lapsed rappresenta un buon punto di incontro tra le due facce dell'album, sperimentale e cantautorale.

Sia con i Thumpermonkey che da solista la penna ispirata di Michael Woodman non perde quella originalità di autore a cui piace uscire volentieri dagli schemi preimpostati, sia dell'alternative rock che del prog, confermando di muoversi sempre in territori musicali insoliti e stimolanti.

sabato 12 aprile 2025

The Mars Volta - Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio (2025)


I Mars Volta, al di là del rilevante o meno successo commerciale ottenuto, è innegabile che siano stati tra i più influenti innovatori del rock degli anni 2000. I loro paradigmi sonori si ritrovano oggi anche in band che ruotano al di fuori del prog o del post hardcore, i due generi che vengono principalmente ricollegati al duo Bixler-Zavala e Rodriguez-Lopez. Gli album dei Mars Volta sono stati così radicali nel reinterpretare certi schemi musicali da risultare amati o odiati senza mezze misure. Eccessivi a volte, sperimentali in più di un’occasione, ma mai banali. Come Zavala e Lopez lo sono stati nella loro “prima fase”, lo sono anche adesso, in questa nuova forma, ripartita ormai tre anni fa in modo inaspettato e totalmente differente a livello estetico, tanto che ancora una volta in tale incarnazione non assomiglia a nulla che è là fuori. Questo lo si può affermare adesso, con ancor più cognizione e al di là dei gusti personali, con l’arrivo di Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio, un lavoro sempre teso ad esplorare territori musicali alieni, divisivi e coraggiosi. 

Come già rilevato per il precedente omonimo album, i Mars Volta del presente non hanno quasi più nulla da condividere con il massimalismo dei loro primi album, Lucro Sucio è allo stesso tempo una dichiarazione di intenti e una conferma che quei Mars Volta sono defunti, o comunque che non torneranno mai in quella forma devastante e caotica. Il minimalismo, anzi, guida ogni particolare collegato a Lucro Sucio. A partire da come si presenta nella sua confezione molto essenziale, priva di credits, priva di testi e, a fungere da artwork, solo quella che è stata descritta dall'autore Adán Guevara come una mappa misteriosa che rivela una posizione ben precisa. 

Questa volta anche la presunta promozione preventiva dell’album è stata ammantata di mistero visto che, non solo il leak è stato alquanto prematuro per questi tempi (due mesi prima dell’uscita ufficiale), ma anche il fatto che da quel momento il gruppo e la label si sono trincerati in un silenzio quasi sospetto, senza annunci ufficiali di pre-ordini o altre consuetudini promozionali che si adottano in questi casi, dichiarazioni via social e quant'altro, in modo da far pensare che fosse tutta una stranissima mossa commerciale. Insomma, fino a qualche giorno fa il gruppo non aveva parlato o bombardato i social con promo, singoli o preview riguardanti l'album. Tutto è stato condotto a basso profilo, quasi dando l'impressione che Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio sia un album fantasma. L’unica tangibile esternazione al riguardo è venuta anch’essa in modo radicale e inconsueto, ovvero suonarlo a sorpresa nella sua interezza nelle date recenti di supporto ai Deftones. Una scelta coraggiosa comunque, molto più coerente rispetto al tour che era seguito al precedente omonimo album, nel quale la scaletta era dedicata per lo più a De-Loused in the Comatorium, forse più per celebrarne il ventennale che non, viene da pensare ora, a causa dell’avere poca fiducia sul nuovo materiale. 

A parte questa digressione Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio si distanzia e allo stesso tempo conferma in modo equo il nuovo corso dei Mars Volta. E' oggettivamente il loro album più sperimentale, per quanto possano esserlo stati quelli passati, ma in queste diciotto tracce i Mars Volta costruiscono un puzzle composito eppure omogeneo costituito da brevi abbozzi, ballads latinoamericane, intarsi jazz ed elettronici sospesi tra passato e futuro e brani spezzati o frammentati in più parti. Di nuovo l'atmosfera è rilassata, suadente, talvolta intima, le chitarre lasciano volentieri spazio alle tastiere, le ritmiche si dividono anch'esse tra elettroniche e quelle più tangibili e reali con l'ausilio di percussioni e infine anche il cantato di Bixler-Zavala si adegua con falsetti, delicati melismi o ricorso a timbriche sfruttate pochissimo nella sua carriera.

Se The Mars Volta voleva essere un ritorno alle origini musicali portoricane di Rodriguez-Lopez, Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio è l'altra faccia della medaglia che esplora un jazz rock spaziale ed etnico, anche se "rock" in questo caso è una parola da usare con cautela. "Soft pop avant-garde" verrebbe da chiamarlo. La parte più riuscita sono le prime quattro tracce, nelle quali si percepisce un reale impulso di cambiamento costruttivo in positivo. Con l'arrivo di The Iron Rose e Cue the Sun si ritorna sui lidi del precedente lavoro, ma proseguendo non mancano buone intuizioni. Alcune fanno pensare ad una continuità con Noctourniquet in chiave cantautorale (Voice in My Knives, Un Disparo al vacío), altre ad una ricerca di lidi che possano offrire spiragli di reale e convincente progressione artistica (Cue the Sun (reprise), Celaje).

Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio è un passo importante nel consolidare cosa vogliono essere i nuovi Mars Volta e pare aver le giuste intuizioni che però si potrebbero spingere maggiormente su territori progressive e meno su quelli in forma di canzone, elemento che sottrae fascino ad una musica che in questo caso rivela potenzialità più "espansive". Ciò che è sicuro è il potere polarizzante di Lucro Sucio; Los Ojos Del Vacio, un album che ha veramente caratteristiche per non passare inosservato, può piacere o meno, ma come una vera opera d'arte non lascia indifferenti.


 

domenica 9 marzo 2025

Steven Wilson - The Overview (2025)


Facciamo un gioco. Proviamo ad immaginare che Steven Wilson dopo The Raven That Refused to Sing non si sia mai distaccato dal progressive rock, che non si sia mai fatto tentare dal pop con velleità sofisticate (To the Bone, The Future Bites) o da un solipsismo tracotante ed eclettico che ha generato cose più apprezzabili ma tuttavia che rasentano l'esercizio di stile (The Harmony Codex, Hand.Cannot.Erase). Per quanto un artista senta il bisogno di cambiare traiettoria, per quanto abbia tutto il diritto di sentirsi libero di cimentarsi in altri ambiti stilistici, ci sarà sempre un legame in cui si sente a proprio agio e gli permette di essere più ispirato, in pratica di "ritornare a casa". Il fine del gioco è realizzare definitivamente che, quando si parla di Steven Wilson, questa caratteristica venga più in evidenza e con The Overview ha preso di nuovo il sopravvento.

Non ho mai fatto mistero della mia personale "antipatia" per il corso intrapreso negli ultimi anni da Wilson e non perché ritengo che debba dedicarsi esclusivamente al progressive rock, solo che ho sempre avuto l'impressione che con altri stili non riesce a connettersi a dovere e produrre qualcosa di convincente. Il suo nuovo album presenta solo due lunghe suite, ispirate non tanto a un concept quanto all'idea dell' "effetto della veduta d'insieme" ("The Overview" appunto), ovvero una particolare condizione di cambiamento cognitivo riscontrato negli astronauti che, una volta nello spazio, realizzano come la Terra sia un piccolo e fragile pianeta dove tutto ciò che è stato nel tempo costituito dall'uomo (conflitti, confini, religioni, ecc.) diventa all'improvviso insignificante di fronte alla precarietà del nostro pianeta fluttuante nell'universo. Una variante del discorso sul "Pale Blue Dot" di Carl Sagan in pratica.

L'intrigante premessa tematica si riflette nella musica più ispirata creata da Wilson dai tempi di Grace for Drowning a questa parte. Finalmente si sente scorrere linfa nuova nell'uso della sua voce (con tutti i limiti che si porta dietro), nel ricorso a multistrati vocali sfruttati in modo creativo, così come inconsueti timbri di tastiere e chitarre elettriche i quali, è vero che richiamano le asprezze di Yes e King Crimson, ma assumono una personalità tutta propria nel contesto sonoro.

La prima parte - Object Outlive Us - mette in prima linea il piano acustico e i temi musicali vengono sviluppati e impiegati forse in modo ridondante, ma in generale piacevolmente. Insistenti cori marziali si scontrano con cadenze reiterate minimali, come nel pop dei Field Music, ma allo stesso tempo imponenti e psichedeliche come nei Knifeworld. La parte strumentale che inizia circa dopo 14 minuti dall'inizio è tra le cose più interessanti prodotte da Wilson negli ultimi anni, una jam in cui si insinuano chitarrismi alla Steve Howe e Robert Fripp, mentre il groove ritmico spinge senza sosta.

Sulla title-track ritorna l'amore per le ritmiche elettroniche breakbeat, retaggio dei primissimi Porcupine Tree degli anni '90, quando Wilson era affascinato dai suoni IDM dei The Orb e dei Future Sound of London. La parte che segue forse è l'unico punto debole di tutto l'album, modellata come una più che ordinaria ballata per chitarra e piano, svogliata come un pezzo di David Gilmour, dimenticabile come una b-side di british pop. Il resto è una costruzione di suoni e accordi di tastiere avvolgenti che sfiorano la muzak e la fusion, dove si respira veramente del prog accattivante, soprattutto nelle varianti degli assoli che si susseguono, tra chitarre, synth e tastiere. Il tutto si chiude con lunghe note ambient di tastiere che sembrano provenire dal progetto collaterale Bass Communion.

Con The Overview Steven Wilson sembra perseguire un proprio ideale su grande scala alla Mike Oldfield, dove a tratti compaiono stratificazioni strumentali e architetture sonore che lasciano da parte l'ambizione in favore di un'organizzazione strutturale focalizzata su un fluire coerente e ben collegato. Al di là di tutte le voglie di peregrinazione stilistica che si è potuto togliere Wilson come artista, in definitiva si sente che è questo che deve perseguire e che gli riesce meglio. Intendiamoci, The Overview non è un capolavoro, ma almeno in questo caso la componente sonica e timbrica funziona meglio che altrove e possiede un sapore nuovo, svolto in modo molto più efficace rispetto agli album precedenti, strombazzati dall'autore all'epoca quasi come produzioni che sondavano territori musicali inediti, quando in realtà, con il senno di poi, non hanno lasciato un granché.

venerdì 1 novembre 2024

Isbjörg - Falter, Endure (2024)


Da ormai più di un anno e mezzo fa i danesi Isbjörg avevano iniziato la marcia che ha portato a questo secondo album, che arriva dopo Iridescent del 2019, cominciando con il pubblicare il primo singolo Ornament (di cui qui abbiamo un'intervista) e con l'occasione presentare anche il nuovo cantante entrato in formazione Jonathan Kjærulff Jensen. Arrivati adesso a Falter, Endure i sei mostrano tutta la potenzialità di quello che loro chiamano "math-stadium rock", qualità che già risplendevano nei cinque singoli usciti in anteprima.

La peculiarità degli Isbjörg è quella di porre il riflettore del loro sound sul piano acustico suonato da
Mathias Bro Jørgensen e, nonostante ciò, il gruppo consiste anche di due chitarre ad opera di Dines Dahl Karlsen e Lasse Gitz Thingholm. Quindi niente trucchi con tastiere o sintetizzatori, ma solo un forte senso di pop pianistico amplificato su grande scala. Questo si traduce in un suono corposo e stratificato, che magari l'imperante supremazia del prog metal di oggi potrebbe far erroneamente includere gli Isbjörg all'interno della sua sfera. Invece le melodie cristalline e gli impasti elettroacustici sognanti concorrono a donare una proposta del tutto personale alla musica del sestetto. Per l'epica e solennità del sound è come se fossero una versione prog rock dei conterranei Mew votati però ad un indirizzo AOR. 

La componente che fa auto-definire il prog della band come "stadium rock" è presto spiegato dalle altisonanti e cristalline armonie (vocali e strumentali) del primo brano Ornament, ma tutta l'estetica dei brani è indirizzata verso una resa grandiosa attraverso ampie e ariose melodie che si dispiegano oltre con Homeward Bound, l'avvolgente finale di Under Your River (il cui ultimo inciso anticipa il chorus della conclusiva The River of You) e Afterglow, non perdendo tale caratteristica neanche quando i riff di piano e chitarra si incontrano in intrecci dal sapore melodrammatico come su Am I the Sinner Now?.

Il fatto di rendere i brani accattivanti non impedisce agli Isbjörg di costruirci sopra intermezzi, articolazioni e sviluppi con poliritmie in cui una costante e sottile sensazione di uno scopo sinfonico-avventuroso si possa applicare ad una musica così emotiva ed avvincente. Ad esempio i saliscendi dinamici di Solitaire o la multipartita mini suite Dressed in White Lies sono due picchi espressivi dell'album dove il gruppo espone una gran competenza per un linguaggio prog moderno che non guarda affatto al passato, anzi, nella seconda si stagliano persino echi della teatralità dei The Dear Hunter. Ben vengano quindi album come Falter, Endure piantati nella contemporaneità del prog e che cercano di ritagliarsi un posto senza rifarsi per forza a stilemi precedenti ormai riconoscibili, ma provando a trovarne uno proprio. 

venerdì 4 ottobre 2024

Geordie Greep - The New Sound (2024)


L'annuncio improvviso lo scorso agosto della fine dei black midi penso abbia colto di sorpresa quasi tutti coloro che li conoscono. Altrettanto sorprendente è stata la velocità con cui il frontman Geordie Greep ha pubblicato il suo primo album da solista, registrato per la maggior parte in Brasile con musicisti trovati in loco per un totale di una trentina di persone coinvolte, oltre alle ospitate degli ex black midi Morgan Simpson e Seth Evans. The New Sound è contemporaneamente il titolo dell'album, il nome della band e una dichiarazione di intenti. Il distaccarsi dal suono originario dei black midi era quindi già prefigurato, ma in tutta sincerità non sapevo quale indirizzo avrebbe potuto prendere la carriera solista di Greep, ma di sicuro niente che potesse accostarsi a tale livello. 

Se questo deve essere ciò che la dissoluzione dei black midi ha generato, allora ben venga la loro morte. Tutto ciò per dire ancor più chiaramente che The New Sound in termini di risultati supera di gran carriera quanto prodotto da quella band nell'arco di tre album. Magari non sarà giusto fare paragoni, ma Greep è stato pur sempre un membro fondatore dei black midi ed un confronto con il repertorio che ha contribuito a scrivere è inevitabile. La maturazione di Greep come direttore artistico e principale motore del progetto è impressionante e a questo punto è lecito sospettare che la band fosse per lui un freno, il che è paradossale visto che il trio inglese aveva fatto della libertà sperimentale il proprio cavallo di battaglia. Eppure The New Sound sa percorrere strade ancor più avventurose e avvincenti. Senza mezzi termini, qui siamo di fronte ad una resa grandiosa: lo spettro sonoro coperto, la visione musicale di Greep, l'esecuzione musicale dell'insieme, l'organizzazione strumentale, sono qualcosa di impressionante se si pensa poi alla giovane età dell'autore.

Su The New Sound Greep costruisce un ensemble dai forti connotati musicali latino-americani, per ciò che riguarda le ritmiche (salsa, samba, rumba) e certe armonie estratte dalla bossa nova. Questo ultimo aspetto si arricchisce da sprazzi jazz, fusion e prog, che riprendono le pirotecniche linee math rock e sperimentazioni avant-garde dei black midi, ma con un gusto di profondità melodica e strumentale degna della maniacalità degli Steely Dan. La componente cabarettistica che nei black midi era accentuata proprio dall'istrionismo canoro di Greep in questo caso lascia spazio ad un crooning da big band in un connubio, come anche il cantante sottolinea, tra Frank Zappa e Frank Sinatra

Sinceramente stupisce come Greep abbia orchestrato e concepito un disco del genere, così sontuosamente ricco negli arrangiamenti e nelle stratificazioni. In ogni passaggio o cambio di direzione sono nascosti tanti particolari timbrici che formano un corto circuito tra sonorità lounge jazz/funk anni '70 e lo sfoggio di tecnicismo moderno, non indirizzato però al virtuosismo ma all'accrescere le potenzialità della prospettiva sonora e timbrica. Forse a descrivere ogni brano si fa un disservizio alla sorpresa che ognuno di questi può suscitare, anche perché non ce n'è uno che risalti sopra ad un altro, l'eccellenza in questo caso trabocca nella totalità di tutte le tracce. Un esordio di tutto rispetto, forse anche di più. I black midi sono morti, lunga vita a Geordie Greep.

martedì 24 settembre 2024

Paul Hanson and Raze The Maze - Calliope (2024)


Ci voleva un fagottista per concepire uno degli album prog più avventurosi di quest'anno. Proprio così, Calliope è stato realizzato da Paul Hanson in collaborazione con i Raze The Maze, ovvero il duo formato dagli ex MoeTar Moorea Dickason (voce) e Tarik Ragab (basso) che, se già conoscete, potrete avere un'idea dello stile che crea un crossover tra fusion e pop matematico, qui condotto su confini ulteriormente avanzati. Hanson ha ovviamente una formazione classica, ma il suo impegno a far sconfinare il proprio strumento nei reami del jazz lo ha portato a collaborare con leggende del calibro di Jon Batiste, Wayne Shorter, Béla Fleck e Billy Cobham, il quale è qui presente come ospite in un brano.

Come è chiaro fin dalle prime due tracce - When is Enough? e KDB (Kithairon Deluxe Band)Calliope si cimenta in un frenetico funk jazz con venature math rock ma che, nonostante premesse cervellotiche, si dipana in molteplici sentieri abbastanza orecchiabili, non disdegnando quindi sensibilità art pop caratterizzato dal cantato in contrappunto della Dickason. Il risultato può essere paragonato ad una versione moderna dei Bruford (nella prima incarnazione con Annette Peacock) o, se volete paragoni più attuali, come una spettacolare fusione tra il fusion prog dei Finneus Gauge (band di breve vita creata dal tastierista Chris Buzby degli echolyn) e i Knower (per questo si ascolti l'ultima traccia Doorknocker).

Per capire ulteriormente quali coordinate imbocca l'album, nella title-track siamo dalle parti della Canterbury school più evoluta (quella dei National Health per intenderci) che poi si è propagata negli USA con However e Happy The Man, cioè quella frangia che non si tirava indietro nel dare spazio a strumenti classici inusuali prestati al rock. Se siete familiari e apprezzate i riferimenti, Calliope è un disco da non perdere e che ha molto da offrire anche dopo molteplici ascolti.


mercoledì 4 settembre 2024

Marianas Trench - Haven (2024)


Nella loro carriera i Marianas Trench, guidati dall'ispirazione trascinante del cantante e autore Josh Ramsay, si sono cimentati in un emo power pop indirizzato verso connotazioni grandiose, magniloquenti e, quasi a legittimare tale indirizzo, per ogni album è stato scelto un concept o un tema portante che andasse a legare le varie canzoni. Haven, sesta opera in studio che segna una pausa di cinque anni dal precedente Phantoms, non fa eccezione ed è forse il picco creativo del gruppo canadese in questa continua ricerca della pomposità barocca applicata al pop, detto con tutta l'accezione positiva del caso. "Opera" è un termine scelto non a caso, visto che i Marianas Trench non hanno mai nascosto la propria volontà di creare una musica teatrale e altisonante che, a partire dal secondo album Masterpiece Theatre (2009), ha scavalcato i confini dell'originario emo pop presentato su Fix Me (2006). Da quel momento i Marianas Trench hanno allargato i propri orizzonti toccando power pop, synphonic rock, art pop e dance pop. Non a caso i loro punti di riferimento si possono rintracciare in Queen e Jellyfish

Su Haven c'è tutto questo e anche di più, ovvero si aggiunge una completa disamina di richiami al synth pop e new wave anni '80 ma infarciti di una episodica frenesia citazionista e un vortice di idee barocche da suonare maledettamente attuale. Anche per Haven Ramsay ha dichiarato che era alla ricerca di un tema conduttore e quando la scelta è caduta sul libro "L'Eroe dai Mille Volti" dello studioso di mitologia comparata Joseph Campbell (mmmh, mi ricorda qualcosa) è sembrata fatta apposta per sposarsi in musica con il carattere "cinematico" dell'album, amplificato dall' intervento della Vancouver Film Orchestra diretta da Hal Beckett. Rimane invariata anche la tipologia di struttura data alla tracklist, ovvero aprire e chiudere l'album con due epic tracks e sbizzarrirsi con canoni pop per il resto dello spazio. Direi però che questa volta la materia delle tracce in teoria più "frivole" si spinge spesso nella direzione avventurosa esposta nelle due mini suite. In più la sempre dotata vocalità di Ramsay si dimostra particolarmente in grande spolvero e si fa più ricorso alle abili armonizzazioni vocali di tutta la band. 

 A Normal Life dispone i tasselli per un esaltante viaggio, dando sfogo in sette minuti ad un caleidoscopio di arzigogoli prog, glam ed emocore in un connubio tra i Silverchair dell'era Diorama e i Biffy Clyro di ultima generazione, piuttosto votati al pop mainstream ma aggressivi quando serve. Anche nella successiva Lightning and Thunder si potrebbe intentare un paragone con il trio scozzese, con maggior riferimento al periodo centrale della loro carriera. Da qui in poi la grandiosità di A Normal Life lascia il passo ad un pop rock più immediato ma non privo di evoluzioni, salvo poi tornare occasionalmente. In special modo sui vertiginosi inserti orchestrali di Worlds Collide e sui mutevoli temi cha danno carica melodrammatica alla title-track, che nel finale si ricollega tematicamente alla prima traccia. In ogni caso, anche nelle canzoni spiccatamente accattivanti, i Marianas Trench giocano con le forme in un saliscendi contrastante che passa dal pop più complesso a quello più zuccheroso, evitando anche la trappola di apparire fastidiosi ogni volta che propongono un "signature sound" derivato dalle classiche hit anni '80. In questo caso, personalmente, riescono a farmi piacere delle cose che normalmente rigetterei, come alcune modulazioni verso il dance pop reminiscenti del loro album Ever After (2011). 

A ben vedere Haven mescola e somma tutti i mutamenti che i Marianas Trench hanno toccato nei loro album precedenti e li fa convivere con un tocco estroso ed eclettico che ha contribuito ad evolvere la musica fino a renderla più avventurosa (come il viaggio dell'Eroe di campbelliana memoria per altro). Forse è per questo che Haven è il loro lavoro migliore.

lunedì 2 settembre 2024

Zane Vickery - Interloper (2024)


Un album spesso diventa un diario a cuore aperto del proprio vissuto e, nel caso riguardi un evento drammatico, è molto probabile che la sua intensità vada a intensificare l'emotività della musica. Questo in pratica è, in due righe, il contenuto di Interloper, secondo album del cantautore Zane Vickery. Un disco che si rivela una bestia di 73 minuti, risultato di due anni di travagliato lavoro nei quali Vickery si è ripreso da un quasi mortale incidente stradale causato da un guidatore ubriaco che purtroppo non si è salvato dallo scontro. Interloper riguarda un profondo processo di introspezione con il quale Vickery ha reagito all'accaduto, sentendosi responsabile per il tragico destino dell'altro guidatore tanto da sentirsi in colpa per essere sopravvissuto, pur non essendo lui la causa dell'evento. E a questo punto si apre tutta una parentesi sul perdono, sulla provvidenza divina che ci dà segnali e ci guida verso scopi a noi ignoti, sul credere in qualcosa di superiore che ci fa vivere momenti difficili e corregge la nostra morale attraverso ciò che accade nella nostra vita. In una parola: la fede.

Vickery affronta tutto questo aprendosi completamente nelle liriche, aggiungendo all'esperienza del perdono anche il difficile rapporto col padre, l'amore per sua moglie e rispolverando con ancora più forza il suo credo cristiano che già aveva fatto capolino nel precedente Breezewood (2021) tramite i riferimenti allo scrittore C.S. Lewis e alla sua opera sul mondo di Narnia. Nella musica statunitense non è raro imbattersi in tematiche cristiane pur non ricadendo specificatamente nell'etichetta di "christian rock". Anche nella musica alternativa si possono trovare velati riferimenti alla religione o precisi contenuti sulla fede, a seconda che i testi lascino libera interpretazione o che non ne nascondono i riferimenti. Per fare degli esempi nel rock contemporaneo si pensi a Dustin Kensrue dei Thrice, a Jeremy Enigk, ai Valleyheart, agli Emery, agli Adjy e molti dei gruppi appartenenti all'etichetta Tooth & Nail. Detto questo, penso che si possa apprezzare la musica che ci viene offerta anche se si è agnostici.

E' raro al di fuori del progressive rock trovare un album così esteso, peraltro con una gran mole di canzoni (17 in tutto), che scorra senza stancare e che possegga un'ampia varietà di pezzi ad alto spessore. In più, per essere una produzione indipendente, c'è una qualità e un'attenzione nella costruzione sonora da poter competere con quelle di più alto profilo. Vickery usa l'alternative rock americano come punto di partenza e lo ammanta con arrangiamenti ricchi che di volta in volta pescano stratagemmi da post rock, dream pop, folk, prog, post hardcore e emo. Ovviamente questi riferimenti vanno contestualizzati nel quadro generale come sfumature che aiutano le canzoni a rendere meglio la carica emozionale che possiedono e a fargli spiccare il volo. Proprio per questo Interloper non è il classico alt rock album che si omologa alla moltitudine, ma si distingue nel cercare un sound personale, aiutato dalla notevole interpretazione vocale di Vickery.

La title-track che apre anche l'album è, nella sua lenta evoluzione in crescendo, un foreshadowing del mood con cui procederà il disco, a tratti malinconico a tratti epico. Ed infatti si parte subito in pompa magna con i grandi spazi avvolgenti di Whatever Light We Have che si spalanca in sonorità eteree post rock ed un andamento punteggiato da ritmiche chitarristiche post hardcore. L'essenza di Interpoler è un po' questa: mostrare delicatezza ma sostenerla con una forte carica elettrica. Anche nei brani più romantici o elegiaci come Demimonde o Hydrangea si fa strada un'energia insolita grazie a orchestrazioni, strati di voci in lontananza, riverberi elettroacustici. 

Non mancano parentesi folk e quasi country con The Best You Could e Honest, ma Vickery si mostra soprattutto un grande autore di pezzi che potrebbero fare concorrenza all'aristocrazia dell'art pop, su Greenhouse sembra rivisiti alla sua maniera Peter Gabriel, mentre su The Weight e Big Things Coming aggiunge la propria prospettiva rispettivamente sul rock radiofonico e AOR americano e sul post hardcore melodico dei primi anni 2000. Breathe & Affirm e The Gallery riprendono quella caratteristica a cui si accennava in proposito della title-track, partendo come delle ballad pacate per poi crescere in una  versione solenne di loro stesse. Ovviamente, nella sua lunga durata e varietà, l'album offre momenti che rilasciano la tensione e si dirigono su coordinate indie rock più leggere come Sad Dads Club o genuinamente aggressive come Y.D.W.M.A., ma che in fondo conservano una radice pop rock. Insomma, Interloper è un disco vario che ha molto da offrire e non poteva essere altrimenti, inoltre è uno spaccato di cantautorato americano di rara bellezza, di sicuro fuori dai canoni di ciò che tale definizione vorrebbe associata al mainstream, dato che flirta con generi che per loro stessa configurazione ne sono sempre stati lontano.


lunedì 1 luglio 2024

My Epic - Loriella (2024)


I My Epic sono un nome relativamente nuovo per me e penso anche per la maggioranza di utenti musicali italiani (se non addirittura europei). Il fatto è che fanno parte di quella schiera di band (delle quali altprogcore parla da anni) che fanno fatica a farsi conoscere oltre i confini statunitensi. La circostanza per la quale, nonostante i loro quasi venti anni di attività, sono arrivati solo adesso alla mia attenzione è quella di essere entrati nella scuderia della Tooth & Nail Records per la pubblicazione del loro nuovo album Loriella

La Tooth & Nail è un'etichetta che con il tempo ho imparato ad apprezzare grazie alla sua oculata politica di "controllo qualità", visto che tante delle band che ascolto e che corrispondono al mio gusto in base a determinate caratteristiche sonore e timbriche - come Copeland, Valleyheart, Emery, Tigerwine, Mae, Acceptance - fanno tutte capo alla label di Seattle. Il fatto che sia catalogata come una casa discografica ad indirizzo "christian rock" è rilevante ma fino ad un certo punto, come in molti altri casi la musica passa in primo piano e il contesto che ne viene fuori non dà proprio l'idea di una collettività di band impegnate dentro a congregazioni religiose. In primo luogo la missione della Tooth & Nail è stata sempre quella di proporre musica post hardcore/emo di alta qualità.

Ma veniamo a Loriella. Ascoltando il sound atmosferico di chitarre stratificate post rock e shoegaze proposto dai My Epic mi sono fatto l'idea di una versione dark dei Valleyheart con l'aggiunta di un uso calibrato dell'elettronica alla maniera della più recente versione dei Thrice. La carriera dei My Epic negli ultimi anni ha avuto un andamento a singhiozzo, dato che la loro testimonianza discografica più recente risale al dittico di EP Ultraviolet (2018) e Violence (2019) il cui intento era di mostrare i due lati antitetici che pervadono la musica del gruppo, quello meditativo e atmosferico nel primo EP e quello più potente e massiccio nel secondo. Per trovare l'album in studio precedente a Loriella, Behold, si deve addirittura procedere a ritroso di undici anni. 

Loriella riesce nell'intento di essere allo stesso tempo il lavoro più accessibile e maturo dei My Epic. La scrittura delle canzoni viene valorizzata da una ricerca timbrica e sonora che dona loro spazialità ed emotività ed è questa forse la peculiarità che meglio emerge di questo album. Le chitarre, il sound design dei riverberi e delle distorsioni ricavati per dare un'identità ai brani non potrebbero sposarsi meglio negli slanci dinamici di Wildflowers e in quelli melodrammatici di Northstar, oppure quando arriva il momento dei riff oscuri che ricamano la spirale imponente di Red Hands o che tessono sottotraccia la fibra che infonde energia a Old Magic. Come i due EP anche Loriella mostra un duplice lato della musica dei My Epic, dato che non mancano episodi più distesi come Late Bloomer e Make Believe, i quali possono servirsi dell'elettronica al fine di trasmettere un senso di conforto e intimità o brani più apertamente malinconici e positivi come Heavy Heart ed eterei al modo dei From Indian Lakes (Phantom Limb, High Color).

Forse ci vorrà più di un ascolto per penetrare in pieno il lavoro sulla dimensione sonora che i My Epic hanno consolidato durante gli anni, e per questo credo che anche le passate pubblicazioni siano meritevoli di attenzione e scoperta, ma se già conoscete e apprezzate alcuni dei nomi sopra citati, sarete più facilitati ed inclini nel trovare una familiarità nella musica dei My Epic.

venerdì 28 giugno 2024

Bilmuri - AMERICAN MOTOR SPORTS (2024)


I Bilmuri ricadono in quella categoria di ibridazione estrema di generi che con gli Sleep Token l'anno scorso si è presa tanti insulti quante approvazioni. Non a caso i Bilmuri sono stati scelti come supporter degli Sleep Token per il loro prossimo tour europeo, ma il paragone tra le due band va comunque contestualizzato dato che il gruppo di Johnny Franck, oltre a non prendersi troppo sul serio, lavora su un piano estetico e musicale che si distacca considerevolmente da quello di Vessel e compagni. Qui un meme che spiega meglio di tante parole.

Ormai da otto anni il progetto del chitarrista e frontman Johnny Franck ha collezionato una considerevole lista di pubblicazioni (talvolta anche un paio all'anno), per la loro durata molto più simili ad EP che a veri e propri album, nei quali è stata subito chiara la sua fusione di djent metal diluito in un pop zuccheroso che utilizza tanto i mezzi dell'IDM, hip hop e synthwave, come nei Superlove, quanto i breakdown post hardcore in stile Dance Gavin Dance (con i quali Franck ha anche collaborato), intromettendosi nel contesto con un'attitudine cafona e quasi gratuita, ma che rispecchia la natura estrosa e smargiassa dell'autore. Anche se quest'ultimo aspetto è venuto meno con il passare del tempo i Bilmuri non hanno comunque perso l'appeal post hardcore ed emo che li caratterizzava all'inizio.

Se vogliamo allargare il campo dei paragoni, i Bilmuri cadono in un regno di mezzo che ultimamente ha preso campo nella generazione dei "chitarristi da camera da letto", comprendente il virtuosismo fusion da TikTok dei Polyphia e quello che si serve di RnB, funk ed elettronica portato ai massimi espressivi in modi differenti da gente come Jakub ŻyteckiOwane e Eternity Forever. In più c'è una componente estetica anni '80 che parte fin dalle cover e dalla metodologia di promozione, nella quale Franck adotta una voluta grafica dozzinale che sembra un prodotto da computer vintage (tipo Commodore 64) come una sorta di memetica retro-futurista proveniente dal passato che frulla anime, loghi metal e colori saturi, in un equivalente corto circuito temporale in stile steampunk.

L'ultimo album AMERICAN MOTOR SPORTS (scritto proprio così, con caratteri in Caps Lock) è il culmine del percorso intrapreso finora da Franck e racchiude tutti gli elementi elencati sinora. Un pugno di canzoni che non sbaglia un colpo, le quali potrebbero suonare con la stessa efficacia dentro una grande arena - e dare del filo da torcere a Taylor Swift - e allo stesso modo coinvolgere all'interno dei club con la medesima potenza contagiosa. Per dire che nei live la squadra messa in piedi da Franck è una macchina ben oliata, un concentrato che sprigiona energia pura e un grande senso della performance, con menzione particolare alla sassofonista e vocalist Gabi Rose, eccellente in entrambi i ruoli.

Se amate il pop intelligente e non monodimensionale, il repertorio di Bilmuri può nascondere un gran potenziale di contagiosità, ma anche se non siete dei bacchettoni metal duri e puri che storcono il naso di fronte agli Sleep Token, potrete apprezzare il "bedroom AOR" di ALL GAS, il caramelloso metal RnB di STRAIGHT THROUGH YOU, oppure cadere nella trappola dell'impossibilità di togliersi dalla testa i chorus delle power ballad BLINDSIDED e 2016 CAVALIERS (Ohio). In questo album Franck mette a frutto il suo amore per il midwest e per la musica di fattura americana, con riferimenti compositivi neanche troppo velati al country pop (ecco perché il riferimento alla Swift), ma sempre ammantati da una forte aura metal. Fatto sta che per quanto la musica dei Bilmuri possa raggiungere un alto grado di aggressività rimane costantemente, sotto ogni punto di vista, solare, positiva e con testi da cuori innamorati o infranti in pieno stile emo. 

mercoledì 26 giugno 2024

Strelitzia - Winter (2024)


Quello degli Strelitzia è un nome relativamente nuovo che si affaccia dal nulla nel panorama midwest emo/math rock con un album ambizioso, anche se in verità alle spalle hanno un EP già pubblicato nel 2017. Il fatto è che al qui presente disco d'esordio Winter ci sono voluti sette lunghi anni di lavoro affinché vedesse la luce, si capirà quindi che il periodo trascorso fa percepire il quartetto dell'Arizona  formato da Skylar Bankson (chitarra, voce, tromba), Jacob Howard (chitarra), Hunter Hankinson (basso) e Kyle Porter (batteria, piano) come una totale novità. Questa volta però le premesse che caratterizzano Winter sembrano fatte apposta per farsi finalmente notare e non poteva essere altrimenti vista la cura che gli è stata dedicata nella produzione.

Gli Strelitzia hanno dato alla loro opera prima l'impostazione di un concept album (si narra di un amore tormentato in pieno stile emo) con canzoni che si dilatano temporalmente e imboccano percorsi che spesso deviano dall'emo e sconfinano nel post rock, nel prog e nello sperimentale. Uno dei primi termini di paragone a venire in mente ascoltando la prima traccia Decigic sono i Delta Sleep, per un brano che affronta il crescendo di dinamica tra delicata malinconia e improvvisa esplosione emocore, espediente che poi sarà anche alla base della cifra stilistica di molti episodi. Nel frizzante math rock di This Bed Ain't Big Enough Fer The Two of Us tali caratteristiche prendono la via di declinare il tutto in un viaggio di inaspettate svolte tematiche e ritmiche. 

Ma Winter per alcune scelte appare un album coraggioso, al di là se lo si apprezzi o meno, tipo quella di porre al centro della storia il monolite da undici minuti Sara, un continuo saliscendi di umori romantici e sussulti aspri, tradotti con il linguaggio di chitarre elettriche emo e timbriche clean con tapping math rock, che si vanno a diluire dentro una coda di suoni astratti tra ambient e post rock, oppure chiudere inaspettatamente facendo ricorso ad una nota quasi di anti-climax  per quell'uso minimale, ma struggente, solo di chitarra acustica e voce su Epilogue. Il pregio di Winter risiede infatti nella sua imprevedibilità, proprio per l'alternarsi di pezzi che non sai mai che piega prenderanno. 

Ci sono delizie midewest emo, come Digital Spliff (Bees?!) e Sben, piene di contrappunti chitarristici elettroacustici, accenni hardcore, numeri prog emo, gang vocals interpretati con il massimo del coinvolgimento catartico, quasi a ricordare la dedizione e lo sforzo con cui è stato prodotto il disco. Poi c'è la title-track che pare un racconto in musica per come l'atmosfera strumentale avanza e si ritira in modo etereo ed impressionista, come fosse una marea. In pratica Winter trasmette il trasporto e l'emotività con cui gli Strelitzia lo hanno concepito e realizzato, se non altro per avergli dato un'identità sperimentale che oltrepassa i classici confini dell'emo.

  



martedì 21 maggio 2024

Ghost Rhythms - Arcanes (2024)


Se c'è un uso che non sia fuori luogo del termine "monumentale" è associarlo al nuovo album dei Ghost Rhythms Arcanes: due ore di musica per 22 tracce, ognuna delle quali ispirata e legata ad una carta degli arcani maggiori dei tarocchi. Per chi non li conoscesse i Ghost Rhythms sono un collettivo di musicisti, che può variare il proprio numero, fondato nel 2005 dal batterista Xavier Gélard e dal pianista Camille Petit che rivesto i ruoli di leader. Nel tempo l'ensemble parigino è passato dalla Cuneiform Records, ma per lo più ha realizzato i propri lavori in modo indipendente, come tra l'altro è avvenuto per questo Arcanes.

Avendo nominato la Cuneiform si può intuire l'indirizzo musicale dei Ghost Rhythms, anche se la questione non è così scontata. Infatti l'ambito rock/avant-garde in cui operano è piuttosto ampio - e Arcanes grazie alla sua imponente capienza ne costituisce un ottimo corollario - e abbraccia una vasta area di quella che è la musica strumentale moderna: si va dal jazz alla classica contemporanea, dal Rock In Opposition allo zeuhl, dal progressive al post rock. 

Il concept che sta dietro ad Arcanes vede la luce nella sua totalità soltanto adesso, ma in realtà è un progetto che, partito da alcuni abbozzi musicali collezionati da Gélard a partire dal 2006, ha preso forma e si è sviluppato dal 2021. E' ovvio che nella sua vastità l'album necessita di una fruizione attenta e magari a più riprese, ma quello che si può rilevare è che, nonostante la sua natura estesa, Arcanes presenta un approccio alla materia piuttosto omogeneo nella resa di un'esecuzione da chamber rock con piglio orchestrale, anche quando lambisce sfumature che sfociano nel jazz e nel math rock.

sabato 18 maggio 2024

Ugly - Twice Around The Sun (2024)


Qualche volta il tempo che passa senza darti la possibilità di esprimerti nel momento che vorresti può essere non un nemico ma un saggio alleato. E' stato così per gli Ugly, nati nel 2016 e che arrivano solo ora all'esordio con Twice Around The Sun, nominativamente un EP, ma che con i suoi 36 minuti e il ricco contenuto non sarebbe sbagliato considerare un vero e proprio album. Provenienti da Cambridge, gli Ugly appartengono all'ultima scena indie inglese a cui piace prendersi delle libertà verso spazi più ampi - tra cui non manca il progressive - che tra i nomi più noti comprende HMLTD, black midi, Squid e per finire Black Country, New Road con i quali gli Ugly hanno condiviso concerti e, fino al 2020, pure il batterista Charlie Wayne.

Comunque in questi otto anni il lavoro per Twice Around The Sun è passato attraverso numerosi "stop and go", tra il blocco forzato della pandemia, una pausa imprevista, un cambio completo di formazione che ha visto l'arrivo del nuovo batterista Theo Guttenplan, l'aggiunta di Jasmine Miller-Sauchella alla voce e alla tromba e Tom Lane alle tastiere, gli Ugly si sono evoluti da un progetto per chitarra del solo membro fondatore Sam Goater ad un ben più strutturato sestetto prog-indie-folk che si serve di elaboratissime polifonie vocali. Talmente elaborate che il pezzo di punta, nonché di apertura di Twice Around The Sun, The Wheel è un degno gioco di contrappunti alla Gentle Giant, prima a cappella e poi con l'intervento di tutto il gruppo. L'impostazione da folk inglese non lascia quasi mai il cammino dell'EP, ma la sua messa in scena appartiene ad una visione dai connotati che si legano a quell'intellettualismo chamber rock o pop barocco di North Sea Radio Orchestra, XTC e Field Music, dove il prog fa capolino più per convenzione di necessità che per adesione al genere.

Il comparto vocale non è l'unico dove il gruppo dà prova della sua abilità, ma anche per ciò che riguarda la strumentazione gli Ugly si impongono sia come ottimi esecutori sia come inventivi arrangiatori nelle soluzioni di interplay, tra cui risalta il basso dal gusto jazz di Harry Shapiro, e nel mantenere una peculiare atmosfera sospesa tra il modernismo e la tradizione. I cambi di direzione inaspettati di Shepherd's Carol sembrano fatti apposta per stupire, dato che vengono amplificati dalla somma delle parti che si vengono a creare ne connubio di progressioni armoniche e polifonie vocali. Quando il gruppo non è impegnato in tali tour de force incanala la propria abilità nella costruzione dalle fondamenta di un brano fino a farlo crescere in modo corale (Icy Windy Sky e Hands of Man). Proprio per questo non c'è mai nulla di predefinito durante il percorso di Twice Around The Sun, gli Ugly sono degli ingegnosi architetti sonori e il bello è che questo EP rivela un potenziale che potrebbe crescere ancora.


 

mercoledì 1 maggio 2024

Topiary Creatures - The Metaphysical Tech Support Hotline (2024)


Si può parlare ancora di purismo nel 2024? Rimane ancora quel netto pregiudizio per cui se si è estimatori di un genere ben definito (in questo caso il progressive rock), si nega di definirlo tale nel momento in cui entra in gioco un qualsiasi tipo di contaminazione esterna che non si ritenga appartenere a quei precisi dettami? Anche se ognuno può rispondere alla domanda in base alla sua sensibilità, penso che con questa preclusione si perda l'occasione di scoprire un sacco di roba interessante e stimolante, perché la musica nel frattempo evolve e il purista rimane nella preistoria.

Personalmente dai tempi di De-Loised in the Comatorium ho sempre cercato un'opera che potesse abbattere i confini di due generi e poterla ritenere a pieno titolo appartenente alla sfera prog, pur partendo da influenze e stilemi che non le appartengono. In 20 anni di band e artisti ne sono passati e, proprio per il livello di emancipazione raggiunto da ogni genere, non contavo che potesse uscire un album con le stesse potenzialità di quello dei The Mars Volta, ovvero che affermasse con convinzione il proprio retaggio ad un genere e allo stesso tempo ritenerlo un tassello fondamentale per il prog, portando al suo interno elementi mai sperimentati prima e mai così ben contestualizzati ed equilibrati tra le due "fazioni". The Metaphysical Tech Support Hotline, terzo album in studio dei Topiary Creatures, risponde a queste caratteristiche ed è un punto di svolta nell'evoluzione che il genere post emo da un po' di tempo sta portando avanti. 

La band era inizialmente il frutto del solo Bryson Schmidt che, dopo tre anni di lavoro su alcuni demo, nel 2020 ha dato alle stampe Tangible Problems, primo album a nome Topiary Creatures prodotto da Chris Teti dei The World Is A Beautiful Place, per poi evolversi come band con l’ingresso di Nathaniel Edwards (basso, chitarra) e Elizabeth Harrington (voce, tastiere) nel successivo You Can Only Mourn Surprises (2022). Descritti da Schmidt come “punk rock massimalista”, i Topiary Creatures condensano al meglio ogni aspetto della quinta onda emo con l’aggiunta di un tocco sperimentale, la produzione è caleidoscopica ed estremamente curata nel presentarci una varietà strumentale stratificata, ma allo stesso tempo si percepisce quell'approccio artigianale e DIY tramandato dai The Brave Little Abacus

The Metaphysical Tech Support Hotline appare come un meraviglioso e copioso aggregato di idee con ambizioni eclettiche e multitematiche che ruotano attorno all’universo emo, ne raccoglie tutte le diramazioni (power pop, bedroom pop, metal, chiptune) e in questo senso è un perfetto esempio di come la combinazione tra generi differenti e apparentemente distanti può offrire risultati lungimiranti. A pochissima distanza dall’uscita di Plastic Death si può affermare che, operando nello stesso ambito, The Metaphysical Tech Support Hotline supera in originalità l’exploit dei Glass Beach in quanto riesce a non far trasparire così palesemente riferimenti e influenze di stilemi canonizzati da altre band (nel caso dei Glass Beach i Radiohead). I Topiary Creatures cioè creano una bolla propria che mantiene con determinazione l’impronta emo ma che allo stesso tempo si apre ad una moltitudine di contaminazioni integrate benissimo in quell’identità. Si può affermare così che The Metaphysical Tech Support Hotline acquista un’importanza decisiva per il suo modo di ridefinire il connubio tra emo e prog, un po’ come De-Loised in the Comatorium fece tra post hardcore e prog rock. 

The Metaphysical Tech Support Hotline allarga ancora di più la tavolozza degli elementi che fanno parte del bagaglio di sperimentazione del gruppo. Innanzitutto lo si può ritenere un concept album, non perché racconti una storia unitaria, ma piuttosto per il fatto che tutte le canzoni sono legate da un tema comune. Le tematiche fanno riferimento al libro ad esso abbinato che contiene una storia breve scritta e ideata dallo stesso Schmidt dal titolo “Field Notes”. Come l’artwork dell’album suggerisce l’ambientazione è un ufficio alieno del futuro, popolato da strani esseri, dove uno studente di ingegneria metafisica viene assunto per uno stage e “ciò che inizia come una semplice impresa accademica di debug di realtà simulata si trasforma rapidamente in una battaglia morale tra ambizioni filantropiche e forze burocratiche che inibiscono il cambiamento nel mondo.” 

Musicalmente il mix che propone The Metaphysical Tech Support Hotline è altrettanto strano: la batteria suonata da Schmidt ha uno stile dinamico, frenetico e con continui cambi ritmici, le tastiere assumono un timbro tipico dei videogame e synth pad, mentre le chitarre si frantumano tra riff emo e metal, arzigogoli psichedelici e arpeggi elettroacustici, la voce femminile della Harrington si alterna con quella di Schmidt accentuando le parti melodiche e delicate. Il risultato è un calderone fitto di strati sonori dove il disagio adolescenziale emo viene rivitalizzato con la forza del power pop e l’imprevedibile vivacità di frammenti prog. 

L’emblematica apertura introduttiva è affidata a Trader Joe’s Frosted Mini-Wheats che, con i suoi saliscendi atmosferici e le sue continue variazioni, attraversa una serie incontrollabile di temi tra esplosioni improvvise, fughe di tastiere che sembrano provenire da un parco giochi e istanti lirici supportati da bordoni. La geniale metafora di God is a Scared Kid at a Middle School Science Fair che ci presenta Dio come un ragazzino insicuro alle prese della costruzione del classico vulcano per la ricerca di scienze (“If you sit still you can feel the Earth collecting dust in the garage” canta la Harrington nella coda finale), è una mini opera prog che si apre con un overture per chitarra e synth articolata in due fasi. La batteria, incalzante e tribale, guida gli articolati e rapidi mutamenti che avvengono nel brano, possono durare lo spazio di un battito di ciglia o guidare ad un ritornello che ti si stampa in testa (“It’s just bad art. Or bad code.”!), ma è ciò che accade intorno a frastornarci, in senso positivo, con una quantità di strati sonori e armonie da rimanere spiazzati. 

Il disco continua su queste coordinate: ancora più scatenate e concitate sono Snakes on the Walls e Carsick on Inisherin, mentre la malinconica, ma irresistibile nel suo incedere, Michelangelo EDC – con il contagioso refrain ripetuto “the Medicis pay the bills. The Medicis pay the bills. The Medicis pay the bills” – è una disamina su dubbi e compromessi morali tra arte e denaro. Gli aspetti più sperimentali vengono toccati su Fairfield Calvary Chapel Abortion Clinic, critica al fondamentalismo religioso della destra cattolica americana, con accenni a riff sludge e un punteggiato intervento di chiptune nel ritornello, e poi su Cleaning Basil Out of the Pool che, con la sua selva di rumori e timbri di tastiera, diventa un compendio di folktronica, psichedelia e dream pop. The Metaphysical Tech Support Hotline è disseminato anche di pezzi brevi che fungono quasi da intermezzo e si assumono il compito di esempio estremo delle varie anime in cui è suddiviso l’album, come il thrash metal di Home to Any Possibility, la ballad simil lo-fi Dog, il celestiale dream pop di Sam & Another Kid "Run Away" From Fairhope. I Topiary Creatures a tratti sembrano una versione ipertrofica dei Crying, altre un gruppo progressive rock che ha deciso di fare colonne sonore per cartoons. La verità è che sono un caleidoscopio di continue invenzioni emo e prog che si pone al centro dei due mondi e li domina a proprio piacimento.

venerdì 19 aprile 2024

Uncanny - Shroomsday (2024)


Anche se all'attivo hanno già un omonimo EP uscito nell'ormai lontano 2016, penso che in pochi abbiano sentito parlare degli Uncanny. Loro sono un trio prog metal norvegese (di Oslo) formato da Andreas Oltedal (batteria), Torkil Rødvand (basso) e Rikard Sjånes (chitarra) i quali, a distanza di otto anni, tornano con il primo full length della loro carriera dal titolo Shroomsday pubblicato oggi. Con la consapevolezza che non è assolutamente facile presentarsi oggi con un ennesimo album prog metal strumentale, gli Uncanny riescono nel miracolo di rendere la materia interessante e incredibilmente fresca grazie alla sua natura cervellotica ma allo stesso tempo coinvolgente, in uno scontro tra affilati e colossali riff ispirati all'algida precisione matematica dei Meshuggah e la melodia decadente e malinconica del prog norvegese.  

L'apertura di Uncut è già una dichiarazione di intenti: un panzer di groove metal con bombardamenti cadenzati di basso che poi si espande in dinamiche ritmiche da math rock, una formula ribadita nella seguente Noobjax, questa volta con risvolti post rock e psichedelici. Sono ancora i tratti stilistici dei crescendo post rock a sorreggere l'impianto di Circadian Rhythm che, dopo una quieta introduzione acustica, si fa strada con moto lento, martellante e ben scandito. Music For The Faint Hearted è un progressivo viaggio nel caos aggressivo introdotto e alternato da un arpeggio etereo sul quale incombe un'aura minacciosa, mentre la title-track è un altro oscuro buco nero di suggestioni oniriche che, nel suo sviluppo, si spinge verso lidi metal-orchestrali accentuati dall'uso di strumenti a carattere baritonale (basso e chitarra) e dai fiati. 5 Mile è l'unico pezzo cantato, utilizzando un approccio scream post hardcore da parte di Oltedal, ma nei sui sette minuti e mezzo c'è spazio per un grande sfoggio di idee strumentali con svolte inattese e un crescendo in tensione nella seconda parte.

Pur trattandosi di un trio gli Uncanny realizzano un album a tratti imponente con un sound granitico che comunque sa essere accessibile nella sua complessità. Un bilanciamento di elementi contrastanti - tra il progressive metal tecnico con connotati djent/sludge e la ponderazione del post rock - che è anche il punto vincente di Shroomsday.  

sabato 2 marzo 2024

Professor Caffeine & the Insecurities - Professor Caffeine & the Insecurities (2024)


In una selva di sottogeneri prog dove molto spesso gli schemi e le formule si ripetono, è sempre più raro trovare una band con le caratteristiche dei Professor Caffeine & the Insecurities, che almeno tenta di percorrere strade alternative facendo della trasversalità il proprio manifesto programmatico. Loro sono un quintetto di "nerdastri" di Boston che si diletta nel proporre un mix di prog, math rock, fusion, midwest emo e solo raramente qualche incursione su toni più accesi che definire metal sarebbe un azzardo. Per fare paragoni, dal punto di vista strumentale propongono una soluzione molto simile alla virtuosa fusione di stili dei Monobody. Se invece si aggiunge l'insieme cangiante della melodiosità del cantato (a cura del bassista Dan Smith) e la natura imprevedibile delle progressioni armoniche, si ha l'impressione di una versione più leggera di Thank You Scientist e Coheed and Cambria.

La musica dei Professor Caffeine & the Insecurities nella sua complessità esecutiva si poggia comunque costantemente su riverberi pop e funk, che le donano un tocco di accessibilità, poi elaborati negli intermezzi dei brani attraverso l'ausilio di vivaci e intricati passaggi. Per questo l'impianto compositivo del quintetto possiede continui richiami a sapori jazz e timbriche elettroacustiche, dove Dope Shades si presenta come una perfetta sintesi di entrambi i mondi, armoniosità power pop immersa in un solare funk jazz.

A volte il lato pop viene messo maggiormente in risalto su pezzi come Spirit Bomb, Unreal Big Fish e Astronaut, che possiedono chiaramente un'elaborazione della struttura formale più diretta. Ma il quintetto non è mai avaro nel mostrare la propria abilità nell'arte del contrappunto e in ciò una particolare menzione va all'uso del piano acustico da parte di Derek Tanch, in sintonia con le chitarre di Anthony Puliafico e Jay Driscoll, che aggiunge all'impianto una peculiare timbrica da band fusion. A giovare di tale espediente sono le dinamiche che si innescano nei fraseggi di The Spintz e Make Like A Tree (And Leave), un po' come avviene negli Aviations, senza lesinare poi l'uso accoppiato con le tastiere e synth su That's A Chunky e nella strumentale Oat Roper per rendere il tutto più avventuroso. Appena ho ascoltato i Professor Caffeine & the Insecurities ho capito che era doveroso segnalarli perché è una di quelle band che rappresentano più di altre lo spirito e la filosofia perseguite fin dall'inizio da altprogcore, quindi è il primo must di quest'anno.


giovedì 15 febbraio 2024

Vicarious - Esoteria (2024)


Quante volte si è parlato della saturazione che purtroppo affligge molti dei sottogeneri di cui ci occupiamo? Forse, leggendo da altre parti, non se ne fa mai cenno perché sembrano assuefatti ad uno standard che ormai è divenuto formula, ma qui dalle parti di altprogcore si è sempre stati alla ricerca di qualcosa che non si adagi sui canoni della riproposizione fine a sé stessa. Questo non significa che serva inventare chissà che cosa, basta avere idee e un pizzico di creatività. Così, se in ambito prog metal e djent ultimamente avete trovato indigeribile il mega mappazzone dei TesseracT, oppure una minestra riscaldata il recentissimo dei Caligula's Horse ed infine siete stufi di aspettare il nuovo album dei The Contortionist che forse non arriverà più, l'esordio dei Vicarious dal titolo Esoteria arriva in soccorso ed è ciò che fa per voi.

Il trio del North Carolina è composto da tre virtuosi dello strumento a partire dal fondatore e bassista Brad Williamson, affiancato da Colin Moser (chitarra, voce) e Zach Winton (batteria). In questo caso ci sarebbe da dire che tre teste lavorano meglio di cinque o addirittura sei componenti, cioè il numero che di solito troviamo in band di questo tipo. Tra le dodici tracce che costituiscono i corposi 64 minuti di durata è veramente difficile trovare un cedimento o un punto debole, tanto da erigere Esoteria ad un vero e proprio lavoro che può competere a ruolo di opera ispirata, senza nulla da invidiare ad altri album classici del genere. 

A partire dal primo brano Bend Don't Break, Esoteria riesce ad esporre in modo convincente ogni sfumatura del moderno post prog metal, dalle atmosfere ambient alle sfuriate growl, dai tecnicismi math rock e fusion ad ampi passaggi solenni. Già l'unico pezzo strumentale dell'album, 52!, passa attraverso una serie di variazioni e dinamiche tra le più avvincenti e originali ascoltate ultimamente, mai leziose o riempitive, inoltre quasi tutti i pezzi, pur mantenendo un'impostazione prog basata su variazioni tematiche, si ricollegano sempre ad un chorus ricorrente che cerca nella sua complessità strumentale di mantenere orecchiabilità ed epicità. Esoteria è quindi un album che riesce a soddisfare la carenza di una nuova spinta nel prog metal e a colmare una lacuna all'interno di un genere sempre più stagnante.

venerdì 8 dicembre 2023

Codeseven - Go Let It In (2023)


I Codeseven hanno rappresentato una delle realtà più anomale del post hardcore degli anni Zero. Praticamente cambiando direzione ad ogni album sono riusciti nell'intento di esplorare la parte più melodica e psichedelica del genere. Rimanendo dentro un limbo elusivo con un progresso stilistico spiazzante ed in continuo sviluppo, di volta in volta i Codeseven sono stati accostati ai compagni di avventura Hopesfall ed in seguito, con il secondo album The Rescue (2002), alla singolarità trasversale e fuori dagli schemi dei Dredg. La band, nonostante il suo riconosciuto apporto all'espansione espressiva del post hardcore, non è riuscita comunque a raggiungere la notorietà di culto dei due gruppi appena citati, a causa di un prematuro capolinea ed un ultimo album, Dancing Echoes/Dead Sounds (2004), che lasciava un senso di irrisolto per la sua natura indecisa nell'equilibrare la trasversalità di fusione tra art rock e hardcore melodico.

Dopo una pausa di quasi 20 anni, senza alcun preavviso e in una successione di eventi simile a quella degli Hopesfall, i Codeseven sono tornati in scena con la line-up originale che comprende Jeff Jenkins (voce), James Tuttle (chitarra, tastiere), Eric Weyer (chitarra), Jon Tuttle (basso) e Matt Tuttle (batteria) e un album ispiratissimo che, con tutta probabilità, è il migliore della loro carriera. Go Let It In riprende il discorso dove lo avevamo lasciato con Dancing Echoes/Dead Sounds, ma si fa forte di un gruppo ormai maturo e sicuro dei propri mezzi, trascinandoci di nuovo in una dimensione insolita per il post hardcore e quasi facendo risplendere di luce rinnovata l'ultimo incompreso lavoro del 2004. A dominare in tutte le tracce sono i suoni sintetici delle tastiere che sovrastano le trame chitarristiche, nel creare un'atmosfera sognante ed elettrica, a cavallo tra latente space rock ed energica new wave. 

I brani contenuti in Go Let It In vibrano come provenienti da una nebulosa impalpabile di spazi sonori che collidono, talvolta con industrial rock appena accennato (Rough Seas, A Hush... Then a Riot), altre con tracce di prog rock (Suspect) o sfiorano l'anthem da stadium rock (Hold Tight), ma che comunque ricompattano puntualmente con il melodic hardcore. In questo contesto, nel quale si affastellano riverberi da synth rock, anche i brani più carichi di magnetismo elettronico come Laissez-Faire e Starboard si ammantano di un alone onirico senza esclusione di chorus memorabili. I Codeseven sono riusciti ancora una volta a dar vita ad un album senza tempo con il potere di posizionarsi su più confini stilistici, atterrando in una zona franca che non si rivela mai pienamente aderente ad un genere (ad esempio l'allusione al gothic rock nei loop robotici di basso in Fixated ed in quelli ipnotici da synthwave di Mazes and Monsters). Un ritorno di tutto rispetto degno della loro reputazione.

sabato 2 dicembre 2023

IONS - Counterintuitive (2023)


Nella moderna giungla musicale dove, a quanto pare, è stato già detto tutto a livello di contaminazioni, cosa si può inventare una band o un artista per attribuirsi almeno un barlume di sostanza e personalità? Senza la pretesa di conseguire nell'impossibile impresa di abbattere chissà quale frontiera di innovazione, credo che comunque gli IONS con il loro secondo album Counterintuitive abbiano provato a dare una risposta. La via maestra è lavorare quanto più possibile sul sound e cercare di sposare timbri e colori che solitamente non siamo avvezzi ad ascoltare dentro lo stesso contesto. Abbinamenti i quali, più che chiamare inconsueti, azzarderei a definire assortiti in maniera insolitamente avvincente.

Nel loro primo omonimo album gli IONS avevano già mostrato di apprezzare lo stratagemma del "wall of sound" vicino alle consuetudini debordanti di Devin Townsend. Su Counterintuitive cambiano però traiettoria, acquisendo una propria consapevolezza estetica nel forgiare un quadro sonoro pieno, compatto e dinamico. In breve, il quintetto ceco è un'emanazione dell'ultima onda prog metal che fa uso abbondante di poliritmie e riff djent accompagnati da sintetizzatori e tastiere, ma sfruttati per potenziare e arricchire il pathos dei paesaggi sonori e non dal lato virtuoso e tecnico come ci si aspetterebbe da un gruppo prog metal. E' proprio nelle sfumature timbriche che Counterintuitive prende vita e riesce ad elevarsi sopra altre band affini, contando naturalmente su una scrittura di grande impatto valorizzata da questi elementi.

La musica degli IONS è altamente complessa ma non inaccessibile dal punto di vista melodico. Per il connubio a cui si accennava prima si potrebbe tentare un'accostamento con le trame synth-djent dei VOLA, ma dove la band danese nel tempo si è avvicinata sempre di più a caratteri formali alt pop, gli IONS mantengono un legame adiacente e solido con la frangia sperimentale del prog. Se quindi da una parte abbiamo brani che possono catturare la nostra attenzione ad un primo ascolto, come A Terrible Mistake e The Same As You, dall'altra troviamo le trame elaborate di Out of Sight, Slpit Character e Birds of Reminiscence, che comunque non ne intaccano la scorrevolezza. 

Tornando al carattere sonoro dato all'album l'uso spaziale e quasi alieno che viene fatto dei synth attribuisce un'aura al confine tra post rock, electrorock, sfiorando quasi una versione metal della new age. Un contrasto in termini di esecuzione, dato che gli IONS puntano molto sull'energia e la veemenza nella resa finale della loro formula, ma è proprio qui che risiede il fascino di Counterintuitive, un lavoro di assoluto valore che mi ha subito conquistato e sicuramente da ritenere tra le gemme nascoste di quest'anno che volge al termine. 


mercoledì 29 novembre 2023

Mingjia - star, star (2023)


Arrivare a produrre come debutto un album di chamber pop con velleità jazz e prog non deve essere certo un’impresa da poco. Figuriamoci intensificare al massimo le potenzialità dell’aspetto compositivo in modo da includere parti per orchestra, rinunciando quasi del tutto alla classica strumentazione rock di chitarra, basso, batteria, sviluppare i brani come lunghe suite attraverso una varietà timbrica che sfrutta le varie peculiarità di ogni strumento. Tutto ciò lo si trova in star, star, opera prima della compositrice Mingjia Chen (nata a Pechino ma residente a Toronto), un doppio album che definire ambizioso sarebbe riduttivo. 

Il talento multivalente di Mingjia si manifesta come cantante, strumentista, illustratrice, insegnante e infine autrice di tutto il materiale contenuto su star, star, che è il suo vero primo album, anche se è attiva in altri progetti musicali (tra cui un duo electropop con Ryan Galloway dei Crying) e ha già realizzato un paio di EP - che sembrano una prova generale per il mastodontico debutto -, uno dei quali con la partecipazione della Tortoise Orchestra, un ensemble neoclassico formato da tredici elementi da lei fondato e presente anche su star, star.

E quindi chamber pop si diceva, anche se l'incasellamento non rende giustizia all'imponente architettura dei brani. Mingjia si spinge oltre l’imbrigliamento della forma canzone, perché il suo impressionante livello compositivo allarga lo spettro alla classica moderna e al jazz della third stream in modo formalmente libero. C’è chi potrebbe confondere e catalogare la musica di star, star affine ai canoni del musical o delle colonne sonore (a tratti), ma il grado di sperimentazione l’allontana da tale paragone, poiché gli articolati contrappunti, le spericolate armonizzazioni e la propensione per l’artificio avant-garde ne legano la natura a certi ambiti prog e ai delicati equilibri melodici della scuola di Canterbury. 

Nella sua ricchezza di materiale raccolto in un'estesa durata di settantasette minuti, è incredibile notare come star, star non contenga un attimo di cedimento qualitativo. Ogni traccia ha qualcosa da offrire in termini di sorpresa e meraviglia, tanto che il minutaggio non risulta mai pesante, alimentando e giocando con la nostra curiosità nell'attesa dell'inaspettato. Nel momento in cui si progetta un'opera di tali proporzioni il rischio di schiantarsi contro la stucchevolezza, eccedere nello sfoggio di virtuosismo fine a sé stesso o annegare nella pretenziosità è altissimo. Mingjia non fa nulla di tutto ciò, dalla sua musica traspare sincerità e passione che annullano i pericoli di condurre gli arditi arrangiamenti fuori controllo e in territori di sterili barocchismi. 

Un ultimo appunto, dopo aver ascoltato tale magia creata con uno sforzo produttivo non indifferente, mi è venuto naturale chiedermi come una giovane artista praticamente ancora sconosciuta possa permettersi economicamente le risorse per realizzare un'opera così ad ampio raggio, che prevede il coinvolgimento di un grande dispiego di mezzi e strumentisti. La risposta la si trova nella stessa pagina Bandcamp dell'album ed è stato finanziato con il contributo dell'Ontario e Toronto Arts Council, due organizzazioni culturali pubbliche che erogano fondi per progetti artistici, come si usa nei paesi civilizzati.