Beh, come direbbero gli americani, "what a ride!". Quante cose ci sarebbero da analizzare in questo 2020, e parlo semplicemente dal punto di vista musicale: concerti azzerati, band in crisi, uscite discografiche penalizzate, ecc. Ma sicuramente da questo punto di vista ci saranno degli analisti e statistici più competenti di me. Lasciando perdere tutto ciò che ha portato (via) questo anno, meglio soffermarsi come sempre esclusivamente sulla qualità e quantità di uscite del 2020.
In questi termini, non mi pare che i dodici mesi appena trascorsi abbiano regalato un gran numero di uscite e se comunque lo hanno fatto, non lo sono state ad un livello di interesse tale rispetto agli anni precedenti. Eppure il 2020 qualche perla dietro di sé l'ha lasciata. Tirando le somme quindi, non c'è stato molto da segnalare anche in termini di blog e quelle poche cose degne di una menzione ho cercato di farle presenti. Quest'anno però credo che la lista che segue sia più interessante del solito per chi segue altprogcore, dato che sono contenuti anche album dei quali al momento dell'uscita non ho parlato, ma ora fanno qui la loro comparsa e, se qualcuno se li fosse persi, può adesso avere il tempo di recuperare.
Anche questa volta non mancano defezioni eccellenti che magari faranno storcere il naso a qualcuno...non leggerete, ad esempio, i nomi degli osannati nuovi lavori di Motorpsycho, Pain of Salvation, Protest the Hero, Wobbler, Pure Reason Revolution, per il semplice motivo che a questi ho preferito dare priorità ad altre cose, per il semplice motivo di non aver trovato particolarmente avvincente e interessante quello che avevano da proporre i loro album. Tutto considerato, pensandoci, meglio per voi, visto che potrebbero apparire improvvise e piacevoli sorprese delle quali non avete sentito parlare. Penso che andando a scavare si riesca a portare in superficie meteriale molto più degno di nota.
A tale proposito vorrei fare un piccolo appunto sulla prima posizione di quest'anno, a cui tengo in modo particolare. In pratica dispiace constatare che l'oggettiva caratura dell'album che troverete al primo posto di questa lista è stata praticamente ignorata da qualsiasi sito o blog che si occupa di progressive rock o roba simile. Al di là dei gusti soggettivi, va riconosciuto comunque un valore artistico, che almeno avrebbe meritato, non dico il primo posto, ma almeno la citazione. Invece nulla, si punta sempre su nomi sicuri e collaudati. La cosa è ancor più demoralizzante se andiamo a controllare le scelte singole dei vari redattori che popolano questi siti di divulgazione musicale. Quasi divertente notare come nelle loro classifiche individuali compaiano gli stessi nomi, naturalmente disposti in posizioni differenti. In più si può cogliere il comune denominatore che le pervade, riconducibile al prog rock/prog metal di derivazione InsideOut, giusto per intenderci e detto con tutto il rispetto per l'etichetta, che praticamente da anni è l'epitome di progetti e gruppi fatti con lo stampino. Bravi quanto si vuole riguardo a tecnica e produzione, ma che di coinvolgente ed emozionante hanno poco o nulla da offrire.
Ma mi fermo qui, poiché andrei a ripetere cose già dette in passati editoriali di fine anno. Come sempre la classifica, o meglio la lista, di fine anno di altprogcore si prefigge di suggerire spunti d'ascolto senza perseguire l'impossibile pretesa di mettere tutti d'accordo, ma cercando comunque di mantenere alto il livello di qualità nel proporre artisti meno noti. Da qui, se ancora vi andrà di seguirmi, ci possiamo dare appuntamento al 2021.
#50.Vast Robot Armies
Paper Crown Parade
Paper Crown Parade è il quarto album in studio dei Vast Robot
Armies e forse anche quello che finora li rappresenta nella forma
migliore. Il legame con lo space rock è più evidente che
mai e la presenza alla batteria come ospite di Kelli Scott dei Failure è
quasi una dichiarazione di intenti in quella direzione. Il lavoro non è
da intendere comunque in stretta linea con il genere, ma piuttosto come
un contenitore di psichedelia pop compresa tra il presente ed il
passato.
#49.Acceptance
Wild, Free
Dopo essere tornati insieme nel 2015 dopo quasi dieci anni di pausa, gli Acceptance non si sono più fermati. Il terzo album della loro carriera Wild, Free è un buon concentrato di pop alternativo con venature emo, non ai livelli inarrivabili del classico Phantoms (2005), ma sicuramente meglio orchestrato del comeback album del 2017 Colliding by Design.
#48.Young Jesus
Welcome to Conceptual Beach
Un album singolare, come lo è la band d'altra parte. Si passa dall'art
rock sperimentale al jazz soffuso come niente fosse, in più si aggiunge
una certa attitudine vocale che rimanda vagamente a Jeff Buckley.
#47.Braids
Shadow Offering
I Braids sono sulla scena da alcuni anni, ma con questo Shadow Offering hanno raggiunto una ragguardevole maturità art rock che richiama influenze intellettuali tra Joni Mitchell,
Kate Bush e Bent Knee. Forse il loro lavoro migliore e per questo da
segnalare.
#46.Hayfitz
Capsules
L'ex frontman degli Oh Malô Brandon Hafetz esordisce da solista con un album dall'atmosfera rarefatta, surreale, crepuscolare ed onirica, in una parola: suggestivo. Nonostante questo apparente minimalismo, le canzoni di Capsules sono ricche di effetti evanescenti, strumenti che creano abbellimenti eterei, vibrazioni di lontani riverberi, come a creare una dimensione ultraterrena.
#45.Owen
The Avalanche
Ennesimo album da solista di Mike Kinsella dove ormai, anche se la formula rimane la stessa (malinconia, depressione ed emo acustico), non manca di regalare emozioni e nuovi colpi al cuore, come ad esempio On with the Show.
#44.hubris.
Metempsychosis
Uno degli album post rock più riusciti dell'anno. Al'interno di questo genere alcuni gruppi vogliono trasmettere la catarsi emotiva con
imponenti droni elettrici, gli hubris. al contrario preferiscono
affidarsi all'empatia delle dinamiche che uno strumento musicale può
tirar fuori.
27 Miles Underwater
Con gli Higher Power ed il loro secondo album 27 Miles Underwater pare di essere tornati indietro alla scena post
hardcore di Long Island di venti anni fa. Solo che gli Higher Power
provengono da Leeds, ma il loro sound non potrebbe essere più americano,
ricordando un mix tra Glassjaw, Jane's Addiction e Cave In, con
in più un'attitudine grunge e pop punk da non sottovalutare.
Notes on a Conditional Form
Per quante riserve uno possa avere sul pop rock dei The 1975, con Notes on a Conditional Form non c’è che da arrendersi e certificare il talento della band. Se già in molti avevano lodato lo stato di grazia del precedente A Brief Inquiry Into Online Relationships, in questo caso i The 1975 si sono superati e hanno pubblicato il loro miglior album. Fortunatamente qui è assente quella vena più leggera e piuttosto sciocca che aveva fatto parte di alcuni brani del passato, conforme al tipo di pop più inconsistente e volubile a cui il mainstream ci ha assuefatto. Ad ogni modo, nei corposi 80 minuti di musica contenuti in Notes on a Conditional Form il gruppo sforna una quantità di materiale come fosse una playlist impazzita, ma ogni traccia è ben incentrata nella propria sfera di appartenenza. Quasi come dei pretenziosi giovani autoindulgenti e indisciplinati, i The 1975 passano in rassegna una moltitudine di stili, enfatizzandone il più possibile ciò che li contraddistingue, quasi a sembrare ogni volta una band differente. La ricchezza di Notes on a Conditional Form può essere vista come una carrellata panoramica sul pop contemporaneo e la sua straripante brama di coprirne il maggior numero di aspetti possibile ne fa quasi un corrispettivo pop di SIX dei Mansun. Ritorna immancabile l’amore per gli anni ’80 negli accordi alla Tears for Fears di If You’re Too Shy (Let Me Know), ma anche le diramazioni più moderne di musica elettronica sperimentale (Having No Head) o destrutturata alla Bon Iver (Yeah I Know, What Should I Say). Justin Vernon è un palese riferimento anche nella sua veste acustica nel folk di Jesus Christ 2005 God Bless America, cantata insieme a Phoebe Bridgers. Ci sono inoltre inaspettati tuffi negli anni ’90 con lo scintillante shoegaze di Then Because She Goes, con la rock ballad AOR Roadkill, o con il post punk riletto in chiave brit pop di People. Tutto questo, e molto altro ancora, si trova su Notes on a Conditional Form e, se i The 1975 hanno comunque sempre inseguito una linea stilistica ambiziosamente sfaccettata, solo ora grazie anche ad una produzione magistrale, raggiungono il massimo dell’eclettismo portato a compimento in ogni tema toccato.
#41.VEMM
Compromesso
Primo atto di una trilogia di album concept, in bilico tra rock opera e opera concettuale, permettendo alla band di spaziare nel modo più ampio possibile tra
una moltitudine di dinamiche strumentali, si incontrano rock, fusion, metal in un trasversale gioco ed scontro di stili musicali. Con Compromesso i VEMM si qualificano tra i più competenti,
ambiziosi ed originali interpreti odierni del prog italiano e non solo.
#40.Jaga Jazzist
Pyramid
Pyramid segna un capitolo nuovo per i Jaga Jazzist, frutto di una
sinergia collaborativa tra i membri, ed è
il primo album autoprodotto dal gruppo stesso, realizzato in sole due
settimane. Il mix strumentale che viene a crearsi è assolutamente affascinante: pur
percependo la loro appartenenza al XXI secolo, le composizioni di Pyramid
pongono l'accento in un'esplorazione timbrico/sonora, piuttosto che
snodarsi in sezioni multipartite. L'insieme genera un ibrido da corto
circuito temporale: le spore psichedeliche provengono dagli anni '70, il
sound design dei sintetizzatori ha un che di retrowave anni '80, mentre
la coolness jazz delle vibrazioni ritmiche e orchestrali arriva
direttamente dagli anni '60. Pyramid è un suggestivo viaggio e commento sonoro nel futuro
passato, una specie di equivalente musicale delle illustrazioni retro
futuristiche di Syd Mead.
#39.The Most
Of What We Have
Con Of What We Have i The Most pubblicano il loro primo album
dopo due interessantissimi EP di math rock che si incontra con il jazz.
Il settetto infatti, oltre a far uso spregiudicato di trame complesse
tipiche del rock più intricato, aggiunge una sezione di fiati, elementi che in questo
album si ampliano con l'aggiunta di tre ospiti al clarinetto tenore,
alto sax e tuba, facendo diventare a tutti gli effetti i The Most un
ensemble sperimentale che, volontariamente o meno, si accosta anche alle
metodologie stravaganti e tortuose del Rock In Opposition. L'equilibrio
tra consonanza e dissonanza è costantemente rimesso in discussione non
solo dagli strumenti, ma anche dalle tre voci di Connor Waage, Nick
Hasko e Sean Pop a tratti volutamente sgraziate nell'inserirsi in un
contesto musicale del genere che comunque, per il suo approccio
funambolico, richiede una componente anarchica e destabilizzante.
#38.VAR
The Never-Ending Year
Partiti con un sound molto vicino ai loro conterranei Sigur Ros, i VAR con The Never-Ending Year lasciano da parte droni, musica d'ambiente e
ripetitività e si dedicano più alla melodia ed a creare vasti e suggestivi
paesaggi sonori intrisi di intensa dolcezza e asprezza, animando le dinamiche con maggior presenza ritmica ed elettrica,
aggiungendo in più melodie maggiormente inclini all'indie rock piuttosto che al
post rock. Il lavoro di calibrazione ha ripagato i VAR con un album
elettrico, orchestrale e solenne, un po' art rock e un po' pop.
#37.Into It. Over It.
Figure
Evan Weiss si è preso la sua pausa più lunga tra un album e l'altro, con Figure ha avuto modo quindi di maturare il proprio songwriting. Il midwest emo che nei primi lavori aveva un taglio schietto, simil post punk per l'irruenza e quasi solare nel suo incedere, qui si tinge di una sottile vena crepuscolare da cantautore indie.
#36.The Band Royale
The Band Royale
Lo stile dei The Band Royale prende le mosse dal classic rock e lo fonde con la psichedelia e dei groove ipnotici. E' un hard rock aggressivo ma gentile e dalle caratteristiche raffinate
quello che il trio di Chicago formato dai fratelli Bauman - Nate
(batteria), Joel (chitarra e voce) e Zach (chitarra) - chiama giustamente yacht
metal. Toccando di striscio il progressive rock grazie a groove
chitarristici che sconfinano nella psichedelia e nello stoner metal, i
The Band Royale offrono una proposta che si ascolta con gran piacere e
anche trasporto.
#35.Redwood
Beside a Shallow Sun
Dopo due bellissimi EP il gruppo inglese Redwood debutta con un album che prosegue sulla scia da questi tracciata. Tra suggestioni dreamgaze e riverberi ambient, i Redwood
ampliano il loro spettro sonoro fino ad allargarsi alla sponde del post
rock, creando quegli impasti sontuosi e avvolgenti tipici della scena alternativa americana, per quanto il loro sound
stratificato trasuda di quell'emo infuso di math rock originario del
midwest. Si intuirà, quindi, che nella musica dei Redwood si
riconoscono quei vari stili che nel tempo sono venuti a contatto tra
loro e si sono fusi in un'unica tavolozza dai contorni caleidoscopici.
#34.Riviẽre
Passage
Passage è una seconda prova per i francesi RIVIẼRE che rimane in ambito prog metal, ma
che si allontana dall'ingombrante paragone con i Karnivool di cui godeva
il pur interessante primo album. Sempre all'Australia comunque sembrano
guardare i RIVIẼRE, con i forti echi tribali dei COG. Tutto sommato però la band cerca di essere
più personale questa volta, tentando alternative, osservando altre
possibilità sonore, che si risolvono portando sul tavolo passaggi
chitarristici mutuati dal math rock (Shapeless) oppure onde soniche vorticose provenienti dal post rock (la title-track, Surface), oltre che pertinenti tracce di elettronica che aumentano l'atmosfera "retrofuturistica" (New Ghost, Pressure Steps). In questo modo Passage assume dei connotati psichedelici e
alternative rock, molto più incline ad aperture melodiche.
#33.Amarionette
Sunset on This Generation
Forse la prima band ad aggiungere un po' di funk dentro il post hardcore, in questo album gli Amarionette hanno messo a punto tale formula per una collezione di pezzi popcore pressochè perfetta. Peccato siano ancora troppo sottovalutati.
#32.Autocatalytica
Powerclashing Maximalism
L'incontrollabile, folle e imprevedibile progetto Autocatalytica del chitarrista Eric Thorfinnson approda, con Powerclashing Maximalism, ad un lavoro più contenuto e meno ambizioso del precedente e dobordante Vicissitudes.
Non che l'eclettismo e la pirotecnica vena creativa siano carenti in
questo capitolo, ma la minor quantità di materiale presentato fa in modo
di digerire l'album con più dedizione e attenzione. Come sempre nella
tavolozza degli Autocatalytica si passa da orrorifici growl a melodie
power metal con la stessa incuranza eclettica di Devin Townsend, senza
alcun timore di creare un saliscendi vertiginoso tra stili.
#31.As Real
Marveless
A parte sapere che è un trio proveniente da Portland (Maine, non Oregon)
poche altre informazioni sono note degli As Real, anche perché Marveless
è il loro primo lavoro e, seppure viene definito un EP, la lunghezza
dei brani in esso contenuti può benissimo comparare l'esordio ad un vero
e proprio album. Il sound è uno scontro tra shoegaze, space rock e i
Deftones più psichedelici.
New Wilderness
La
storia di quello che è il primo e ultimo album dei Corelia (riassunta qui) rimarrà
tra le più amare e disgraziate nell'epoca del crowfunding. New Wilderness dopo anni di attesa esce in una forma incompleta, ma questo non ha impedito al disco di mostrarsi di grande spessore, oltre che un'opera gigantesca e ambiziosa che racchiude tante sfaccettature che girano attorno al prog metal, dal djent al math, dal technical al thrash, dal power alla fusion. Per questo, nonostante la sua lunga durata (oltre 90 minuti), New Wilderness rimane godibile e soddisfacente, mentre in ogni brano si trovano idee differenti e un'alta qualità tecnica e compositiva, a partire dalla voce limpida e stentorea di Ryan Devlin. Veramente un peccato per i Corelia chiudere la loro storia in un modo così amaro: tra spreco di talento, fan delusi e un album non completato che li avrebbe potenzialmente proiettati tra i nomi di punta del prog metal.
#29.Daniel Tompkins
Ruins
Il cantante dei Tessaract reintepreta il suo album d'esordio da solista Castles e ne tira fuori un lavoro completamente diverso, ricongiungendosi in parte con quel
genere che gli ha dato popolarità, cioè il prog metal. Questa volta le atmosfere si fanno più metalliche ed oscure,
l'elettronica non è scomparsa del tutto sposandosi bene con le chitarre
djent, mentre la voce di Tompkins è libera di vibrare tra gli acuti più
luminosi e gli scream più cupi e aggressivi. Quindi, anche se le
tematiche e le liriche rimangono quelle di Castles, Ruins ha tutt'altro sapore tanto che persino i titoli dei brani sono stati cambiati. Quanto stagnante e privo di vera emotività appariva l'electro art pop di Castles, tanto musicalmente più interessante e profondo, oltre che intriso di melodrammatica dinamicità, si mostra Ruins, rendendo giustizia al Tompkins solista.
#28.Glacier Veins
The World You Want to See
Dopo aver prodotto due EP il quartetto di Portland Glacier Veins fa il
suo ingresso alla Equal Vision Records e debutta con l'album The World You Want to See.
Il gruppo che si definisce "dream punk", è partito come un progetto
solista della cantante Malia Endres, alla quale in seguito si sono
aggiunti amici musicisti. Il mix di pop, emo e alternative rock è molto
accattivante e sembra portarci indietro di qualche anno ai tempi dei
migliori Paramore, ma aggiornati al 2020.
#27.Shiner
Schadenfreude
A distanza di diciannove anni gli Shiner tornano adesso con Schadenfreude, un album che tiene conto delle
trasformazioni del rock alternativo americano degli ultimi quindici
anni. In molti hanno paragonato gli Shiner agli Hum e ancora in effetti
risplende quella scintillante elettrificazione sonica di chitarre
lisergiche e rallentate, ma gli Shiner vanno a scavare anche nel post
grunge e nell'emocore, sembrando una sublimazione tra Soundgarden e
Sunny Day Real Estate. Come gli Hum, gli Shiner danno sfogo ad acide cavalcate space hardcore, la distorsione rimane come sempre la protagonista negli album degli Shiner e anche su Schadenfreude
assume un ruolo preponderante, la loro non è però alimentata da
propellente heavy rock, ma è più simile ai vortici nebulosi dello
shoegaze, come se risucchiasse lo spazio intorno a sé.
#26.Another Sky
I Slept on the Floor
Dopo due ottimi EP, l'esordio degli Another Sky non tradisce le aspettative e i quattro inglesi vanno ad approfondire un personale art pop intriso di suggestioni progressive, post
rock e dream pop, talvolta crepuscolare e altre volte violentemente
melodrammatico, per sottolineare i testi con una spiccata impronta di
stampo politico e sociale. Già forti di un solido tessuto sonoro, è
nella voce di Catrin Vincent che gli Another Sky trovano una
caratterizzazione.
#25.Chaos Divine
Legacies
Gli australiani Chaos Divine con il quarto album, che arriva a cinque anni di distanza dall'ultimo Colliding Skies,
hanno deciso di dare uno sguardo al passato e tornare parzialmente
all'aspetto metal più estremo dei primi lavori, pur mantenendo la
componente più prog e melodica emersa di recente. Il risultato è un inaspettato equilibrio e compromesso tra i due punti di vista.
#24.McStine and Minnemann
McStine and Minnemann
McStine and Minnemann
Il primo prodotto della premiata coppia McStine e Minnemann è un concentrato di prog, pop e art rock
che si inserisce in continuità e in sintonia nell'ottica di quanto già
prodotto dal duo anche in ambiti autonomi. I brani rispettano nella maggior parte dei casi la forma canzone, ma è
negli intermezzi che il duo si dedica a soluzioni prog, attraverso
passaggi strumentali elaborati.
#23.Kairon; IRSE!
Polysomn
Arrivati al quarto album in studio con Polysomn, questa volta i finlandesi Kairon; IRSE! cercano una nuova propettiva al progressive rock rispetto al precedente Ruination.
Dai vortici retro-progressivi del passato, adesso la band si immerge
completamente in sognanti e caleidoscopici impasti di chitarre e
sintetizzatori che si perdono tra elettrificazioni metal e scintillanti
riverberi dreamgaze. C'è da dire che l'universo sonoro psichedelico
toccato da Polysomn si collega a vari strati e vari incastri di generi come il post rock, lo shoegaze lo space rock e il dream pop. Polysomn si muove tra passato e presente con invidiabile
ispirazione e svela un gruppo ancora troppo sottovalutato nel panorama
psych prog.
#22.Logan Kane Nonet
Nope, Science
Ascoltando Nope,science non si può rimanere che stupiti una volta scoperto che l'album è il frutto di un bassista appena ventitreenne. Logan Kane è infatti responsabile di uno degli esordi jazz più interessanti dell'anno. Kane compone del lucido jazz sinfonico compreso tra la tarda
scuola di Canterbury dei National Health e il Frank Zappa più
orchestrale. Alla maniera di Kamasi Washington la missione di Nope,science è
quella di attraversare un'area trasversale che non si ferma al jazz
tradizionale con gli assoli strumentali esibiti dai vari membri, ma si
espande al prog rock, alla musica classica e all'avant-garde, innescando
delle vere e proprie suite con complessi contrappunti e arrangiamenti
armonici degni di un'orchestra. Un disco ricco di stimoli per un autore novizio che, nonostante la
giovane età, maneggia le complesse partiture come fosse un veterano.
#21.Hayley Williams
Petals For Armor
Dopo aver reinventato il sound dei Paramore negli ultimi due album, Hayley Williams si ritaglia uno spazio tutto suo e per il proprio esordio da solista riparte di nuovo da zero e cambia di nuovo strada. Quello di Petals for Armor è un art pop intimo e riflessivo, capace però anche di sprazzi new wave, funk e pop solare.
#20.Vennart
In The Dead, Dead Wood
La terza prova da solista dell'ex Oceansize Mike Vennart nella sua totalità
è un passaggio oscuro e meditativo, che
non manca di squarci aggressivi come nel caso del singolo fuzz Super Sleuth. Ad ogni modo In The Dead, Dead Wood
appare come l'album più personale di Vennart, distanziandosi dai canoni
della sua vecchia band. Oltre a ciò, la natura più immediata di certe
soluzioni compositive, questa volta meno inclini a sperimentazioni
progressive e maggiormente indirizzate al cantautorato art rock, palesa
le circostanze improvvise e imprevedibili del lockdown che hanno generato l'album.
#19.Once and Future Band
Deleted Scenes
Deleted Scenes è tutto quello che ci si poteva aspettare da una
seconda prova e anche di più, dato che le sorprese non mancano. Benché
infatti ai Once and Future Band non manchino certo le doti per
scrivere perfetti sonetti di pop barocco nello stile di Beatles ed
Elctric Light Orchestra, questa volta puntano molto anche sui pezzi strumentali, addirittura quattro, dove possono sfogare il proprio lato prog e jazz. L'aggettivo cool salta più volte alla mente ascoltando Deleted Scenes,
dato che la sua estetica ha il potere immaginativo di ricreare tutto un
mondo passato. Gli arrangiamenti alle volte si fanno caleidoscopici,
coinvolgendo orchestra e armonie vocali e pare di tornare indietro, con
la mente e le orecchie, ai tempi delle colonne sonore anni '70 o alla
lounge soft disco sempre di quel periodo.
#18.Bitch Falcon
Staring at Clocks
Il debutto di questo trio iralndese mostra già una maturità invidiabile nel miscellare shoegaze e post punk, come se non fosse abbstanza a rendere tutto molto più onirico ci pensano inaspettati echi di elettronica e la voce soave ed aggressiva di Lizzie Fitzpatrick. Contando su una sezione ritmica ben rodata, affiatata e tiratissima composta dal basso di Barry O’Sullivan e dalla batteria di Nigel Kenny, la Fitzparick si serve della chitarra come se fosse un mezzo per suturare gli spazi lasciati vacanti, tra feedback viscerali, riverberi abissali e note reiterate, tralasciando power chords e accordi ritmici. Uno degli esordi più convincenti dell'anno.
#17.Poppy
I Disagree
I Disagree è un album che se fosse stato scritto da qualcun'altro
forse non avrebbe la stessa forza e onda d'urto, perché tutto è
funzinale alla personalità multitasking di Poppy, la quale dà una
sterzata al dance pop dei suoi primi due album e si lancia in una
spregiudicata collezione di stili messi insieme come un patchwork post
moderno di generi. Questo continuo interscambio di generi, traccia dopo traccia, rimanda
inconsciamente al pop zuccheroso, ma ben camuffato di volta in volta dai
beat disturbanti di Marilyn Manson, dalle folli acrobazie dei Mr.
Bungle e dal malato industrial dei Nine Inch Nails. Il risulatato è un inaspettato mix metal piacevole e divertente.
#16.Good Tiger
Raised in a Doomsday Cult
Anche in questo terzo lavoro i Good Tiger riescono per certi versi a non
ripetersi e, pur lasciando invariata e accessibile la loro formula di
experimental post hardcore, ne esplorano il lato più progressivo e math
rock. Raised in a Doomsday Cult rende possibile l'incontro tra
aspetti antitetici come la volontà di sperimentare architetture
complesse che vanno a diluirsi nelle linee pop rock evocate dalla voce
di Elliot Coleman. Il concentrato messo in atto in questa sede dona una
nuova luce alla furia pilotata dell'euforico esordio, oltre che alle
grandi aperture armoniche della seconda prova e allo stesso tempo
preserva l'identità dei Good Tiger. Le soluzioni melodiche immediate che si adattano alla tortuosità delle
trame e la scelta dei suoni insoliti che richiamano l'ambient, il post
rock e il math rock piuttosto che il metal, sono come un suggerimento per
confrontarsi e differenziarsi da altre band. Raised in a Doomsday Cult appare
abbastanza eterogeneo e per questo molto stimolante in quanto ogni brano
ha qualcosa da offrire in termini di idee. Stimolante nella sua
semplicità e gradevole nella sua complessità.
#15.Azusa
Loop of Yesterday
Senza far passare molto tempo dal disco d'esordio Heavy Yoke,
il supergruppo internazionale Azusa si
ripresenta con la seconda prova, in una continuità di lavoro senza sosta rispetto a quanto già prodotto. Loop of Yesterdays
sembra esprimere proprio questa fretta o urgenza creativa, ancor più
secco, veloce e affilato del suo predecessore. Inevitabile che l'album
segua le stesse coordinate estreme in un pressoché perfetto
consolidamento di identità che non cede un passo alla frenetica marcia
innescata da Heavy Yoke. Con solo tre musicisti (e una cantante) gli Azusa architettano una fitta ragnatela di
intricate ritmiche e arpeggi destrutturati che si frammentano in tanti
rivoli. Ed in questo caso le idee soniche e
timbriche giacciono negli arrangiamenti e non nelle strutture,
leggermente più ortodosse questa volta, dato che l'alternarsi tra
"quiet" e "loud" si colloca in dei precisi punti dello svolgimento (tipo
verse/chorus).
#14.Orchards
Lovecore
Lovecore riprende il discorso da dove lo avevamo
lasciato con l'EP Losers/Lovers, ma il quartetto guidato dall'incantevole voce di Lucy
Evers lo rinforza con ancor più spessore, utilizzando melodie
incredibilmente orecchiabili, un interplay strumentale calibrato al
millimetro per far battere i piedi in tempi dispari, incartato in un
pacco regalo math pop dall'alto tasso infettivo. Lovecore è una collezione di brani dove gli
Orchards non sbagliano un colpo, nel quale traspare una confidanza e
una sicurezza nel mettere sul piatto elaborate parti strumentali a
disposizione di solari, malinconiche e orecchiabili arie pop che tutto
ne esce con naturalità e semplicità. Se siete amanti del math rock e
dell'indie rock, o della buona musica in generale, Lovecore è un
disco da non perdere, che vi farà passare minuti spensierati, ma anche
riflettere, grazie alle liriche profonde e personali della Evers.
#13.Cold Reading
ZYT
La prima impressione ascoltando i Cold Reading è quella di avere di
fronte una band inserita perfettamente nel panorama alternative rock del
midwest emo statunitense, invece il quintetto arriva da Lucerna, Svizzera. ZYT è la combinazione completa di tre EP che, a partire dal primo brano Through the Woods,Pt.1,
presenta un gruppo ancora innamorato dell'emo, ma che lascia da parte
le dinamiche alla Brand New dell'esordio - anche se non dimenticate del
tutto (Escape Plan Blueprint/New Domain) - e lo trasporta in una
dimensione più contemporanea. Il che vuol dire aggiungere alla formula
suggestioni sonore e piccoli accorgimenti mutuati da universi paralleli
come il post rock (Mono No Aware, Oh Seewt Hereafter, Present Tense) e math rock (Stay Here Stay Now).
E' naturale che non si deve prendere alla lettera ognuno di questi
influssi, ma la lettura di superficie della combinazione di tali
equilibri crea dei paesaggi sonori perennemente in bilico tra malinconia
e aggressività.
#12.Loathe
I Let It in and It Took Everything
Nella sua seconda opera in studio il gruppo metalcore di Liverpool espande in ogni direzione le possibilità del genere senza i virtuosismi math rock dei Car Bomb, ma con altrettanta
radicalità. Se da una parte spingono in modo violento ed eccessivo
sull'abrasiva enfasi di suoni industriali e metallici, dall'altra la
dolcezza di momenti più psichedelici e shoegaze avvolge tutto il
contenuto in una patina surreale e sospesa nel tempo. Il continuo riferimento ai Deftones che si può leggere un po' ovunque,
soprattutto in riferimento alla vocalità del frontman Kadeem France e al
singolo Two-Way Mirror, lascia il tempo che trova, poiché
paradossalmente i Loathe sembra che suonino con più passione e meno
freddezza. Lo switch tra generi proposto dalla tracklist può
essere la carta vincente per far appassionare anche chi ha dei
pregiudizi nei confronti del metalcore, dato che la controparte di tutta questa violenza non potrebbe essere più
distante, sempre orchestrata dai due chitarristi che mutano totalmente
approccio quando si tratta di gettare gli abiti pesanti per rivelarsi
dei raffinati fautori di shoegaze ed emo.
#11.ART the Band
ART the Band
Un sestetto prog jazz proveniente da Toronto e, dopo
qualche EP, l'album omonimo è un concentrato di grande sapienza nel
mettere insieme differenti umori fusion che passano dal math rock a
qualche influsso sudamericano. Guardando con la stessa attenzione al big
band prog dei Thank You Scientist e allo sfoggio di trucchi virtuosi in
stile Snarky Puppy.
Ho sempre apprezzato la sensibilità di musicista e chitarrista di John Mitchell, sia nel gusto di suonare sia in quello di comporre. Nel suo progetto da solista Lonely Robot ha abbracciato un art prog semplice ed immediato, che anche se nulla aggiunge al genere è prodotto sempre con grande competenza e professionalità. Dopo una trilogia di album dalla qualità ondivaga in questo quarto Mitchell raggiunge un invidiabile equilibrio nell'azzeccare melodie efficaci e arrangiamenti sofisticati, tanto che, a differenza degli altri lavori, non ci sono momenti deboli e ne esce un pugno di brani solidi e memorabili.
#9.Biffy Clyro
A Celebration of Endings
Non avrei mai pensato di includere un album dei Biffy Clyro tra le mie prime dieci scelte di fine anno visto l'andazzo che aveva preso la loro discografia. Ma già dal precedente Balance, Not Symmetry (anche se catalogato come soundtrack) si intravedevano margini di miglioramento. A Celebration of Endings riporta l'energia e l'ispirazione a livelli che trovano il giusto compromesso tra i Biffy più votati alla melodia di facile presa e quelli più abrasivi e cerebrali dei primi tempi. Naturalmente non si spingono così avanti con
il post hardcore (a parte la conclusiva Cop Syrup), i Biffy sono ancora quelli che hanno mietuto successi
commerciali negli ultimi anni, ma questa
volta osano un po' di più e lo fanno con un album che riporta a galla in parte lo spirito anticonvenzionale che gli apparteneva. Azzardo a dire: la loro cosa migliore prodotta dai tempi di Infinity Land.
#8.Gavin Castleton
Here You Go.
Here You Go. è il nuovo capitolo della discografia di Castelton (tastierista nei The Dear Hunter),
un lavoro nel quale viste le scelte minimali del passato, si è speso
molto in termini di produzione e composizione, ritornando dopo molto
tempo su canoni meno inclini all'hip hop e alla sperimentazione
elettronica, mettendo in piena luce le sue doti di cantautore art rock,
abilità che aveva già mostrato su Home e che qui ritrova la propria vena creativa in forma smagliante. Con Here You Go. Castleton dà prova di nuovo di appartenere a
quella schiera di autori talentuosi che il mondo della musica ignora
bellamente, mentre lui intanto, incurante, continua a sfornare questi
piccoli grandi gioielli.
#7.Vulkan
Technatura
Anche se non c'è bisogno di ribadirlo la Svezia si conferma fertile
terra di talenti per quanto riguarda il progressive rock. Dopo aver dato
atto della loro competenza in tale ambito con due album, i Vulkan con Technatura
superano qualsiasi aspettativa. Dai tempi di Observants
(2016) i Vulkan dimostrano di avere fatto un grande passo di maturità
verso ogni direzione: 1) arrangiamenti, che risultano più stratificati e
ricchi, 2) produzione, con una grande cura per dare risalto ai vari
strumenti utilizzati, 3) abilità specifiche dei membri, a cui un
particolare plauso va a Jimmy Lindblad per aver saputo lavorare sulla
propria voce per dargli più personalità, decidendo oltretutto di cantare
sia in lingua inglese che svedese e riuscendo a mantenere una fluidità
metrica associata alla musica veramente encomiabile.In questo nuovo lavoro il risalto dato alla sezione ritmica,
attraverso vari tribalismi o richiami arcaici, può far venire in mente
certe soluzioni alla Tool o Karnivool. Non che con gli
altri due album i Vulkan non avessero
provato a sollevarsi sopra la media di molti gruppi prog contemporanei
più pubblicizzati, ma Technatura li consacra tra gli interpreti più
illuminati per portare avanti la fiamma del prog meno scontato.
#6.Gloe
Dead Wait
Prendendo come base di partenza il post hardcore progressivo dei The
Mars Volta i Gloe lo hanno addizionato a risvolti math rock con dei curiosi
innesti
ambient che, collocati all'interno delle sonorità elettriche e
psichedeliche, potremmo ricondurre allo shoegaze. E' un singolare
connubio di elementi che porta a degli accostamenti impensabili come se i
Circa Survive suonassero jazz ed echi di un altro gruppo originale come
i The Valley Ends. La peculiarità delle ragnatele soniche prodotte dalle chitarre di Dan
Actor e del frontman Ian Cooper sono come delle continue spore
elettriche che contaminano ogni fessura della trama musicale, mentre la
sezione ritmica ad opera di Brian Fell (batteria) e Chris Jensen (basso)
si inventa costantemente tempi di accompagnamento mai banali per
complicare ulteriormente quella che pare consolidarsi come un'atmosfera
ultraterrena avviata verso lidi di calma e tensione apparente.
#5.Galia Social
Rise
I Galia Social si presentano al proprio esordio discografico con un
sound totalmente rivoluzionato, che attinge come spunto alla smooth math fusion che suona oggi Ben Rosett e al dinamismo più funambolico degli Strawberry Girls e li espande a dismisura, verso satelliti lanciati
nell'ignoto in cerca di nuovi segnali e stimoli per le nostre orecchie. Rise
è un iperbolico viaggio nella fusion progressiva con agganci neo soul e nu jazz,
che possono provenire dalle contaminazioni pop dei Dirty Loops quanto
dai virtuosismi degli Arch Echo, per dare forma ad un sound sognante,
avvolgente, cool e intensamente jazz futurista.
#4.Arcing Wires
Prime
Gli australiani Arcing Wires affrontano l'esordio discografico con un
ambizioso ed esaltante mix di math rock, progressive rock e jazz,
realizzato con competenza ed urgenza creativa.
#3.Elder
Omens
La parola "epico" è un termine che non è fuori luogo pensando a come sono
strutturati i brani degli Elder, che mai temporalmente scendono sotto
gli otto minuti. Inutile celebrare l’impagabile lavoro chitarristico di
Nick DiSalvo, fonte inesauribile di riff e groove elettrici che si
susseguono uno dopo l’altro con una fluidità senza eguali. Omens non fa altro che consolidare questi aspetti già presenti
sul lavoro precedente, ancora una volta immerso in un crocevia tra
stoner rock e progressive rock, lasciandosi alle spalle l'alone più doom
e heavy metal degli esordi. Ecco allora che la maturità può dirsi
ampiamente compiuta. Omens è un altro capolavoro targato Elder che, a piccoli passi,
trova sempre deviazioni interessanti in una formula collaudata che li avrebbe
potuti ingabbiare.
#2.Hum
Inlet
Inlet segna senza dubbio un ritorno in grande stile per gli Hum, dato che il loro inimitabile sound non ha perso un briciolo della sua
intensità, al contrario le canzoni pulsano dall'infinito spazio profondo
dello shoegaze e della distorsione, creando un perpetuo muro
psichedelico siderale nel quale perdersi, in direzione di un viaggio
verso i meandri più caleidoscopici dell'elettrificazione. Anche la produzione appare sempre più solida, corposa e compatta rispetto al passato. Dopo ventidue anni di assenza dalla studio di registrazione, con Inlet
gli Hum mantengono altissima la reputazione che si sono conquistati,
pur rimanendo costantemente un culto ai margini della musica di consumo.
#1.Martin Grech
Hush Mortal Core
Hush Mortal Core è il quarto album in studio di Martin Grech ed arriva dopo ben tredici anni dall'ultimo lavoro in studio March of the Lonely (2007). Come una rinascita Hush Mortal Core rappresenta una nuova epifania artistica per Grech, poiché scandaglia nella maniera più soddisfacente ogni aspetto della sua musica, trovandosi scaraventati in un eterogeneo vortice di post rock, prog rock, djent, folk e avant-garde. La versatilità di Grech nel passare dai più delicati ambiti acustici al metal sperimentale oppressivo e potente, la scelta ricercata nell’uso delle liriche per donare all’insieme un alone più poetico, fanno di Hush Mortal Core un’opera ponderata e curata sotto ogni aspetto. Ed è così che si rimane sopraffatti e impreparati di fronte alla capacità e alla sensibilità dimostrata da Grech nel manipolare con sapienza e a suo piacere ogni forma stilistica, piegandola alla propria visione originale dal carattere sperimentale, evanescente e libero. Senza esagerazioni Hush Mortal Core si profila come un capolavoro dei nostri tempi incerti, che rimarrà tra le cose più belle e preziose di questo anno da dimenticare.
Per chi ne fa uso, qui di seguito una playlist su Spotify che raccoglie, o almeno cerca di farlo, il meglio del 2020 secondo altprogcore
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