domenica 30 settembre 2018

Hail the Sun - Mental Knife (2018)


Non c'è niente da fare, per quanto si possono sforzare i Circa Survive e i gruppi a cui hanno aperto la strada da diverso tempo, non arriveranno mai ad essere conosciuti da noi. Eppure, grazie all'ennesimo prodotto in tema di experimental post hardcore, viene da chiedersi il perché gente come Sianvar, Stolas, Eidola, Dance Gavin Dance, A Lot Like Birds e, in questo caso, Hail the Sun, nonostante continuino a pubblicare album a getto continuo ormai da molti anni, siano ancora praticamente ignorati da buona parte del pubblico. Arrivati al 2018 si può dire che il genere ha anche avuto modo di affermarsi e delinearsi in tutte le sue peculiarità - tanto da aver creato attorno a loro una vera e propria famiglia allargata con membri in comune che entrano ed escono scambiandosi i ruoli e aver quasi autonomamente creato un fittizio e pretestuoso sottogenere chiamato "swancore" (nome derivato dalla Blue Swan Record di Will Swan) - che potranno anche non incontrare il gusto di tutti, ma senza negare una certa originalità nello spingere la ricerca e i limiti del post hardcore verso nuovi e ambiziosi orizzonti.

Ecco quindi che siamo di nuovo qui a parlare degli Hail the Sun che presentano il loro secondo lavoro sotto l'etichetta Equal Vision Records, arrivato a soli due anni di distanza dal notevole Culture Scars e con un EP di mezzo pubblicato lo scorso novembre. Per rendere il concetto più chiaro su quanto non freghi nulla di queste band - non diciamo in Europa ma almeno qui da noi - non credo di essere mai incappato in una recensione italiana riguardo gli Hail the Sun o uno dei gruppi sopra citati, eppure non mi sembra che facciano così schifo da essere totalmente ignorati, ma forse è perché non sono abbastanza cool per i siti musicali cool. Più che recensire Mental Knife, che è un solido attestato di mathcore post prog, verrebbe piuttosto da chiedersi a questo punto i motivi per i quali tale genere da noi non è mai arrivato e soprattutto recepito: troppo estremo per i puristi del classico progressive, troppo complesso per gli amanti del post hardcore che spesso preferisce flirtare con il pop punk.

Queste considerazioni vengono alla mente poiché, se fino ad ora le cose sono andate in questa direzione non cambieranno di certo con Mental Knife, dove Donovan Melero e compagni prendono di petto le frenetiche dinamiche fondate quindici anni or sono da The Mars Volta e At the Drive-In e per tutta la sua (breve) durata non fa nulla per agevolare un facile approccio alla musica, anzi è forse ancor più spietato nel suo negare compromessi a differenza del precedente Culture Scars, il quale conteneva almeno qualche episodio rilassato che smorzava la tensione. In questo caso gli Hail the Sun dimostrano di voler proseguire la tendenza del recente EP Secret Wars e rifarsi alle progressioni estreme ed intricate che dettavano il fuoco di fila dei primi The Fall of Troy.


mercoledì 26 settembre 2018

Slow Crush - Aurora (2018)


Nelle generazioni più giovani il revival dello shoegaze può comportare dei fraintendimenti dato che ultimamente, spesso e volentieri, questo genere musicale è stato associato e assorbito insieme ad una variante molto estrema di metal, andando a confluire nel cosiddetto blackgaze. Non fatevi trarre in inganno o stupitevi quindi se accanto al nome degli Slow Crush leggerete, come termine di paragone, i recenti paladini Deafheaven, Alcest, MØL o Oathbreaker, band con le quali hanno poco o nulla da spartire, anche se come incentivo si sono assicurati l'attenzione di un'etichetta come la Holy Roar Records che dei suoni eccessivamente abrasivi ha fatto un marchio di fabbrica. E' vero, c'è una certa heavyness nelle maglie elettriche scagliate dagli Slow Crush, ma il loro intento è far sognare con dolcezza senza ricorrere ad irrequieti sbalzi di atmosfera troppo repentini o traumatici.

Il giovanissimo gruppo (per metà belga e metà inglese) che ha iniziato il suo cammino nel marzo del 2017, e ora al debutto con lo scintillante Aurora in uscita questo venerdì, riporta semmai lo shoegaze alla sua vera essenza naturale, ovvero al suo apice compreso tra ultimi anni '80 e primissimi anni '90, quando a farla da padroni erano i My Bloody Valentine in primis, poi Swervedriver, Slowdive, Cocteau Twins e All About Eve. In particolare con questi ultimi condividono qualche scelta estetica, esattamente come nell'ultimo album in studio degli AAB Ultraviolet la bellissima voce di Julianne Regan risultava quasi indistinguibile nel mix finale (suscitando molte perplessità nei fan della prima ora), anche qui gli interventi della cantante e bassista Isa Holliday si trovano sepolti sotto un cumulo di distorsioni fino a renderli un'indistinta e impalpabile presenza. C'è da dire che la Holliday non è la Regan e gli Slow Crush hanno da subito abbracciato questa linea sapendo dove andare a parare, così tale espediente non solo non disturba, ma è funzionale nel rendere la musica ancora più sfuggente e affascinante.

Il ritmo spedito e post punk di Glow e il groviglio elettrico di Drift attirano subito l'attenzione prima di immergersi progressivamente in un lento mare di liquide suggestioni psichedeliche: nel sogno lucido di Tremble e in quello accattivante della title-track per la prima volta la voce della Holliday appare più chiara e sembra cullarci prima di essere investita da una marea montante di distorsioni. Il melodramma gotico dei Cocteau Twins è dietro l'angolo sulla narcolettica Collide e non c'è cosa più dolce per affogare le proprie malinconie. Gli Slow Crush possono essere aggressivi tanto nei riff quanto dolci nelle parti principali come accade su Shallow Breath e su Aid and Abet, ma il fatto che l'alto flusso di riverberi e l'opacità dell'amalgama sonico producano una sensazione di astrazione (come su Beached) contribuisce nel mantenere un microcosmo sonoro ultraterreno. Questa dicotomia di contrasti alla prova dei fatti si rivela piuttosto differente dal metodo quiet/loud tipico del post hardcore, ma serve quasi da saturazione di appagamento dei sensi, dove le suggestioni innescate dall'album creano un'atmosfera unitariamente sognante anche nei momenti più duri. Come debutto Aurora è una delle più convincenti e appassionate dichiarazioni d'amore, da molto tempo a questa parte, nei confronti dello shoegaze inteso come tale.
 




venerdì 14 settembre 2018

Low - Double Negative (2018)


Per quanto non abbia mai dato molta importanza ai Low è quasi del tutto impossibile rimanere indifferenti di fronte a Double Negative. Il nuovo album del trio del Minnesota è qualcosa di alieno, un'eccitante esperienza sonora, un esperimento che trascende il rock o la popular music per abbracciare un più vasto linguaggio sonoro universale. Catalogare come musica rock, indie, alternative o, più propriamente, avant-garde il contenuto di Double Negative sarebbe riduttivo, in questo caso si va oltre il limitante formato di "album", qui siamo di fronte all'equivalente di un'esposizione artistica permanente.

Attivi fin dagli anni '90 i Low si sono costantemente distinti per una musica depressiva, dai connotati chiaroscuri, ma comunque in continua ricerca, attestandosi con qualche riserbo in quel genere definito slowcore. Un'opera del genere la si immaginerebbe realizzata da neofiti ansiosi di affermarsi come nuovi profeti cultori delle tecnologie, invece arriva da dei veterani come i Low la cui ricerca e crescita non solo è andata avanti rispetto a Drums and Guns del 2007 (l'antenato più somigliante a Double Negative), ma ha creato una frattura così marcata e radicale con il passato che non si può far altro che rimanere ammirati di fronte a tanto coraggio e intraprendenza proiettata verso il futuro.

Ritornando a collaborare con il produttore B.J. Burton, dopo Ones and Sixes (2015), i Low devono aver stimolato la sua esperienza con il Bon Iver di 22, A Million portandola al livello successivo. La manipolazione dei suoni attuata su Double Negative prosegue attraverso un sottile legame con l'opera di Justin Vernon, ma con un approccio iconoclasta e di rottura paragonabile alla forza dei guastatori This Heat (se si guarda al passato) o a Kid A dei Radiohead (se guardiamo al presente) e con molta più potenza espressiva degli artisti appartenenti ad etichette indipendenti come Warp e Ninja Tune.

Il modo migliore per gustarsi Double Negative è ascoltarlo in un'unica sessione poiché, anche se l'album è suddiviso in undici tracce, sembra concepito come un unico flusso sonoro di quasi cinquanta minuti. Questa procedura è messa in chiaro e rafforzata fin dall'apertura con il trittico Quorum, Dancing and Blood e Fly, realizzati anche in un video unitario di quattordici minuti. Di certo non sarà un compito facile assorbirlo tutto in una volta, ma lo sforzo ripagherà in termini di coesione, assumendo un senso compiuto. Anche con la volontà di isolare i singoli brani si noterà una costruzione del tutto slegata rispetto ai consueti parametri formali, l'ascolto di Double Negative è quindi un salto nella fede, perché sarà molto raro ascoltare qualcosa di similmente respingente e accogliente al tempo stesso. 

Venendo alla materia che lo permea, la manipolazione del suono è sovrana e talmente esasperata da distruggere qualsiasi residuo di accordo o armonia intesi come prodotto di uno strumento musicale. Ma dal buco nero evocato dalla fredda pulsazione elettronico-industriale, il cui spettro uditivo si estende dal rumore bianco all'evanescenza dell'ambient, emergono detriti di ciò che avrebbero dovuto essere canzoni, ora trasfigurate in surrogati sepolti sotto cumuli di frequenze elettroniche. Sono le voci in lontananza di Alan Sparhawk e Mimi Parker che ci riportano alla dimensione melodica, altrimenti l'impianto strumentale si piega ad un perpetuo stratificarsi di apparati sintetici disarticolati o distorti, tanto da far sciogliere i vostri auricolari.

I Low, con l'algida spietatezza propria di guastatori iconoclasti, distruggono, sporcano e infettano come un virus delle potenziali canzoni malinconiche e riescono nell'improbabile impresa di elevarle ad uno stato artistico a-temporale, a-materiale, anti-musicale, in una parola: eterno. E' così che Double Negative trascende lo status di "album" e diventa un trattato sulla creatività nell'arte. Forse è proprio questo tipo di approccio che intendeva Simon Reynolds quando coniò il termine "post rock" per descrivere Hex dei Bark Psychosis. Double Negative potrà piacere o meno, non sarà di facile assimilazione, ma allo stesso tempo contiene molti elementi che lo rendono affascinante e soprattutto stimolante e quindi un ascolto obbligato per ogni serio amante della musica.


giovedì 13 settembre 2018

Arcane Roots - Landslide EP (2018)


E così anche la storia degli Arcane Roots è giunta al capolinea. Infatti, poco dopo l'annuncio della pubblicazione dell'EP Landslide che vedrà la luce domani, il trio ha inaspettatamente deciso di terminare la propria attività dopo aver onorato le ultime date del tour inglese. Altprogcore fu uno dei primi siti italiani a segnalare la band prima ancora che diventasse un nome di spicco nella scena alternativa internazionale ed è quindi giusto rendere omaggio al loro addio con questo breve post. Landslide rimarrà per cui l'ultimo capitolo discografico degli Arcane Roots e contiene in tutto quattro tracce: una è l'inedita title-track, mentre le rimanenti sono delle rivisitazioni in chiave ancor più elettronica e sperimentale di tre brani tratti dall'ultimo lavoro in studio Melancholia Hymns (Before Me, Matter, Off the Floor). L'EP musicalmente chiude la carriera del gruppo in modo quasi diamentralmente opposto a quel post hardcore sperimentale presente su Left Fire, ma soprattutto lascia in sospeso molti interrogativi su come gli Arcane Roots avrebbero potuto evolversi artisticamente dopo un album che rimetteva in gioco molte idee stimolanti da sviluppare per il futuro.




lunedì 10 settembre 2018

Emma Ruth Rundle - On Dark Horses (2018)


Ho iniziato ad ascoltare Emma Ruth Rundle semplicemente perché sono venuto a conoscenza che è una tra gli ospiti del nuovo album dei Thrice, Palms, che tra l'altro uscirà venerdì 14, lo stesso giorno di On Dark Horses, quarto album come solista della Rundle già impegnata in passato nelle band Marriages e Nocturnes. Tra le prime cose da sapere a proposito della cantautrice californiana è che in genere è solita riversare nelle sue canzoni una buona dose di mestizia e malinconia derivata da storie autobiografiche poi affinata nel tempo empaticamente di pari passo con la musica, partendo da radici blues/folk e proiettandosi in una zona sonora onirica e trascendentale.

In questo nuovo On Dark Horse la Rundle si basa sempre su temi personali e traumi fin troppo intimi da sviscerare, dove l'atmosfera, a tratti doom e post rock, ne rispecchia il disagio esistenziale, anche se molto meno accentuato rispetto al mortifero ma ugualmente affascinante Marked for Death. Proprio grazie al carattere cupo e desolante delle sue composizioni, Emma è stata accolta e assorbita in modo quasi naturale dalla comunità metal, partecipando in passato a festival e tour accanto a nomi estremi come Oathbreaker, Deafheaven, Alcest e Chelsea Wolfe.

Comunque sia, anche se la Rundle può essere associata periodicamente a tali nomi, il riferimento non è assolutamente indicativo di quanto da lei prodotto a livello sonico. On Dark Horses trasmette un profondo impatto emotivo ricorrendo agli estetismi del blackgaze, tramite bordoni elettrici di chitarre sporche e polverose, mitigati però da ingenti dosi di psichedelia mutuata da un dreampop dall'aspetto gotico. Il livello dei riverberi e delle vibrazioni in lontananza è così alto che persino l'armonia pare un fascio volatile e impalpabile, quasi confuso, sommerso in un magma elettrico e cadenzato da ritmiche tribali. Nelle prime tre tracce (Fever Dream, Control e Darkhorse) Emma dà sfogo a ognuna di queste sensazioni nel migliore dei modi: un flusso musicale lisergico nel quale si riversa tutta la melodrammaticità di cui lei è capace.

Il resto dell'album viene affrontato da prospettive simili ma con stilemi doom blues più marcati e riletti nel modo apocalittico psichedelico che le si addice, regalando un altro trittico da viaggio desertico (Dead Set Eyes, Light Song e Apathy on the Indian Border). Con On Dark Horses Emma Ruth Rundle si conferma un'artista in costante crescita.


venerdì 7 settembre 2018

Skyharbor - Sunshine Dust (2018)


Quando hai alle spalle un album gigantesco come Guiding Lights che è praticamente un monumento verso l'evoluzione atmosferica del djent, le aspettative per nuovo materiale che possa conservare la medesima forza espressiva e che abbia le capacità di spiegare al meglio cosa significhi quella brutta parola, sono tanto alte quanto facili da deludere. Questa pressione la devono aver vissuta in prima persona anche gli Skyharbor, dato che la lavorazione di Sunshine Dust, terzo lavoro in studio del gruppo, è stata alquanto lunga e travagliata.

Il primo duro colpo, a dire il vero, non è dipeso dalla volontà degli Skyharbor, ma lo hanno dovuto subire, cioè il pesante abbandono congiunto del batterista Anup Sastry (sostituito da Aditya Ashok) e soprattutto del frontman Daniel Tompkins, che se ne è tornato in pianta stabile con i TesseracT. Al suo posto è arrivato il carneade debuttante Eric Emery con un registro vocale simile ma più ruvido, tecnicamente meno misurato e più sguaiato e logicamente dotato di minor carisma, ma tant'è, il vero cuore musicale degli Skyharbor è rimasto saldamente nelle mani del chitarrista Keshav Dhar, il che dovrebbe garantire continuità di intenti.

In questi quattro anni di gap temporale, per amore di cronaca, è successo però ben altro: tra il 2015 e il 2016 gli Skyharbor pubblicano i primi tre singoli con la nuova formazione Blind Side, Chemical Hands e Out of Time, annunciando in seguito l'uscita di Sunshine Dust entro il 2017. Ma dopo un preoccupante silenzio e nessun aggiornamento ufficiale, alla fine di quell'anno la band fa sapere che sarebbe volata in Australia per registrare l'album daccapo sotto la guida del rinomato produttore Forrester Savell (Dead Letter Circus, Karnivool, The Butterfly Effect). Evidentemente l'insoddisfazione della prima stesura aveva preso il sopravvento.



Quindi mettiamola così: nell'ipotesi prevedibile che sarebbe servito uno sforzo sovrumano per superare e competere con Guiding Lights, Sunshine Dust nella sua versione definitiva è proprio l'album di media intensità che ci si poteva aspettare dopo quella perla di rara bellezza. Chiariamo poi che la responsabilità di tutto ciò non è da attribuire dalla prova di Emery (anche se Ethos con Tompkins sarebbe stata un'altra cosa), ma piuttosto è da imputare a composizioni buone, talvolta ottime, però non sempre eccellenti o indimenticabili. E la pecca maggiore di Sunshine Dust va forse proprio rintracciata nel patire il confronto con il suo predecessore e il fatto di non smuoversi in nessuna direzione di crescita. Preso singolarmente altrimenti il lavoro offre spunti interessanti come i tre singoli prima citati e potenziati, uno addirittura rimodellato (Synthetic Hands ex Chemical Hands nella quale sopravvive il riconoscibile chorus).

Per il resto il rimodellamento generale in corso d'opera che ha subito Sunshine Dust non è sembrato distanziarsi molto da quelle coordinate, neanche alla luce della comparsa dei primi antipasti che hanno anticipato il lavoro rappresentati da Dim e dalla title-track. Dissent invece aveva fatto preoccupare per quella sua piattezza nu metal che fortunatamente è rimasta solo un episodio isolato. Ma i problemi dell'album sono altri: quelli che dovrebbero servire da pezzi cardine con i loro potenti melodismi djent, come Ugly Heart, Ethos e Menace, scivolano via come esercizi di stile studiati a tavolino; pezzi più lunghi come Disengage/Evacuate e la strumentale The Reckoning fanno invece fatica a trovare un punto focale che serva da valvola di sfogo ad un cambiamento che non arriva mai. Sunshine Dust vive di questi saliscendi che lo indeboliscono nella lunga distanza e lo rendono inevitabilmente un'opera di transizione, buona nel complesso, ma con poca identità.


lunedì 3 settembre 2018

Altprogcore September discoveries


I fratelli Jasun e Troy Tipton, conosciuti soprattutto per essere stati i principali responsabili del progetto progressive metal Zero Hour (ed in seguito nei Cynthesis e Abnormal Thought Patterns), tornano con la nuova band A Dying Planet, dei quali Facing The Incurable è l'album di esordio.



Con il singolo Nottambuli la band Cazale (sì, il riferimento è proprio all'attore John Cazale) anticipa il suo primo EP autoprodotto dal titolo This is This che sarà pubblicato sulle principali piattaforme digitali a partire dal 21 Settembre. L’Ep è stato scritto e prodotto da Paolo Gradari (sax alto, tenore e baritono, clarinetto basso), ex Amycanbe e Caffè Sport Orchestra, e suonato con Luca Mengozzi (batteria), Marco Ditillo (chitarre) e Fabio Ricci (basso). Con i fiati di Gradari costantemente in primo piano i sette brani strumentali di This is This si colorano di tinte noir e crepuscolari tra swing, jazz ed un pizzico di prog, ricordando le soundtrack di vecchi polizieschi.



Nonostante sia un forte sostenitore degli Aviations ancora non sapevo del progetto collaterale Blumen portato avanti da Richard Blumenthal e James Knoerl che sono rispettivamente il tastierista e il batterista di quella band. L'interessante EP Mångata si concentra proprio sulle possibilità congiunte di piano acustico e batteria in un connubio di classica, jazz fusion e math rock molto suggestivo e competente.



Attivi a partire dalla fine degli anni '90 gli spagnoli El Tubo Elastico sono rimasti fino al 2006 una band esclusivamente live. Dopo un periodo di sosta nel 2012 la band si è unita di nuovo nel 2015, dando alle stampe il proprio omonimo esordio. Impala è il secondo sforzo del quartetto iberico e si presenta come un validissimo post/progressive rock strumentale dalle dinamiche equamente acide, psichedeliche e spaziali.


Stern è il progetto musicale di Chuck Stern, ex frontman dei mitici Time of Orchids. Ad aiutarlo in questo Missive: Sister Ships compare come ospite Toby Driver alla chitarra insieme a Keith Abrams (batteria) e Tim Byrnes (synth), altri suoi due collaboratori nei Kayo Dot. Detto questo, la direzione singolare, sperimentale e idisincratica dell'opera è facilmente intuibile.