domenica 31 gennaio 2016

Armonite - The Sun is New Each Day (2015)


Paolo Fosso e Jacopo Bigi suonano insieme da molti anni e il loro progetto, Armonite, nasce come gruppo addirittura nel 1996 con la pubblicazione dell'album Inuit nel 1999. Entrambi musicisti di estrazione classica, Fosso e Bigi hanno poi preso del tempo per dedicarsi ai propri lavori personali sempre in campo musicale, fino a che ultimamente si sono ritrovati e, ancora una volta sotto il nome di Armonite, hanno dato alle stampe la scorsa estate The Sun is New each Day. L'opera si è avvalsa della presenza del bassista Colin Edwin (Porcupine Tree) e del batterista olandese Jasper Barendregt ed in più ha beneficiato della produzione di Paul Reeve (Muse) che poi ha passato la masterizzazione a Geoff Pesche agli Abbey Road Studios. Un album dal respiro internazionale quindi, con l'aggiunta di non avere problemi nel porsi la questione del cantato in inglese o italiano in quanto del tutto strumentale.

Quasi tutto il materiale è ad opera di Fosso che si occupa anche delle tastiere, mentre Bigi ha il compito di sottolineare le parti melodiche e soliste con il suo violino. Quest'ultimo può rendere il suono molto aggressivo come accade su Suitcase War, dove l'interplay con il sintetizzatore acuisce ancora di più questa caratteristica, o ornare piccoli angoli di note come nella frizzante "G" as Gear. Molto attiva la sezione ritmica, in particolare la bombardante batteria, nel dare la giusta propulsione ai brani.

L'album passa dal naturale retaggio del progressive rock italiano ad energiche mini suite come Connect Four e la mediorentaleggiante Sandstorm, tra elettronica e soundtrack, che per suoni inusuali ed esuberanza creativa si avvicinano ai campioni nostrani Deus Ex Machine e Yugen, ma con un piglio molto più accessibile, fino ad arrivare a toccare l'esoterismo del chiptune nell'avveneristica Insert Coin. Anche quando il duo si accosta ad atmosfere più classichegganti come su Slippery Slope o nella fuga Satellites, lo fa privilegiando l'aspetto fusion, rock e pop come un corrispettivo moderno di ELP e ELO. In definitiva The Sun is New Each Day è un lavoro al quale ogni buon amante del progressive rock dovrebbe dare un ascolto, poiché potrebbe trovarci sicuramente qualcosa di stimolante. 


www.armonite.com

mercoledì 27 gennaio 2016

Altprogcore January discoveries, part 3


Con delle melodie così dolci da far tornare in mente il Canterbury sound, i californiani Feed Me Jack in realtà si divertono a scombinare le carte in tavola con delle evoluzioni strumentali di complessa fusion. Già con l'EP Anatolia si erano fatti notare nell'ambiente math rock, ma con questo nuovo Ultra Ego forse riusciranno a scavalcare i confini designati solo per gli amanti del genere.



I Glossom arrivano da Liverpool e sono un quitetto che aggiunge al classico trio di strumenti chitarra/basso/batteria una sezione di fiati con tromba e sassofono in una fusione che potremo definire math pop jazz. Fino ad ora hanno prodotto due gustosissimi EP dei quali Brother è l'ultimo in ordine di apparizione e, anche se in tutto comprendono solo cinque brani, sono sufficienti per farsi un'idea di come la band elabori dei piccoli esperimenti pop rock eseguendoli come fossero una big band.



Quando questa estate uscì Mean Dreams dei Miracles of Modern Science segnalai il video di Follow Your Heart nella pagina Facebook di altprogcore, ma successivamente mi dimenticai di scrivere qualche cosa su questa band nel blog. Ora colgo l'occasione per ripescare questo album di chamber pop nel vero senso del termine in quanto la band si presenta suonando esclusivamente strumenti come violoncello, mandolino, contrabbasso e violino.




Quello degli The Shills è ciò che si potrebbe ascrivere all'interno dell'indie rock con tendenze all'art rock, per quel suo gusto negli arrangiamenti sofisticati anche se le variazioni non sono così molte. Un pezzo come Oh, This Devilish Place penso colpisca subito positivamente, anche se, nei due volumi di Keep Your Hands Busy, pur essendo gradevoli non si trovano delle tracce altrettanto all'altezza. Comunque un punto di forza è che ogni canzone differisce abbastanza dall'altra, riuscendo a mostrare varie angolazioni e elementi stilistici  dell'alternative rock.



Per finire vi ricordo che è uscito la scorsa settimana un EP acustico dei From Indian Lakes che contiene tre inediti e due versioni acustiche di Ghost e Come in This Light tratte da Absent Sounds.

lunedì 25 gennaio 2016

Gli Happy Body Slow Brain tornano come Rare Futures


Da molto tempo ormai attendevo il secondo album degli Happy Body Slow Brain e lo scorso anno, con la presentazione di una serie di teaser che lo annunciavano, sembrava che l'attesa fosse finalmente finita, poi silenzio. Fino ad ora. Il gruppo guidato da Matt Fazzi si è ricostituito come trio (originariamente un duo poi espanso a quartetto), ha cambiato nome in Rare Futures e presenta oggi il nuovo album This is Your Brain on Love in uscita per il 4 marzo. Molte delle canzoni facevano già parte del repertorio degli HBSB e l'album, tra i molti ospiti tra cui Gavin Castleton e Steve Choi degli RX Bandits, conta anche la partecipazione dell'ormai ex membro Isaac Bolivar.

 

giovedì 21 gennaio 2016

I migliori album che non avete mai ascoltato: The Felix Culpa - Sever Your Roots (2010)


Credo che nessun'altra band post hardcore o emocore abbia avuto il coraggio di mettersi in gioco con arditi sconfinamenti nel progressive rock come i The Felix Culpa fecero con questo album. Sever Your Roots per me rappresenta quanto di più vicino ad una pietra miliare per l'evoluzione del post hardcore e sicuramente l'album più importante del genere degli anni '10. Sono trascorsi sei anni dalla sua realizzazione ufficiale ed è un peccato che ancora non abbia avuto un seguito (e chissà se mai lo avrà) a causa delle varie peripezie che i The Felix Culpa hanno passato.

La gestazione che portò a quest’opera fu lunga e tormentata, ma in cambio di tale sforzo i The Felix Culpa ottennero un grande riconoscimento dalla critica. Reduci da un primo album uscito nel 2004 e un EP nel 2005, il gruppo riuscì a pubblicare il suo secondo sforzo discografico soltanto nel gennaio 2010, rischiando anche di non realizzarlo affatto, poiché durante il completamento di Sever Your Roots gli eventi personali dei membri - tra matrimoni, lutti improvvisi e trasferimenti - portarono la band sull’orlo della dissoluzione. Ma tennero duro e alla fine questo lavoro fu il frutto di quegli anni tribolati.

Nel frattempo i The Felix Culpa avevano accumulato un repertorio di circa trenta brani inediti e, dall'originale trio Marky Hladish (voce e chitarra), Joel Coan (batteria) e Tristan Hammond (basso), era stato introdotto nella band un quarto elemento nella persona di Dustin Currier, che si occupava della seconda chitarra e di alcune parti di tastiera. Sever Your Roots, completamente autoprodotto e distribuito dal gruppo stesso, finì per contenere quattordici tracce. In seguito, quando nel febbraio 2011 la No Sleep Records mise sotto contratto i The Felix Culpa ristampando l’album, fu presa la decisione di allegarvi un CD aggiuntivo intitolato Bury the Axe, compilato da tre brani registrati per l’occasione, ma appartenenti alle stesse sessioni di Sever Your Roots che, forse per ragioni di spazio, erano state lasciate nel cassetto.

I The Felix Culpa con questo monumentale lavoro rimasero fondamentalmente legati al post hardcore, ma lo arricchirono con una mole tale di complessità e varietà tematiche da poter rientrare facilmente nei dettami del progressive rock. Sever Your Roots era e rimane quello che, nella sua integrità artistica, si può definire un capolavoro incompreso. I brani si dipanavano in lunghe trame dominate da dinamiche sfaccettate, troncando ipotetici chorus sul nascere e lasciando che la lenta edificazione portasse fino alla catarsi finale. Piccole cellule tematiche introdotte da un brano potevano essere sviluppate nella traccia successiva (ad esempio nel dittico Escape to the Mountain, Less Thou Be Consumed e The First One to the Scene of an Accident Always Gets Blood on Their Hands), proprio come accadeva in un concept album. Anche grazie a questa omogeneità musicale, Sever Your Roots era un’opera da godere nella sua totalità, dall’inizio alla fine.


The Felix Culpa - "Our Holy Ghosts" from Nick Cavalier on Vimeo.

Che le cose non avrebbero reso l'ascolto facile era messo in chiaro sin dal principio con la calma strisciante di New Home Life, un pacato e lungo cerimoniale d’inaugurazione che tratteneva a stento deflagrazioni improvvise che non apparivano mai. Su Our Holy Ghosts e The Constant la sezione ritmica si mostrava una delle più potenti e incisive in circolazione: i colpi vibrati da Coan, la cui potenza era sottolineata dal fragore distorto del basso di Hammond, erano precisi e pesanti come macigni. L’introduzione dei brani era spesso sussurrata e in stile lo-fi, per poi sfogarsi successivamente in vortici emozionali come accadeva su Mutiny. Il massimo del pathos veniva raggiunto nel trittico It’s Raining at Indian Wells, What You Call Thought Control, I Call Thought Control e An Instrument, posto quasi alla fine come per liberare la tensione accumulata, arrivando alla commovente chiosa di Apologies.

I testi si concedevano ad interpretazioni abbastanza libere e si perdevano in simbolismi metaforici e deliqui religiosi (con riferimenti anche alla Genesi) su colpa e redenzione, spiritualità e pentimento, amore e morte, delineando un unitario e profondo concept sui rapporti personali. Da più parti risuonarono paragoni con altri gruppi come Brand New e Thrice, ma ciò che avevano raggiunto i The Felix Culpa con soli due album andava ben al di là del post hardcore più lineare e ad effetto di queste band. Tra le tante recensioni positive che seguirono l’uscita di Sever Your Roots, la più efficace definizione fu data probabilmente dalla rivista mensile Illinois Entertainer: “Un album che raggiunge facilmente l’obiettivo del gruppo di plasmare una testimonianza più significativa. È anche un album piuttosto impegnativo, complesso e impenetrabile al primo ascolto, anche perché questa fatica di più di un’ora è completamente coesa e connessa, con ogni canzone che viene collegata all’altra per tutta la durata dell’album. È il tipo di album che osa, ma che non si aspetta che tu venga a patti con lui. Eppure ad ogni ascolto successivo, non solo Sever Your Roots prende forma, ma il proprio flusso e riflusso comincia a manifestarsi, svelando un’esperienza emotivamente tumultuosa e catartica”.

L’ottima accoglienza della stampa riservata a Sever Your Roots non fu seguita, purtroppo, da quella del pubblico e non bastò a fermare il destino inevitabile della band. Tutta la frustrazione, che era aleggiata durante la lavorazione dell’album, emergeva chiaramente nel testo di Because This is How We Speak. Il brano metteva in chiaro che ogni istante di vita del gruppo era percepito come se potesse essere l’ultimo e, sia ben chiaro, non era dovuto alla tensione tra i membri, ma all'evolversi troppo impegnativo delle loro vite personali. Il presentimento si realizzò compiutamente solo più tardi: i The Felix Culpa decisero di separarsi, rimanendo ottimi amici e celebrando l’addio con un ultimo concerto al Metro di Chicago il 9 dicembre 2011 (celebrato anche nel documentario To We, The Nearly Departed). Quella data, però, non rappresentò il definitivo epitaffio del gruppo che si ricostituì in modo inaspettato nel 2014, inaugurando il ritorno sulle scene con uno “split EP” condiviso con i Foreign Tongues e uscito nell’agosto di quell’anno. A tutt'oggi i The Felix Culpa rimangono insieme, ma ancora non è dato sapere se pubblicheranno qualcosa di nuovo.

martedì 19 gennaio 2016

Oh Malô - Orange / Red / Blue (2014-2015)


Gli Oh Malô, nonostante un nome che pare avere delle origini esotiche (e che si legge oh-muh-low), sono un quartetto di Boston nato un paio di anni fa, che ha dato alle stampe tre EP di due canzoni ciascuno, le quali a loro volta andranno a compilare la metà del loro album d'esordio. Ad incuriosire, oltre la qualità naturalmente, è la modalità con cui questo materiale è stato realizzato: ogni EP è associato ad un colore (già, proprio alla maniera di The Color Spectrum dei The Dear Hunter) e per ogni canzone è stato prodotto un video che risalta, a livello visivo, l'aspetto cromatico dell'EP a cui è associato. Funziona così anche per la musica che, in una specie di simbiosi sinestetica, cerca di cogliere ed estrarre l'umore che essa dovrebbe trasmettere. Il bello di tale trovata è permettere alla band di presentarsi sotto vari aspetti stilistici, tanto che nella distanza formale che esiste tra lo slowcore di Blue, l'art rock di Red e il quasi pop di Orange, non si direbbe che escano fuori dagli stessi autori.


BLUE

Il primo EP della serie è forse anche quello che affascina di più. Molto lento e rarefatto è aperto da Feed, con ombre di chitarre che vanno e vengono, una ritmica swing rock e quel falsetto sussurrato ai limiti dell'afasia del cantante Brendon Hafetz, penetra dentro come un'umida nebbia autunnale e conquista. Sweet Dreams è ancora più atavica nelle sue spire chitarristiche che formano un paesaggio sonoro calmo e allo stesso tempo vorticoso come un mix tra le band di scuderia 4AD e i Motorpsycho.




RED

Passando a Red, all'inizio di Hey, Mr. Paul sembra di stare ancora dalle parti di Blue e invece siamo trascinati in un mellifluo groove art rock che nel chorus presenta delle bordate elettriche non molto pesanti, ma dai contorni metallici comunque ben definiti. Out on My Own appare come fosse suonato da una sofisticata rock band europea, sostenuto da un'ottima prova vocale di Hafetz che, redendomi conto di scomodare un paragone impegnativo, ricorda sempre più la versatilità di Jeff Buckley.




ORANGE

Con Miss You e Happy Birthday si entra nei reami del pop rock, ma scavalcando la banalità che si nasconde sempre dietro l'angolo quando ci si incammina in questi territori. Tra le sei canzoni, le due di Orange sono quelle designate per trasmettere spensiratezza e felicità, con testi volutamente sentimentali che riflettono il generale senso di disimpegno.





www.ohmalo.com

lunedì 18 gennaio 2016

Steven Wilson - 4 ½ (2016)

 

L'anno appena trascorso ha, nel bene e nel male, sancito il successo di Steven Wilson, eleggendolo il "re del prog moderno" con una consacrazione resa possibile grazie al suo peggior album come solista, che naturalmente è balzato in vetta alle classifiche di fine anno di quasi tutte le webzine di progressive rock in circolazione. Di Hand.Cannot.Erase. si è già detto qui, un album epigonico, povero di idee e privo di mordente, che però sembra aver fatto presa sul grande pubblico, più per quello che rappresenta - e cioè il culmine dell'ascesa di Steven Wilson come fenomeno di massa nel prog rock - che non per effettivi meriti artistici, dimostrato anche da un fanatismo ingiustificato (e francamente incomprensibile) che talvolta può offuscare giudizi imparziali. Come molte altre volte accaduto nella storia del rock, il plebiscito di consensi è in parte meritato frutto di un duro lavoro, in parte marketing. Il nome di Wilson è cresciuto nel tempo, ma il caso ha voluto che esplodesse nella sua fase meno interessante. Così non importa se Grace for Drowning o The Raven risultano artisticamente più rilevanti, Hand.Cannot.Erase. sarà da qui in avanti riconosciuto incondizionatamente come il suo capolavoro.

Bene, detto ciò arriviamo a questo EP di sei tracce (che comunque ha una bella durata di 37 minuti), denominato 4 ½ (poichè il suo compito è di traghettarci verso il quinto album di Wilson) che raccoglie quattro inediti scaturiti dalle sessioni di Hand.Cannot.Erase., uno da quelle di The Raven e, per finire, una solida versione live di Don't Hate Me (tratta da Stupid Dream) con ospite Ninet Tayeb alla voce, registrata durante l'ultimo tour europeo. Tra i musicisti presenti in questi pezzi ritroviamo quelli che hanno accompagnato Wilson ultimamente da Adam Holzman a Nick Beggs, Marco Minnemann e Guthrie Govan, fino a Dave Kilminster, Craig Blundell, Chad Wackerman e Theo Travis.

Quindi iniziamo con una domanda: può un EP di outtakes essere migliore del suo full-length-predecessore? Sì che può e non solo, la prima traccia My Book of Regrets da sola mette all'angolo l'intero Hand.Cannot.Erase. E a questo punto ci si chiede: come possono degli avanzi di studio superare quelle che sono state delle prime scelte? Forse la risposta va ricercata proprio nella loro natura di essere destinati virtualmente ad un album minore, posti in un angolo per filologi completisti, un EP dove ci si può permettere di rischiare e presentare del materiale fuori dai soliti schemi. Parlando di Wilson, però, questo non succederà, poiché ormai la sua figura di rilievo impone che tutto ciò che il "genio" produce deve necessariamente assumere un livello di primo piano. Per tale motivo 4 ½ non sarà diverso e credo andrebbe recensito e giudicato come un nuovo album da aggiungere a Hand., Raven, Grace e Insurgentes, proprio in virtù dello status di icona del prog che il personaggio Wilson ha conseguito.

Quindi dicevamo: My Book of Regrets nei suoi nove minuti abbondanti ci mostra un complesso in stato di grazia, una canzone che è divertente da ascoltare per tutti i suoi piccoli accorgimenti strumentali. Incasellati dentro ci sono le rifiniture dell'ottimo Kilminster, un bel basso bolso alla Yes, gustosi impasti di synth che si sposano con ottimi arpeggi di chitarra, ritmo da ballata funky con un gradevole ritornello che richiama l'antico brit pop anni '90. Anche Year of the Plague è uno dei pezzi strumentali più delicati usciti ultimamente dalla penna di Wilson. Dopo un intro ambient e aleatorio con piano elettrico, violino e un leggero mellotron, il pezzo prende l'avvio da un arpeggio acustico reiterato sul quale poi poggiano le fondamenta di tutta l'impalcatura di strumenti. In pratica è un'elegia poetica in musica, molto atmosferica e malinconica. Abbastanza trascurabile Happiness III che non nasconde la sua natura di ballata folk, arrangiata però come fosse un pezzaccio da rock FM. Sunday Rain Sets In e Vermillioncore sono altri due brani strumentali: il primo, con un paio di accordi depressivi e un mellotron, si accompagna ad un tema da film noir, trasformandosi in una sorta di soft muzak che sfiora atmosfere fusion, anche se non sono presenti assoli; il secondo punta su un groove di basso che accenna a delle arie malate come avveniva in molti punti di Grace for Drowning, infatti ci sono fratture elettriche improvvise e sintetizzatori spaziali e invasivi.

In breve, tutto sommato questi outsider potrebbero essere stati prelevati da qualche b-side dei Porcupine Tree e 4 ½ starà alla discografia di Steven Wilson come Recordings sta a quella dei PT. Materiale trascurabile? Forse in parte, ma c'è più voglia di progredire e qualche sprazzo di genuina lucidità qui dentro che su Hand.Cannot.Erase.

domenica 17 gennaio 2016

MEER - MEER (2016)


Non è detto che dalla Scandinavia arrivi sempre ed esclusivamente musica malinconica. Quella dei norvegesi MEER, ad esempio, lascia ampi spazi a raggi di sole che filtrano attraverso i toni chiaroscuri di una musica per lo più acustica ed elegante, grazie alla sinergia di addirittura otto elementi che portano in dote inevitabilmente arrangiamenti fastosi. Credo che il modo migliore per presentare i MEER sia lasciare la parola a loro stessi quando si descrivono come un'orchestra alternative pop con influenze che vanno dalla musica classica al progressive rock con polifonie vocali e grandiosi arrangiamenti per archi.

Johanne Margrethe Kippersund Nesdal (voce), Knut Kippersund Nesdal (voce), Eivind Strømstad (chitarra), Åsa Ree (violino), Ingvild Nordstoga Eide (viola), Ole Gjøstøl (piano), Morten Strypet (basso) e Mats Lillehaug (batteria) erano fino all'anno scorso conosciuti con il nome di Ted Glen Extended con alle spalle un EP di cinque tracce pubblicato nel 2012, ottenendo ottimi consensi dalla stampa locale.

La prima canzone realizzata a nome MEER nel settembre del 2015, Night By Day, è stata anche quella che apre l'album pubblicato da pochi giorni. In questo brano si possono trovare le caratteristiche migliori del gruppo, a partire dalla perizia degli arrangiamenti e della gestione magistrale delle dinamiche: tappeti di violini che accompagnano chitarra e piano acustici, con voci maschili e femminili che si rincorrono, si sovrastano e si accarezzano, mentre la canzone cresce e si trasforma da ballata da camera a sinfonia orchestrale.

E' proprio in questi due ultimi caratteri stilistici che si sviluppa il resto dell'album. Per quanto possano partire con impostazioni da chamber pop acustico, pezzi come Solveig, I Surrender, Ghost, oppure soul pop come Shortcut to a Masterpiece, durante il loro sviluppo si dipanano assumendo contorni e prospettive da suite in grande scala, a prescindere dalla durata, usufruendo di trucchi strumentali mutuati dal progressive rock. Valentina in the Sky, specialmente nelle sue fantasie strumentali pilotate come fossero un pezzo classico, saprà affascinare anche chi non si è mai allontanato troppo da parametri neo prog. Dover Beach invece rappresenta il culmine di quel distacco tra malinconia e gioiosità di cui si parlava all'inizio, arrivando nel finale ad esplodere anche in un canto corale liberatorio. Personalmente ritengo il miglior pezzo dell'album Grains of Sand, inquadrato tra tradizione folk e modernità con un pulsare di basso elettronico fusion contrapposto ad un crescendo sincopato che esplode in tutta la sua potenza polifonica e sinfonica. Un capolavoro di arrangiamento, il che, se tutto l'album avesse seguito questa linea, sarebbe risultato di qualità sopraffina.

http://meerband.com  

 

giovedì 14 gennaio 2016

Altprogcore January discoveries, part 2

Questo e il post precedente non sono esattamente dedicati alle sole scoperte inedite che vorrei consigliare, ma in realtà sono un misto di anticipazioni per il 2016 e di cosa ci siamo persi per strada durante il 2015. Enjoy!
P.S. Se vi chiedete cosa sia successo dopo l'editoriale di fine anno, qui trovate una breve spiegazione.


Post hardcore, alternative rock e emocore si ritrovano in questo EP d'esordio dei Decades che sotto certi aspetti, con i suoi arpeggi psichedelici e un andamento lisergico, mi ricorda i Dredg nei momenti più rilassati e melodici.



Suonando un misto di jazz e soul imprestati al pop, questa band stupisce per le armonie perfette e la perizia strumentale tanto trascinante quanto frenetica e virtuosa negli assoli. Una versione più solare e pop dei The Reign of Kindo?



Forse conoscete già i russi Pinkshinyultrablast in procinto di pubblicare il 26 febbraio il secondo album Grandfeathered. Il loro è uno shoegaze psichedelico all'ennesima potenza tra i caleidoscopi dream pop degli Stereolab e colorate distorsioni alla My Bloody Valentine che rendono tutto così contrastante e atipico.


La cantante israeliana Ninet Tayeb, portata alla ribalta da Steven Wilson (ma già da anni una star in patria) su Hand. Cannot. Erase., uscirà con un nuovo album ancora senza titolo da cui per ora ha realizzato il singolo Child con relativo video.


Con un algido impianto sonoro basato su ritmiche funk e fusion e progressioni prog intricate alla The Mars Volta, i Madilan si presentano come una band di R&B futuristico. A me non convince molto l'uso eccessivo del vocoder, ma è un'impressione personale che comunque li fa distinguere per la peculiarità di una ricerca sonora diversa dal solito. In attesa del primo lavoro, che sia EP o album.


Come spero ricorderete il primo album dei The Knells è stato il migliore dell'anno 2013 per altprogcore. Questo trailer, che ci presenta stralci di work in progress, testimonia che la band del chitarrista di estrazione classica Andrew Mckenna Lee sta lavorando al suo seguito. Spero proprio che i The Knells riescano a completarlo entro l'anno, anche se uno scambio di messaggi avuto con Lee mi ha informato che è più realista l'ipotesi per una pubblicazione nei primi mesi del 2017.

Knells II Trailer from The Knells on Vimeo.


Avevo già segnalato i Tiny Giant, ovvero la nuova band della ex Pure Reason Revolution Chloe Alper, quando avevano pubblicato il primo singolo Heavy Love. Questo invece è il secondo e un album o un EP non dovrebbero tardare ad arrivare.



Di seguito, invece, il primo singolo dell'altro ex PRR Jon Courtney che, in duo con la cantante e tastierista Sammi Doll, ha creato i Bullet Height, progetto con venature elctro-pop-prog molto simili stilisticamente all'ultimo periodo dei Pure Reason Revolution.



Per finire vi ricordo che è in arrivo anche il secondo album dei Twelve Foot Ninja, anticipato dalla nuova One Hand Killing.

martedì 12 gennaio 2016

Altprogcore January discoveries

 
Progressive rock vecchia maniera suonato e prodotto molto bene per fan di Gentle Giant, Yes, Echolyn, Everon, A.C.T. 


Giovane quintetto californiano che produce delle suggestive jam strumentali di fusion, jazz e math rock con il particolare che c'è anche un cantante ad aggiungere spessore alla musica.


Quintetto di Brisbane, Australia, con un gran talento per il math rock che sconfina nei territori della fusion, ma che alla prova dei fatti assomiglia tanto ad una evoluta soluzione di prog alternativo.


Un duo svedese che aveva già pubblicato un album nel 2013 e che l'antivigilia di Natale se n'è uscito con questo singolo molto orecchiabile, tra alternative pop, post rock, dream pop e shoegaze.

The Woods Brothers sono appunto i fratelli Chris e Nick Woods di Los Angeles che stanno completando il loro primo album con Casey Crescenzo alla produzione ed intanto hanno pubblicato queste due canzoni (su Terra Firma potete ascoltare la voce di Crescenzo).



Secondo EP, questa volta purtroppo solo strumentale, dei meravigliosi math rockers canadesi Grand Beach, stretti parenti con A.M. Overcast.



Sulla scia di Circa Survive, Gates, From Indian Lakes, i The Valley Ends sono un'altra band australiana da tenere d'occhio.



Gli israeliani Anakdota, a dire il vero, sono già un paio di anni che li conosco, ma non avevo mai scritto nulla su di loro perché producevano solamente video singoli. Ora sembra che finalmente si siano decisi a registrare un album ed è un bene perché sono una delle migliori band prog in circolazione con grandi doti strumentali. Per fan di ELP e Echolyn e ho detto tutto.



I Dumb Waiter sono un quartetto strumentale di Chicago che producono un'ottima mistura di abrasivo jazz, math rock e prog. In arrivo ad aprile il loro nuovo album Cancel Christmas.



Per ultimo segnalo questo piccolo e incantevole mini album che vede coinvolta Sarah Glass, l'ospite vocale su Volcano Worship dei Strawberry Girls. Sono rimasto molto ben impressionato dalla sua voce e infatti, ascoltandola in questo progetto che le dà più spazio, la mia impressione è stata confermata. Sarah mi ha anche anticipato che sta lavorando ad un album con  Zach Garren che sperano di pubblicare in futuro.