mercoledì 29 giugno 2016

Tre nuovi singoli per i FOES


Dopo aver realizzato gli EP Ophir e Antecedence, gli inglesi FOES si preparano a realizzare il loro primo vero e proprio album. Da quando, infatti, il quartetto di Liverpool è entrato a far parte dell'etichetta Basick Records, all'inizio del 2016, ha realizzato tre singoli (The Everest, Heike, Beautiful Fiction) che con tutta probabilità faranno parte del menzionato esordio che dovrebbe vedere la luce entro fine anno. Fin dai loro inizi i FOES si sono presentati con uno stile molto meno aggressivo del tech metal o djent che è caratteristica portante degli artisti dell'etichetta inglese e, successivamente al primo EP, hanno avviato un processo di semplificazione o, se vogliamo, meno sperimentale e più diretto che comunque non nega influenze post rock e metal psichedelico. Diciamo che quello che colpiva di Ophir era una certa influenza da parte degli Oceansize che, al presente, i FOES stanno cercando di abbandonare in favore di aspetti più immediati.

venerdì 24 giugno 2016

Quiet Child - Listen, Love, The Thunder Calls (2016)


Come è di sua consuetudine Peter Spiker, aka Quiet Child, torna a meno di un anno di distanza dall'ultimo album con una nuova collezione di pezzi che rappresentano la calma dopo la tempesta. Come è intuibile dalla desolata e pacifica copertina, Listen, Love, The Thunder Calls rappresenta infatti quasi il contro-bilanciamento di The Ever Present Shadow, inserendosi in territori molto più rilassati. Abituato a fare tutto da solo in studio, Spiker mette questa volta veramente a frutto il minimalismo strumentale, riducendosi a  piano, chitarra e qualche percussione programmata. Ottenendo così un lavoro nuovamente diverso che va dall'electro folk di Forty Years, a quello più aderente ai dettami di Simon and Garfunkel di Late Entry, all'elettronica scarna di matrice Radiohead di Morning Fog e Stare Off, fino alla calma quasi ambient di Auditorium e Guard the Window. Se non lo si fosse capito, credo che Spiker ci voglia far intendere quanto lui possa essere poliedrico e passare dal progressive rock più feroce, al cantautorato più meditativo e cool.

giovedì 16 giugno 2016

Hail the Sun - Culture Scars (2016)


A due anni di distanza dal loro terzo album Wake, gli Hail the Sun, sempre guidati dal batterista/cantante Donovan Melero, pubblicano Culture Scars che segna il sodalizio del gruppo con la Equal Vision Records. Lo stile degli Hail the Sun continua sulla linea del post hardcore che si unisce al math rock con frequenti cambi tematici che possono variare dall'aggressivo al melodico in un connubio nel quale si ritrova lo sviluppo che, nell'ultimo decennio, è stato elaborato ed evoluto da gruppi seminali come Coheed and Cambria, Circa Survive e The Mars Volta. Gli Hail the Sun si possono incasellare allora in questo filone più complesso del post hardcore sorto in seguito e che in tali ambiti ha assunto l'aggettivo di progressivo, includendo una interessante schiera di esploratori delle sue possibilità come HRVRD, Icarus the Owl, Idlehands, Dance Gavin Dance, Eidola e molti altri.

Su Culture Scars gli Hail the Sun sembrano volersi aprire al loro lato più melodico, facendosi strada con riff memori delle involuzioni mathcore, ma preservando l'accessibilità del pop punk come accade sui primi brani Paranoia, Entertainment Lies e Body Damage. Poi, il disco si avventura mano a mano in territori che prendono strade nettamente rivolte ai due aspetti separati appena descritti, o alla parte più progressive, aumentando la complessità su The “Fun” in Dysfunction e soprattutto nelle ultime due tracce Ministry of Truth e Doing the Same Thing and Expecting Different Results, o privilegiando maggiormente lati armonici su Words of Gratitude (Parents), Burn Nice and Slow (The Formative Years) e Never Kill a Mouse Let it Kill Itself. Comunque, se siete curiosi, potete ascoltare in anteprima tutto l'album (in uscita domani) nello streaming caricato su YouTube.


mercoledì 15 giugno 2016

Roller Trio - Promise/Threat (2016)


Il gruppo jazz Roller Trio, di cui vi avevo parlato qualche mese fa, ha appena realizzato un progetto singolare legato a ciò che si potrebbe definire un mediometraggio. In pratica Promise/Threat è il frutto di una serie di improvvisazioni che fanno da colonna sonora al film omonimo diretto dall'artista Ray Kane e presentato con queste parole:

Promise/Threat is rooted in the belief that everything in life can be one or the other, dependent on perspective: a job for life, till death us do part, you can’t take it with you. A series of events and abstractions, experienced, overlooked and passed into memory. This is a journey from birth to death and light to dark, devoid of special effects, in a bizarre found reality. 

Northern Irish writer/director/artist Ray Kane explores the hidden and disregarded - the dark corner in a bright room - with a fascination for the imperfections of life. Shot largely in Dublin, a huge dilapidated art studio became both backdrop and canvas. Filming on a daily basis for six weeks, countless hours of footage were captured and discarded. Scenes with Sarah Jane Seymour, an emerging talent in Irish television, were largely improvised and shot at night. Passing through an industrial wasteland as an ethereal presence, she is mother/daughter/lover/dream and nightmare. Towering figurative paintings by Irish artist Daragh Hughes provide a tangible timeline of ageing, while the endlessly inventive sculptures of fellow Irish artist John Coll augment the reality with a series of lurid and beautiful visions. 

A deeply moving soundtrack by Roller Trio and producer Tim Thomas was edited out of four improvisations performed whilst watching the film. The film took saxophonist James Mainwaring, guitarist Luke Wynter and drummer Luke Reddin-Williams to musical areas they had never found themselves in before - following the imagery to the most joyous, fun, terrifying and exciting edges of their playing while keeping the signature riffs and textures within Roller’s collective musical vocabulary.

La versione su YouTube è suddivisa nelle 12 parti o tracce che costituiscono l'album, mentre la versione presente su Vimeo è quella integrale senza tagli della durata di 50 minuti. Inutile dire che qui troverete un Roller Trio differente da Fracture e molto, molto più sperimentale e inevitabilmente dedito al free jazz.




PROMISE/THREAT from Lamplight Social on Vimeo.

lunedì 13 giugno 2016

SAY SO! - Un'intervista con i Bent Knee (Italian + English version)


Quante band conoscete che tendono a ripetersi album dopo album, o che comunque mantengano quel retrogusto di già sentito? Credo molte. Sapete invece nominare almeno una band che non solo sia imprevedibile in ogni sua pubblicazione, ma abbia anche un sound del tutto originale? Io ne ho una in mente e risponde al nome di Bent Knee. Loro sono un sestetto di Boston e chi segue queste pagine è ormai confidente con la produzione della band che ha da pochissimo pubblicato il suo terzo album Say So (alla cui recensione rimando per i dettagli) su etichetta Cuneiform Records, riscuotendo unanimi consensi da parte della stampa e dai fan che ogni giorno diventano più numerosi e che il gruppo si prepara ad incrementare questa estate grazie alla sua prima visita in Europa, con un piccolo tour che il 30 luglio toccherà anche l'Italia per un'unica data a Milano presso La Casa di Alex.

Lo scorso anno avevamo già avuto l'occasione di intervistare i Bent Knee dopo aver parlato di Shiny Eyed Babies, ma questa volta, devo aggiungere, è stata speciale, dimostrando quanto questi ragazzi siano spontanei, gentili e disponibili. Per dire, altprogcore è un piccolo blog che non può certo competere con siti musicali ben più blasonati, eppure, incuranti di questo, i Bent Knee sono stati così carini da proporre sia un'intervista via email (realizzata prima che la data italiana fosse definita) sia un altro incontro "dal vivo" su Skype per fare una chiacchierata. Nella conversazione con Jessica Kion (basso), Ben Levin (chitarra) e Chris Baum (violino) traspare la loro eccitazione nel suonare per la prima volta in Europa, non sapendo essattamente cosa aspettarsi dal punto di vista di pubblico e partecipazione, anche se in Germania (faranno tappa al Burg Herzberg Festival il 28 luglio) sono già abbastanza conosciuti. Alle altre domande presenti nell'intervista che segue hanno risposto anche gli altri membri del gruppo, Courtney Swain (voce e tastiere), Gavin Wallace-Ailsworth (batteria) e Vince Welch (produzione e sound design).

La conversazione con Chirs, Ben e Jessica avviene mentre i Bent Knee stanno portando avanti il tour statunitense e la sera stessa suoneranno a New York insieme agli Iris Lune. Così, mentre Ben mi racconta che gli è capitato di esibirsi in ogni tipo di posto e situazione "anche in palchi di queste dimensioni", mostrandomi una scatola di fiammiferi, il dicorso prosegue su come è la vita in tour e i lunghi spostamenti nel van, del nuovo video che stanno preparando per Good Girl (nel quale vedremo danzare la madre della cantante Courtney Swain) e le loro speranze di avere un po' di tempo libero per visitare i luoghi in cui si esibiranno in Europa. In seguito passiamo anche a qualche suggerimento di ascolto, rimanendo in tema di artisti europei Ben Levin mi consiglia il pianista svizzero di jazz minimale Nik Bärtsch e, da parte mia, colgo l'occasione di nominare i nostri Deus Ex Machina che militano proprio tra le fila della Cuneiform Records. Infine parliamo anche di come solitamente compongono e portano alla luce i loro pezzi: "In genere sono delle idee che ognuno di noi propone singolarmente e poi ci lavoriamo tutti insieme." - mi dicono - "In questo momento stiamo rifinendo i nuovi pezzi che andranno a finire nel prossimo album dei Bent Knee e speriamo di tornare in Europa con un tour più esteso la prossima primavera, anche se il nostro quarto album, con tutta probabilità, non sarà pronto fino all'autunno del 2017." Comunque, noi nel frattempo siamo impazienti di vederli in azione dal vivo.



Nella nostra ultima intervista ci anticipaste che Say So avrebbe avuto un'impostazione diversa rispetto a Shiny Eyed Babies e così è stato. Questa direzione è stata una scelta consapevole da parte vostra o vi siete lasciati trasportare dall’ispirazione?
Jessica Kion: "Sapevamo che Say So sarebbe stato differente da Shiny Eyed Babies perché siamo tutti in un posto differente mentalmente e fisicamente (a parte uno di noi, vivevamo tutti insieme durante la stesura di Shiny Eyed Babies ). Shiny Eyed Babies è stata la nostra prima raccolta di canzoni scritta da tutti e sei. Al momento di passare a Say So, sapevamo un po' di più su cosa aspettarci dalle nostre dinamiche di scrittura in piccoli gruppi o tutti assieme. Prevedo che il nostro prossimo album sarà, di nuovo, molto differente da tutto ciò che abbiamo realizzato in precedenza.


Quali sono, a grandi linee, i temi che avete affrontato nei testi di Say So? Avete proseguito la vena dark di Shiny Eyed Babies?
Jessica Kion: “I temi di Say So hanno molto a che fare con le relazioni non equilibrate. Per esempio, Leak Water riguarda un rapporto madre/figlia e il tipo di scenario in cui il bambino vorrebbe chiedere "perché devo fare questo?", con il genitore che gli risponde "perché lo dico io". In alternativa, Black Tar Water parla di venire fuori dalla depressione e rigenerarsi. La canzone è molto più galvanizzante e vuole usare il titolo Say So come per dire "parlane apertamente". Ci sono un sacco di momenti di oscurità in Say So, in particolare su tracce come Eve o Good Girl, però penso che parlare di toni dark come nostro modus operandi non sia il caso di Say So.


Good Girl e Leak Water sono nel vostro repertorio già dai tempi di Shiny Eyed Babies, la genesi di Say So parte da lontano quindi?
Ben Levin: “Abbiamo finito di scrivere e registrare Shiny Eyed Babies molti mesi prima di quando lo abbiamo realizzato veramente, quindi avevamo già iniziato a scrivere Say So quando Shiny Eyed Babies è uscito. E' snervante rimanere per lungo tempo senza lavorare su nuovo materiale (al momento stiamo persino lavorando al nostro quarto album).”



Con questo album avete inaugurato il sodalizio con la Cuneiform Records, storica etichetta di jazz, Rock In Opposition e scuola di Canterbury. Potete raccontarci come è nato il vostro incontro?
Courtney Swain: “La scorsa estate abbiamo avuto il nostro primo contatto con Steve Feigenbaum, il boss della Cuneiform. Ordinò alcune copie di Shiny Eyed Babies e del primo album, e abbiamo avuto un piacevole scambio di messaggi. Eravamo in tour a Seattle all'epoca ed ero così eccitata di sapere che loro ci conoscevano, dato che sembravano proprio la giusta etichetta per noi in termini di reputazione e grandezza per il nostro passo successivo. Poi siamo arrivati all'autunno quando il nostro meraviglioso amico Anil Prasad di Innerviews.org, ha scoperto la nostra musica. Non avevamo idea della grande opportunità che poteva darci ed eravamo un po' divertiti dal fatto che lui fosse così eccitato dalla nostra musica. Fino a che abbiamo iniziato a renderci conto di nuovi fan da ogni parte del mondo, le cui orecchie erano state attirate su di noi da Anil. E' venuto fuori che Anil (come Steve Feigenbaum) è un catalizzatore di trend molto rispettato nell'ambiente della musica alternativa. Dopo averci conosciuto è andato in modalità super-saiyan e ha praticamente reso a conoscenza tutta la scena musicale presente nella sua agenda riguardo i Bent Knee. Tra coloro che sono stati avvertiti c'erano anche alcune label e Steve è stato uno dei primi a rispondere dicendo "sì, li conosco. Sarei interessato a parlare con loro." Dopo di ciò, con l'aiuto di Anil, ho abbozzato una email molto sincera e imponente nella quale spiegavo chi siamo, cosa facciamo e perché lui avrebbe potuto essere interessato nel farci firmare un contratto. Dopo qualche discussione, Steve ci ha proposto un accordo. Prima di firmare ci siamo incontrati a Baltimora e lui è venuto ad un nostro show per vederci dal vivo. Alla fine abbiamo firmato ufficialmente, ed eccoci qui!"


Pensate che il vostro coinvolgimento con la Cuneiform continuerà con altri album e magari condividendo qualche tour con altri artisti dell’etichetta?
Ben Levin: “La Cuneiform è stata grande e molto trasparente con noi. Si sentono come compagni di squadra piuttosto che come una forza intimidatoria con la quale dobbiamo fare i conti. Siamo stati così concentrati nella realizzazione di Say So che non abbiamo fatto alcun piano per il nostro prossimo album al di fuori della musica stessa. Tra gli artisti Cuneiform io sono particolarmente affezionato a Mats / Morgan. Sono musicisti incredibili con un suono unico, intenso e divertente."


Ho notato che avete spesso suonato e visitato il Giappone e in questo album brani come The Things You See e Nakami sembrano un omaggio musicale a quel Paese. C’è un legame particolare?
Courtney Swain: "Mia madre è giapponese e io sono nata e cresciuta in Giappone fino all'età di 18 anni, quando mi sono trasferita negli Stati Uniti. Il Paese e la sua cultura sono una grande parte di ciò che sono e di come vedo il mondo, così è stato un sogno che si è realizzato quando Ben, Chris e io abbiamo organizzato un tour in Giappone come trio acustico. Il tour si è tenuto nel dicembre 2013 e abbiamo suonato una serie di show a Tokyo e nel sud del Giappone. Da allora sono ritornata in Giappone con Vince e spero di avere l'opportunità in futuro di portare con me anche Jessica e Gavin. Nakami contiene qualche gioco di parole in giapponese. Sono un po' ossessionata da omofoni e sinonimi, specialmente se appartengono ad una lingua differente. The Things You Love ha anche un sound pentatonico del sudest asiatico ma questa è più un'influenza del gamelan di Bali."


Pur essendo degli ottimi musicisti mi sembra che poniate più attenzione all’aspetto compositivo e di arrangiamento, piuttosto che mostrare quello del virtuosismo strumentale.
Chris Baum: “Noi prima di tutto siamo compositori e scriviamo ogni canzone adattandola ad un carattere. Ci interessa molto poco la musica concepita semplicemente per mostrare le prodezze tecniche. Per noi la capacità di eseguire passaggi più difficili apre semplicemente le porte a nuovi dispositivi compositivi e strutturali."


Nel suo aspetto più singolare e sperimentale, Say So mi pare quasi un proseguimento e approfondimento del vostro primo album, anch’esso molto differente da Shiny Eyed Babies. Siete d’accordo?
Vince Welch: "Personalmente percepisco Say So più vicino al nostro secondo album piuttosto che al primo. Molte delle stesse idee/sentimenti che hanno portato alla creazione del primo album stanno ancora fluttuando dentro a noi, quindi forse hai sentito queste uscire, anche se in modo più maturo e raffinato."


Ognuno dei vostri album ha un carattere individuale e un vasto contenuto di varietà: vi siete cimentati in ogni sorta di variazione, sia una maggiore aderenza alla classica forma canzone sia a strutture musicali più complesse. Pensate che la musica possa offrire sfide sempre più stimolanti? 
Gavin Wallace-Ailsworth: “Io certamente spero che i Bent Knee trovino nuove e interessanti sfide musicali con le quali ci possiamo confrontare. Metà del divertimento di creare musica è cercare di spingersi oltre la propria "comfort zone". Penso che sia qualcosa che abbiamo avuto la fortuna di fare e spero che continueremo."


Questa estate sarete in tour per la prima volta anche in Europa con due date già confermate in Germania e Repubblica Ceca. Siete eccitati? Sapete dirci se ci saranno altre date?
Chris Baum: “Siamo eccitati di attraversare l'oceano per la prima volta! L'Europa è stata molto gentile con noi e speriamo di metterci in contatto con nuovi amici. Una o due date aggiuntive sono in preparazione per questa estate, restate sintonizzati!"


Avete qualche messaggio particolare per il pubblico europeo? 
Gavin Wallace-Ailsworth: “Siamo tutti eccitati di suonare in Germania e Repubblica Ceca e speriamo di tornare in qualsiasi altra parte d'Europa il prima possibile! Ci vediamo presto."



ENGLISH VERSION



In our last interview, you anticipated that Say So would be different from Shiny Eyed Babies and so it is. This direction was a conscious choice on your part, or did you let yourself be carried by inspiration? 
Jessica Kion: “We knew Say So would be different from Shiny Eyed Babies because we all are in a different place mentally and physically (all but one of us lived together during the writing of Shiny Eyed Babies). Shiny Eyed Babies was our first collection of songs written by all six of us. By the time we got to Say So, we knew a bit more about what to expect from our writing dynamics in small groups and as a whole. I predict our next album will, again, be quite different from anything we've done previously.”


What are the lyrical themes that you faced on Say So? Have you kept on the dark mood of Shiny Eyed Babies?
Jessica Kion: “The lyrical themes in Say So have a lot to do with relationships unbalanced in power. For instance, Leak Water is about a mother/daughter relationship and the sort of scenarios in which a child would ask "why do I have to do this?”, with the parent's answer being "because I say so". Alternatively, Black Tar Water is about escaping depression and washing one’s self clean. The song is much more em-powering and is using the title Say So to mean, "speak up”. There are plenty of moments of darkness in Say So, especially in tracks like Eve or Good Girl, but I think darkness as our modus operandi is not the case with Say So.


Good Girl and Leak Water were already on your repertoire since Shiny Eyed Babies was released, so the genesis of Say So began long ago...
Ben Levin: “We finished writing and recording Shiny Eyed Babies many months before we actually released it, so we had already started writing Say So when Shiny Eyed Babies came out. It’s unnerving to go a long time without working on any new material (we’re even working on our fourth album now).”



With this album you’ve begun the partnership with Cuneiform Records, maybe the most important US label for avant-garde music and modern jazz. Can you tell us how this association was born? 
Courtney Swain: “Last summer, we had our 'initial' contact with Steve Feigenbaum, the bossman over at Cuneiform. He ordered a few copies of Shiny Eyed Babies and our debut, and we had some pleasant ex-changes. We were on tour in Seattle at the time and I was so excited that they knew about us, since they seemed like the right label in terms of reputation and size for our next step. Fast forward to the fall when our wonderful friend and the man behind Innerviews.org, Anil Prasad, discovered our music. We had no idea what a big deal he was, and were mildly amused that he was so excited about our music. That was until we started hearing from new fans from all corners of the world, whose ears were all turned to us by Anil. Turns out that Anil (similar to Steve Feigenbaum) is a tremendously respected trend-setter and taste-picker in alternative music. He went super-saiyan after he found us, and took it upon himself to alert most if not every musical being in his phone book about Bent Knee. Some of the folks he alerted included a few labels, and Steve was one of the first to respond and say "yes, I know them. I'd be interested in talking to them." After that, with Anil's help, I drafted a very candid and awesome email about who we are, what we've done, and why he should be interested in signing us. After some discussion, he extended us a deal. Before we signed, we got to meet him in Baltimore, and he came to one of our shows to see us live. Eventually we signed officially, and here we are!”


Do you think your involvement with Cuneiform will continue with other albums? Will there be opportunities to share the stage with other label mates and do you like someone in particular on Cuneiform’s roster?
Ben Levin: “Cuneiform has been great and very transparent with us. They feel like teammates rather than some intimidating force that we have to reckon with. We have been so focused on releasing Say So that we haven’t made any plans for our next album outside of the music itself. I am particularly fond of Cuneiform artists Mats/Morgan. They are incredible musicians with a unique, fun, and intense sound.”


I noticed that you have visited and played on Japan and, on this record, songs like The Things You See and Nakami seem to pay a musical homage to that country. Is there a special bond with Japan?
Courtney Swain: “My mother is Japanese, and I was born and raised in Japan until I moved to the US when I was 18. The country and the culture are a big part of who I am and how I view the world, so it was a real dream come true when Ben, Chris and I put together an acoustic trio tour in Japan. The tour was in December 2013, and we played a string of shows in Tokyo and in Southern Japan. Since then I've also travelled to Japan with Vince, and I'm looking forward to the opportunity to have Jessica and Gavin experience Japan, too. Nakami has some Japanese word-play in it. I'm kind of obsessed with homophones and synonyms, especially when they are in different languages. The Things You Love also has a pentatonic, Southeast Asian sound, but this was from a Balinese gamelan influence.”


Despite the fact of being good musicians, it seems that you put more attention on the arrangements and architectural aspects of the songs rather than show instrumental virtuosity. Is that right?
Chris Baum: “We’re composers above all else, and write to fit the character of each song. Music conceived simply to show off technical prowess is of little interest to the band. For us, the ability to execute more difficult passages just opens up doors to new textures and compositional devices.


In its unique and experimental aspect, Say So seems almost a continuation and deepening of your first record, which is also very different from Shiny Eyed Babies. Do you agree? 
Vince Welch: “Personally, I feel Say So is closer to the second album than the first. Many of the same ide-as/feelings that led to the creation of the first album are still floating around inside us, so perhaps you're hearing those coming out, albeit in a more mature, refined way.”


Each of your albums has an individual character and a wide variety of content. You have ventured into all sorts of variation: the classic song form approach as well as more complex musical structures. Do you think that music will offer to you more and more stimulating challenges? 
Gavin Wallace-Ailsworth: “I certainly hope that we continue to find new and interesting challenges to deal with musically. Half the fun of musical creation is trying to better one's self through stepping out of one's comfort zone. I think that’s something that we've had some luck doing, and I hope we continue to.”


This summer, Bent Knee will tour Europe for the first time with two dates already scheduled in Germany and Czech Republic. Are you excited? Do you know if there’ll be other dates? 
Chris Baum: “We’re thrilled to be crossing the pond for the first time! Europe has been very kind to us, and we look forward to connecting with new friends. An additional date or two is in the works for this summer — stay tuned.


Any special message for the European audience? 
Gavin Wallace-Ailsworth: “We are excited to play in Germany and the Czech Republic, and hope to venture elsewhere in Europe as soon as we can! See you all soon.”



Useful links -
Bent Knee and related projects:

sabato 11 giugno 2016

Ghost Medicine - Discontinuance (2016)


Per presentare il suo progetto Ghost Medicine, il chitarrista Jared Leach spende i nomi di Ralph Vaughan Williams, Sigur Ros, Nick Drake e Meshuggah per dare un'idea dell'ampio raggio stilistico che potremo trovare nel primo album Discontinuance in uscita il 24 giugno. Ma giudicare da tre delle sette tracce realizzate in anteprima si può a ben diritto intuire che Leach ha impostato l'album su un carattere personale, definito dal suo chitarrismo frenetico e a metà strada tra il suond del southern rock e un prog metal moderno con passaggi elettrici veramente efficaci e potenti, ma comunque sempre prediligendo l'impostazione acustica.

Ma non è finita, perché all'interno di Discontinuance, insieme al batterista Scott Prian e alla seconda voce di Sarah Hoefer, troviamo al basso il nome conosciuto di Colin Edwin (Porcupine Tree/Metallic Taste of Blood). Insomma, se il disco mantiene ciò che promettono i tre brani, Discontinuance sarà veramente un debutto notevole.

giovedì 9 giugno 2016

Anderson/Stolt - Invention Of Knowledge (2016)


Invention Of Knowledge non è per me un album facile da recensire e dovrei necessariamente porlo in una prospettiva personale, che equivale metaforicamente ad un nervo scoperto, dato che rappresenta la materializzazione di un incontro tra due mondi del progressive rock che reputo artisticamente agli antipodi. Da una parte troviamo il veterano Jon Anderson, il cantante della mia personale progressive rock band preferita degli anni '70 e cioè gli Yes; dall'altra Roine Stolt, leader dei The Flower Kings, il gruppo che negli anni '90 è stato l'esempio e l'epitome di tutto ciò che il progressive rock non avrebbe dovuto essere. Partendo dalla citazione sonora e dal gusto di essere derivativo fine a se stesso, i The Flower Kings hanno incarnato tutte le caratteristiche dei luoghi comuni che si sono accumulate nel rendere famigerato il genere: l'esagerazione, i barocchismi, le suite infinite. In sintesi, sono stato tanto fan di Anderson quanto, nella stesa misura, non lo sono mai stato di Stolt.

Eppure, proprio perché gli album di Stolt e dei The Flower Kings sono un campionario di progressive rock ricostruito in laboratorio e trionfo dell'artefatto prodotto per fare la felicità dei nostalgici di Yes, Genesis, Emerson, Lake and Palmer, ecc., non ci sarebbe stato nessun'altro più adatto di lui nel realizzare la collaborazione che ha portato a Invention Of Knowledge: in un colpo solo abbiamo la "copia" e l'"originale" che lavorano insieme. Il lancio a sorpresa dell'album, avvenuto qualche mese fa e in uscita il 24 giugno, nasconde una storia nata nel 2014 al Progressive Nation At Sea Cruise, dove, dopo un'esibizione live che vedeva sul palco Anderson e Stolt, il patron della InsideOut Music, Thomas Waber suggerì ai due musicisti una collaborazione che in seguito ha preso il via nel marzo 2015. Per capire il livello della produzione merita soffermarsi a leggere i nomi coinvolti:

- Jon Anderson / voce, tastiere addizionali
- Roine Stolt / chitarre elettriche e acustiche, dobro, chitarra portoghese, lap steel, tastiere, percussioni, backing vocals
Con:
- Tom Brislin (Spiraling) / Yamaha Grand C 7 Piano, Fender Rhodes Piano, organo Hammond B 3 e synth
- Lalle Larsson (Karmakanic, Agents of Mercy) / grand piano e synth
- Jonas Reingold (The Flower Kings, Karmakanic) / basso
- Michael Stolt (Eggs & Dogs) / basso; Taurus pedals
- Felix Lehrmann (The Flower Kings) / batteria
- Daniel Gildenlöw (Pain of Salvation), Nad Sylvan (Unifaun, Agents of Mercy), Anja Obermayer, Maria Rerych, Kristina Westas / backing vocals

Con Anderson c'era quindi partita facile nel lasciare libero sfogo alla "fantasia" in questi ambiti, relegando Stolt nel ruolo di architetto e arrangiatore di lusso dato che, di fatto, il chitarrista svedese ha da sempre plasmato la propria personalità artistica sulle identità sonore altrui. Non importa quindi con quale percentuale i due si siano divisi i compiti di scrittura (andati avanti per un anno e mezzo con molti rimaneggiamenti sul materiale), da qualunque parte lo si guardi, Invention Of Knowledge appartiene alla sensibilità artistica di Jon Anderson e ai suoi mondi immaginifici che egli ha contribuito a ideare con gli Yes. Nelle quattro suite che compongono l'album è come ritrovarsi di colpo dalle parti delle gigantografie sonore di Tales From Topographic Oceans e tra gli spazi fantasy di Olias Of Sunhillow. E, anche mettendo da parte gli scritti del guru indiano Paramahansa Yogananda, Invention Of Knowledge recupera in modo molto efficace quell'anelito mistico-mitologico tanto caro ad Anderson.

Sin dall'inizio con la title-track sembra di essere catapultati nel miglior album degli Yes dai tempi di Magnification. I movimenti Invention e Knowledge, intervallati dalla ballad solenne We Are Truth, azzeccano dei temi molto orecchiabili, privi delle complessità progressive ma piuttosto, come fossero una canzone molto lunga, composti da molteplici filastrocche filosofiche per ascoltatori adulti. Fin dalle prime note il marchio di fabbrica del "Yes style" si impone come un misto tra musica etnica futurista e arazzi new age, dove i vari strumenti, oltre a ricalcare i timbri peculiari di Howe, Squire, White e Wakeman, aggiungono quel tocco tipico dell'Anderson solista nell'utilizzo di strumenti inusuali per il rock tipo arpa, sitar elettrico, chitarra portoghese e percussioni esotiche, al fine di plasmare un ipotetico sound per mondi fantastici e immaginari.

In particolare l'opera si circonda di quell'aura di sacralità da visione spirituale e naturalistica che da sempre permea la sensibilità andersoninana della musica, ma inevitabilmente in modo meno coinvolgente di come avveniva in passato, sopratutto quando i musicisti cercano di mantenere un aspetto del sound più distaccato dal prog dei '70, come nel canto di adorazione Knowing che si collega al gospel pagano Chase and Harmony. Le tre parti di Everybody Heals vibrano tra le divergenti dimensioni della grande opera sinfonica e la moderazione acustica di Wonderous Stories, con intermezzi orchestrali e anche fusion da camera, rappresentando, a livello di concezione e verietà, il brano più riuscito. Con un leggero sapore tra il soul e il sudamericano abbastanza singolare, Know... si ritrasforma, durante il suo sviluppo, in un carteggio sonoro debitore tanto di Topographic Oceans quanto di Relayer e Awaken, ma con armonie molto più leziose.

Tutto sommato, però, Invention of Knowledge è un lavoro che in più punti funziona, possedendo anche aspetti degni di nota, poiché ad ogni modo non cede al ricatto della nostalgia e cerca effettivamente di rileggere il progressive rock classico in una maniera che non sia totalmente devozionale. Il fatto però è un altro, ovvero che quella che sulla carta poteva essere un'operazione dagli aspetti curiosi e stimolanti, arrivata dopo overdosi di Transatlantici, Martelli di Vetro, Barbe di Spock, Re di Fiori, Tangenti, Colori Volanti e Agenti della Misericordia, diviene quasi un'occasione realizzata fuori tempo massimo, con il rischio di perdersi nella moltitudine, invece di rappresentare un evento. Nel senso che, negli ultimi venti anni, si sono accumulati album i quali non hanno fatto altro che incarnare potenziali proseguimenti di gruppi scomparsi molto tempo prima, ricalcati su determinate direttive come fossero dei sequel apocrifi. C'è chi, in tale ambito, ha prodotto cose qualitativamente egregie, chi ne ha prodotte di meno, ma ecco perché Invention of Knowledge perde un po' di spessore messo in tale prospettiva, nonostante la metà del progetto sia a nome di chi quella musica ha contribuito ad inventarla. Quindi, siamo davvero sicuri che tutto quel progressive derivativo, più che essere di aiuto, non rappresenti invece un ingombro per un album come questo?

Tracklist:
I. Invention of Knowledge
1. Invention (9:41)
2. We Are Truth (6:41)
3. Knowledge (6:30)
II. Knowing
4. Knowing (10:31)
5. Chase and Harmony (7:17)
III. Everybody Heals
6. Everybody Heals (7:36)
7. Better by Far (2:03)
8. Golden Light (3:30)
IV. Final
9. Know... (11:13)

mercoledì 8 giugno 2016

Introducing: Polyrhythmic


Forse è più difficile da spiegare che da capire, ma in ambito jazz ci sono sempre stati dei pianisti che hanno colpito trasversalmente anche il pubblico del progressive rock. Ad esempio è successo con un Chick Corea più che con un Keith Jarrett e oggi possiamo riportare degli esempi con l'osannato Tigran Hamasyan e con la giapponese Hiromi Uehara. La premessa è riferita al fatto che non vorrei andare fuori tema, ma in ambito progressivo si presentano sempre più spesso proposte interessanti provenienti dal mondo del jazz e della fusion, e ultimamente gli Snarky Puppy ne sono stati un fulgido esempio.

Vorrei quindi aggiungere alla lista un giovane di belle speranze del quale credo sentiremo parlare a breve. Lui si chiama Greg Spero, pianista di Chicago trasferito a Los Angeles e che ha appena fondato il gruppo Polyrhythmic, quartetto che prevede la presenza di Hadrien Feraud al basso, uno stellare Mike Mitchell alla batteria e Marco Villarreal alla chitarra, pubblicando un album live scaricabile sul loro sito ufficiale www.polyrhythmic.com

Lo stile prevede reiterazioni e dinamiche in costante tensione che poi scaturiscono in pezzi di virtuosismo, poliritmie da capogiro e arrangiamenti per lo più acustici. Spero è stato poi attivo anche come solista pubblicando due album in trio dai titoli esplicativi e programmatici di Electric e Acoustic e potete trovarli scorrendo, saltando i video. 
 








www.gregspero.com




lunedì 6 giugno 2016

DARK SUNS - Everchild (2016)


Ormai, devo ammettere, mi ero completamente dimenticato dei Dark Suns. Il loro ultimo album, Orange, risale al 2011 e nel frattempo la band tedesca è rimasta un po' fuori dai radar anche della stampa del settore. Ecco perché questo nuovo doppio album Everchild arriva come un'inaspettata sorpresa che meriterebbe dello spazio nelle future discussioni tra appassionati di prog. Da perfetti outsider i Dark Suns si ripresentano con l'album che non ti aspetti, un ottimo album direi. Per farsi un'idea sul sound dei Dark Suns, non sarebbe sbagliato fare dei confronti con Steven Wilson, Riverside, Haken e Anathema, senza dimenticarsi che le radici del gruppo risiedono nel progressive metal abbastanza estremo, una cosa ricordata in modo lieve da tracce come Codes e la title-track. Ma, ripartendo dalla vena heavy art prog di Orange, su Everchild la band di Lipsia approfondisce un elemento che in quel contesto emergeva solo in superficie, ovvero l'uso di fiati, con l'ingresso ufficiale in formazione di Evgeny Ring (sassofono) e Govinda Abbott (tromba), comportandosi di conseguenza anche con gli altri strumenti. Per il resto la band è sempre guidata dal batterista/cantante Niko Knappe che questa volta lascia le percussioni anche in studio nelle mani (e nelle gambe) del live drummer Dominique "Gaga" Ehlert.

In pratica, ciò che allontana Everchild da un progressive rock conforme alle norme sono le continue incursioni nel jazz che i Dark Suns, in genere, inseriscono nei momenti di raccordo e non utilizzano lungo la durata complessiva di un brano anche se comunque vi rimangono impresse in modo subliminale. E' in brani come The Only Young Left, Spiders e Monster che possiamo parlare propriamente di jazz più che di fusion (genere che per le sue caratteristiche viene adattato con più semplicità al progressive rock) grazie a un intervento maggiormente incisivo della tromba, uno strumento che raramente ascoltiamo in ambiti rock, visto che molti artisti gli preferiscono il sassofono, ma la sinergia tra i due fiati, nei pochi momenti in cui risaltano insieme, tira fuori dei suoni compatti quasi da big band.

In più di un punto, inoltre, si respirano climi da ambient metal che sembrano collegare mondi lontani come quelli dei Tool, del post rock di David Sylvian e l'oscuro swing alla David Bowie - periodo 1.Outside - con istanti pianistici reminiscenti delle prodezze di Mike Garson (ancora la title-track, Escape of the Sun, Unfinished People, The Fountain Garden). L'unico appunto che si potrebbe fare è che, intrapresa questa via, i Dark Suns si sarebbero potuti spingere oltre ed essere ancora più radicali sul lato jazz, magari accogliendo nei solchi prog delle progressioni avant-garde spregiudicate. Il che non avrebbe sfigurato soprattutto nello spazio che occupa l'ultima mezz'ora - dedicata ai tre lunghi brani Torn Wings, Morning Rain e la cover di Tori Amos Yes, Anastasia (tratta da Under the Pink, 1994) - che, al contrario, si richiude su se stesso nel segno di un progressive rock più di maniera. Se il primo e il secondo brano risultano delle didascaliche lezioni di prog atmosferico condito da sporadici sussulti strumentali, la cover della Amos - in origine un requiem per piano, voce e archi - qui viene elaborata in forma di suite solenne a grande respiro, come se dietro agli arrangiamenti ci fossero i Pain of Salvation, un altro gruppo che non sfigura tra le influenze dell'ottetto tedesco.



www.darksuns.de

domenica 5 giugno 2016

Altprogcore 50 best records: 1970-1979


Con la presente lista si conclude il viaggio di altprogcore tra i decenni in musica. Mi rendo conto che catalogare i migliori 50 album degli anni '70 è un esercizio inutile, in quanto, più che singoli album, andrebbero importate di peso discografie complete per la mole di capolavori sfornati in quel decennio. Quindi, con difficoltà, ho cercato anche di dare spazio ad un po' di varietà per non citare sempre gli stessi artisti. Ricordo che scorrendo nella colonna di destra trovate i link per tutti i "Best of" di altprogcore pubblicati finora in senso cronologico, compresi i decenni del passato. Prossimo appuntamento, salvo imprevisti, nel 2019.


50.U.K. - U.K. (1978)
49.Chris Squire - Fish Out of Water (1975)
48.Traffic - John Barleycorn Must Die (1970)
47.Nick Drake - Bryter Layter (1970)
46.The Nice - Five Bridges (1970)
45.Henry Cow - In Praise of Learning (1975)
44.Pat Metheny Group - Pat Metheny Group (1978)
43.Bruford - One of a Kind (1979)
42.Et Cetera - Et Cetera (1976)
41.Led Zeppelin - III (1970)
40.Matching Mole - Matching Mole (1972)
39. PFM - L'Isola di Niente (1974)
38.Terry Reid - River (1973)
37.Egg - The Polite Force (1971)
36.Steely Dan - Aja (1977)
35.Anthony Phillips - The Geese & the Ghost (1977)
34.Island - Pictures (1977)
33.Queen - II (1974)
32.Caravan - In the Land of Grey and Pink (1971)
31.Hermann Szobel - Szobel (1976)
30.Frank Zappa - Joe's Garage Acts II & III (1979)
29.Kansas - Two for the Show (1978)
28.Todd Rundgren - Initiation (1975)
27.Todd Rundgren - A Wizard, A True Star (1973)
26.Todd Rundgren's Utopia - Todd Rundgren's Utopia (1974)
25.Emerson, Lake & Palmer - Brain Salad Surgery (1973)
24.Pink Floyd - Atom Heart Mother (1970)
23.Pink Floyd - The Dark Side of the Moon (1973)
22.Pink Floyd - Animals (1977)
21.National Health - Of Queues and Cures (1978)
20.Soft Machine - Third (1970)
19.Jethro Tull - Thick As A Brick (1972)
18.King Crimson - Larks' Tongue in Aspic (1973)
17.Emerson, Lake & Palmer - Trilogy (1973)
16.Peter Hammill - The Silent Corner and the Empty Stage (1974)
15.Peter Hammill - Chameleon in the Shadow of the Night (1973)
14.Genesis - Selling England by the Pound (1973)
13.Hatfield and the North - Hatfield and the North (1974)
12.Van der Graaf Generator - Still Life (1976)
11.Yes - Relayer (1974)
10.National Health - National Health (1978)
9.Robert Wyatt - Rock Bottom (1974)
8.Genesis - Foxtrot (1972)
7.John Greaves, Peter Blegvad, Lisa Herman - Kew.Rhone. (1977)
6.Gentle Giant - In a Glass House (1973)
5.Hatfield and the North - The Rotters' Club (1975)
4.Pink Floyd - The Wall (1979)
3.Genesis - The Lamb Lies Down on Broadway (1974)
2.Yes - Close to the Edge (1972)
1. Van der Graaf Generator - Pawn Hearts (1971)

venerdì 3 giugno 2016

Altprogcore history playlist

A giudicare dalla quantità di ottime uscite pubblicate finora e in vista di ciò che arriverà da qui alla fine del 2016, sembra che avessi scelto il momento meno opportuno per decidere di interrompere le comunicazioni di questo blog. Come ho già riportato, infatti, il 2016 si sta rivelando uno dei migliori anni del decennio, se sommiamo una media in grado di riassumere la quantità e la qualità ed è un piacere commentarne l'evoluzione in tempo reale.

Ma veniamo al soggetto di questo post che in qualche modo è legato all'argomento, e non so se ne è una conseguenza ma, stando alle statistiche di Blogspot, maggio è stato il mese con il più alto numero di pagine visitate nella storia di altprogcore. Cosa fare, quindi, se non creare un'apposita playlist ad hoc su Spotify per festeggiare? Ma attenzione, non si tratta di una playlist qualsiasi, infatti questa vuole essere una sorta di antologia riassuntiva di otto anni passati a proporre e scoprire nuova musica, nuovi artisti e nuove band. Quello che troverete sono più di trecento brani e altrettanti artisti, spalmati per ventisei ore di musica e non è escluso che in futuro si possa arricchire di altro materiale. Se avete scoperto questo blog in ritardo, se qualche gruppo nel tempo vi è sfuggito, se siete solo di passaggio, qui potete rifarvi con un "riassunto delle puntate precedenti", sempre contando nei limiti di Spotify che proprio tutti non include. Io ho cercato di fare del mio meglio, ora tocca a voi condividere un po' di buona musica.


mercoledì 1 giugno 2016

Altprogcore June discoveries

 
I Lonely the Brave sono una band inglese di alternative rock arrivata al secondo album con Things Will Matter. Ma che cosa hanno i Lonely the Brave di particolare per non perdersi nella marea di tanti altri gruppi che non suonano prog ed essere segnalati nel presente blog? Il fatto è che, fin dalle prime note di Black Mire e poi avanti con What If You Fall In, mi hanno ricordato gli australiani Cog, somiglianza ancora più accentuata soprattutto dalla presenza della voce del cantante David Jakes. Così ho pensato di includerli in questa rassegna in caso potessero attirare i favori di qualche lettore. A parte questo, comunque, Things Will Matter è un album ampiamente godibile, magari con qualche caduta di tono, ma nel complesso segna dei buoni pezzi sulla scia di un rock potente nello stile dei Failure.



Un'altra band che non è propriamente prog, ma si trova in equilibrio tra indie rock e qualcosa di più sperimentale (come fanno notare loro si potrebbe dire noise pop) sono i Boyfrndz, dei quali avevo ascoltato Breeder, ma senza trane grande entusiasmo. Impulse, che è il terzo lavoro, li presenta in una forma migliore, con canzoni alternative avvolte da distorsioni elettriche lontane parenti dello space rock.  




E ora veniamo a due distinti blocchi monotematici che includono ciascuno tre gruppi.
Il primo è dedicato al djent con gli Atmospheres che provengono dal Belgio e hanno all'attivo già due discreti album di djent/ambient di derivazione TesseracT dei quali The Departure è il secondo, pubblicato lo scorso novembre.



Ancora dal Belgio arrivano i Jusska che tra le loro influenze citano Karnivool, Deftones, Korn, Vola e Tsuki, un EP di tre tracce, è il loro biglietto da visita pubblicato questo gennaio.



Stessa storia per l'EP The Veil//The Crown degli Indighost, nel quale si presentano con un stile che è un incontro tra l'emocore e il prog metal visto dal versante djent.




Il secondo blocco è dedicato al prog strumentale declinato nella math fusion ultravirtuosa dei Lye by Mistake (il loro secondo e ultimo album Fea Jur, che ho scoperto da poco, risale al 2009, ma era obbligata la segnalazione) e nelle spore jazzcore e post rock crimsoniani dei Dumb Waiter e 52 Commercial Road.