venerdì 29 aprile 2016

Bring on the chills: un'intervista con gli Oh Malô (Italian + English version)


Sarà l'aria che si respira, oppure la presenza di una scuola musicale di prestigio come il Berklee College of Music, fatto sta che negli ultimi anni, dalla città di Boston, sono uscite alcune tra le migliori band indipendenti che si sono distinte per guardare alla musica rock con originalità e con lo spirito di oltrepassare i confini dell'alternative rock. Di questa prolifica scena avevo parlato già in passato, segnalando gruppi come Vending Machetes, Art Decade, The Dirty Dishes, KID:NAP:KIN e SuperVolcano e ho continuato a farlo con Bent Knee, Mals Totem, Time King, Iris Lune e ora con gli Oh Malô.

Il loro primo album, As We Were, viene pubblicato ufficialmente oggi e, secondo altprogcore, si tratta senza dubbio dell'esordio dell'anno. Per l'occasione ho pensato quindi di porre alla band alcune domande alle quali ha risposto il cantante e frontman Brandon Hafetz. Con le sue venature indie rock, la musica degli Oh Malô sa essere intrigante, basata su arpeggi reiterati e minimali e su suoni evanescenti, ma che crescono e si sviluppano con intelligenti variazioni sul tema. Nella loro diversità tutte le canzoni di As We Were nascondono un gusto inconscio per folk, shoegaze e psichedelia. Ascoltando il canto di Hafetz, per il quale ad un primo approccio verrebbe da scomodare l'ingombrante paragone con la "Grazia" di Jeff Buckley, non si può fare a meno di ritenerlo un prolungamento della musica, dato che Hafetz ha trovato un personalissimo modo di esprimersi vocalmente, adattandosi allo stile malinconico degli Oh Malô con un'interpretazione che può variare dal filo di voce al sospiro, dalla potenza al falsetto.

Ispirato concettualmente da emozioni e atmosfere contrastanti, che hanno alla base i colori impressi nella copertina, As We Were è un lavoro che fa della sua estrema varietà la propria forza: un attimo impavido, l'attimo dopo plumbeo e depresso, il successivo vulnerabile o aggressivo e ancora solare e spensierato. I sentimenti di rabbia, frustrazione e aggressività trovano il loro corrispettivo nei colori di rosso, arancio e blu, mutuati attraverso i brani che possono realizzarsi in flebili ballad dalle dinamiche mozzafiato come Feed e Sweet Dreams, attraverso inondazioni elettriche che si manifestano in pompa magna su Burn e Out on My Own o in dolci abbandoni in crescendo su It All Comes Back e Hey Mr. Paul e, infine, flirtando con il pop rock con aperture sentimentali su Miss You e Happy Birthday. Ogni canzone racchiude un piccolo mondo ed è parte del mosaico che si completa in As We Were.

(ps: scroll down for english version)




Prima di tutto: potete presentare la vostra band e la scelta del curioso nome?

Ci siamo formati nel febbraio 2014 e, dopo qualche cambio di lineup qua là, ora il gruppo comprende me (Brandon Hafetz) alla voce e alla chitarra, Jack Mcloughlin alla chitarra principale/pedal steel/ seconda voce, Jordan Lagana al basso e Isaac Wang alla batteria. Il nome della band deriva dalla città francese di Saint-Malo dove, durante una gita scolastica delle scuole superiori nel 2011, iniziai a scrivere il materiale per questo gruppo.


Prima di As We Were avete pubblicato tre EP legati ad altrettanti colori (arancione-blu-rosso). Essi sono presenti anche nella cover di As We Were. Qual é il concetto dietro questa scelta? Che importanza rivestono nella resa generale del disco?

I colori servono per molti scopi all'interno dell'album. Quando abbiamo iniziato a scrivere queste canzoni ognuna di esse si stava dimostrando incredibilmente differente dalla successiva. Penso sia stato il risultato dell'essere travolto da un vortice di emozioni imprevedibili del momento, così come dal suonare per la prima volta il materiale insieme agli altri membri originali della band. Musicalmente i colori rappresentano la struttura e l'umore generale veicolati dalla tonalità dei brani. Se si guarda ad una canzone come Burn è abbastanza facile intuire che sia catalogata come "rossa". La stessa cosa vale per Fine che è classificata come "blu", ridotta solamente e voce e chitarra acustica, è la canzone più lenta dell'album. Emotivamente i colori attingono a quel vortice che ho citato. Stavo provando rabbia in un dato momento, la negazione in un altro e, dopo un bel po', finalmente un po' di risoluzione. L'album è veramente un viaggio del mio stato mentale nel corso dei due anni di lavorazione su di esso.


Il tema dei colori si rispecchia più nella musica, nelle liriche o in un equilibrio di entrambi?

Direi sicuramente un equilibrio di entrambi come ho spiegato qui sopra.


A proposito di questa scelta mi viene in mente un parallelismo con i The Dear Hunter e il loro progetto di nove EP The Color Spectrum. Trovate qualche similarità con loro?

Buffo che tu citi questa cosa, in quanto non avevamo idea che loro avessero fatto ciò fino a che non eravamo molto avanti con il nostro lavoro. Nessuno di noi aveva sentito parlare dei The Dear Hunter fino a quando qualcuno ci ha informato che loro avevano realizzato una cosa simile con i colori come soggetto. Mi sento come se quel progetto fosse più ispirato ai colori rispetto al nostro, per noi i colori erano semplicemente un modo di comunicare quello che stavamo vivendo musicalmente ed emotivamente.


Guardando il video di As We Were mi viene in mente una domanda: quando vi esibite dal vivo vi piace dare nuova luce ai vostri brani giocando con gli arrangiamenti o preferite rimanere fedeli all'originale?

Quella è una delle canzoni più vecchie che abbiamo scritto. Non direi che cambiamo necessariamente gli arrangiamenti troppo spesso, anche se ci piace aggiungere nuove introduzioni qua e là e, grazie al cambio dei nostri membri, abbiamo finito per rivisitare più volte molte canzoni. Penso sia molto importante mantenere una prospettiva nuova nelle canzoni che rimangono a lungo in scaletta di modo che non diventino ripetitive per te o per il pubblico.


Due anni fa scoprii i Bent Knee e grazie a loro ho scoperto voi. Non pensate sia paradossale che nell'era di Internet per molte band all'esordio sia ancora difficile essere conosciute al di fuori dei confini delle loro scene locali, proprio come una volta?

Sì, certamente. Internet indubbiamente ha un grande potere, sebbene sia molto facile perdersi nella massa tra gli algoritmi sfavorevoli di Facebook e gli infiniti upload su YouTube. Siamo sempre molto carichi quando veniamo a sapere di un nuovo fan fuori dalle città che abbiamo visitato, soprattutto quando sono fuori dagli Stati Uniti.


Mi sembra che la scena musicale di Boston sia una delle più interessanti e originali. Ci sono altre band che secondo voi meritano di essere conosciute?

Boston ha sicuramente una buona parte di band incredibili. Alcune tra le nostre preferite sono Bent Knee, The Colonnade, I/O, Amy & the Engine e Animal Flag solo per citarne alcune. Sembra che sempre più band di grande qualità stiano spuntando a distanza di qualche mese e siamo veramente eccitati di vedere e ascoltare cosa arriverà dopo.


Questo è un blog che si occupa principalmente di progressive rock e art rock. Ho colto nella vostra musica elementi che vanno oltre il classico indie rock, inoltre avete realizzato una cover dei Tame Impala, band spesso associata al rock psichedelico e progressivo. Siete attratti da un aspetto più intellettuale nella musica?

Penso sia assolutamente giusto dire che ci interessa quel tipo di musica. Abbiamo sperimentato ogni tipo di stile e approccio su questo primo album e credo che in futuro dovremo solo continuare a sperimentare su questa strada.


Possiamo aspettarci in futuro ulteriori sviluppi su questo frangente?

Abbiamo appena iniziato a scrivere nuovo materiale quindi direi di sì. Stiamo cercando di provare un sacco di cose nuove per la seconda prova, ma non posso dire con sicurezza come andrà a finire!





ENGLISH VERSION

First of all, can you introduce the band, like history background and the curious name origins. 

We formed in February of 2014 and after a few changes to our lineup here and there now have myself (Brandon Hafetz) on lead vocals/guitar, Jack Mcloughlin on lead guitar/pedal steel/ background vocals, Jordan Lagana on bass, and Isaac Wang on drums/percussion. The name of the band comes from Saint-Malo, France, where I wrote the very beginnings of material for this band back in 2011 during a high school trip.


Before As We Were you have released three colors themed EPs. These colors (Orange, Blue, Red) are also present on the cover of As We Were. What’s the concept behind this choice? Are they connected to the songs development? 

The colors serve multiple purposes with the record. When we were initially writing these songs each one was turning out to be incredibly different than the next. I think it was a product of both myself going though an unpredictable whirlwind of emotions at the time as well as the the original band members playing music together for the first time. Musically the colors represent the textures and overall mood conveyed by the tonality of the songs. If you look at a song like Burn it's quite easy to guess it's categorized as 'red'. Same thing goes for 'Fine' which is categorized as 'blue', is stripped down to just vocals and acoustic guitar, and is the slowest song on the record. Emotionally the colors tap into that whirlwind I mentioned. I was experiencing anger at one moment, denial at another, and after a good while finally some resolution. The record is really a journey of my mental state over the two years working on it.


Do you think the colors theme is reflected more in the music, in the lyrics or is a balance of both? 

I'd say definitely a balance of both as I elaborated on above.


Regarding this choice, it comes to my mind a parallel with The Dear Hunter’s nine EPs project The Color Spectrum. Do you found some similarities? 

It's funny you mention that since we had no idea that they had done that until pretty late into the game. None of us had heard of The Dear Hunter until someone brought up the fact that they had done a similar release with color. I feel like that project was much more inspired by the colors versus for us, the colors were simply a way to communicate what we were experiencing musically and emotionally.


Watching the video for As We Were a question comes to my mind: when you perform live do you like to give a new perspective to your tunes, playing them with different arrangements, or do you prefer to stay faithful to the original? 

That song is one of the older songs we have. I wouldn't say we necessarily change arrangements too often, though we like to add in new intros here and there and due to our member changes we've ended up revisiting a lot of the songs multiple times. I think it's really important to keep a fresh perspective on songs that stay in the rotation for a long time so that they never become stale to you or the audience.





Two years ago I discovered Bent Knee and now, thanks to them, I’ve been aware of your band (and I think to be the first one in Europe). Don’t you think it’s ironic that on the Internet era it’s still difficult for a lot of newcomers to be known outside the borders of their local scenes, just like as it once was? 

Yes, definitely. The Internet is undoubtably powerful though with unfavorable Facebook algorithms and endless YouTube uploads it's easy to get lost in the masses. We're always really pumped when we hear from a new fan outside of the cities we've visited before, especially when they're outside of the US!


It seems to me that the music scene in Boston is one of the most vital, interesting and original. Are there other bands that you think are worth knowing? 

Boston most definitely has its share of incredible bands. Some of our personal favorites are Bent Knee, The Colonnade, I/O, Amy & the Engine, and Animal Flag to name a few. It seems more and more top notch bands are popping up every few months though and we're excited to see and hear what's next.


This blog focuses mainly on progressive rock and art rock, but I caught in your music a style that go beyond the classic indie rock, you have also covered Tame Impala that are often linked to psychedelic and progressive rock. Are you attracted to a more “intellectual mood oriented” aspect in music? 

I think it's definitely fair to say we are interested in that sort of music. We experimented with all sorts of styles and approaches on this first record and I think we'll only continue to experiment going forward.


Can we expect further developments of this side in the future? 

We've only just began writing new material though I would say yes. We're going to be trying out a lot of new things the second time around but I can't say for sure where it will all end up!

 www.ohmalo.com 


giovedì 28 aprile 2016

Panzerpappa - Pestrottedans (2016)


Quando in Scandinavia, una ventina di anni fa, si stava coltivando un massiccio ritorno alle sonorità del rock progressivo sinfonico dei seventies, i Panzerpappa furono tra i pochi gruppi nordici, insieme ai Gösta Berling Saga, a proporre un’offerta musicale più complessa di avant-prog che proseguiva l’elitarismo del Rock in Opposition degli Henry Cow con un leggero tocco di zeuhl alla Univers Zero. Partendo dai primi radicali lavori, i Panzerpappa si sono poi con il tempo ammorbiditi, spostando musicalmente il loro sguardo verso sud ovest, al sound di Canterbury, arrivando a quest’ultimo Pestrottedans dopo quattro anni di silenzio da Astromalist.

Nella nuova opera, i Panzerpappa sembrano aprirsi ancora di più a melodie vagamente cantabili o per lo meno più orecchiabili, tranne poi concludere l’album con il maggior incisivo ritorno alla materia RIO di Goda' Gomorrah. Il loro blend di jazz rock, musica etnica e classica, ad esempio, si snoda nelle prime tre tracce con grande attenzione a melodie lineari - tessute dall’interplay tra il sassofono di Børve e la chitarra di Storløkken - dalle quali si possono cogliere anche richiami alle tradizioni klezmer e mediorientali, passando dal sembrare ora un semplice ensemble di fusion, ora una piccola orchestra da camera. Il quintetto, però, carbura al suo meglio quando all’interno delle composizioni si inseriscono delle riconoscibili tracce di progressive rock come accade su Fundal e Landsbysladder 3 che senza dubbio rappresentano i numeri migliori dell’album.

I Panzerpappa dimostrano ancora una volta la propria competenza in qualità di strumentisti ed esecutori, encomiabile anche una certa ricerca nel sound che li porta a confrontarsi nel merito tra il sinfonismo e il jazz prog. Ma a frenarli sulla via dell’emancipazione che possa fare la differenza è proprio la sensazione di una rilassatezza compositiva e la conseguente limitazione di risvolti che potrebbero insinuare maggiore complessità tra le trame.



mercoledì 27 aprile 2016

Mice on Stilts - Hope For A Mourning (2016)


Hope For A Mourning, opera prima dei dei neozelandesi Mice on Stilts, è l'album più malinconico, elegiaco e razionalmente depressivo che potrete ascoltare quest'anno. Hope For A Mourning arriva dopo l'EP del 2013 An Ocean Held Me del quale è una più ponderata estensione, continuando sulla traccia di quelle che potremmo definire lunghe elucubrazioni acustiche immerse in crescendo orchestrali, una definizione meglio sintetizzata dal gruppo con il termine "doom folk". Infatti, quasi tutti i brani sono guidati da chitarra o piano e dalla voce sensuale e apatica allo stesso tempo di Benjamin Morle. Fiati e violoncello rifiniscono ed entrano in gioco non tanto per dare pathos ad una musica che già di suo è altamente comunicativa dello stato d'animo generale, ma per aggiungere spessore al tessuto sonoro (si ascolti la title-track).

La prima notevole traccia Khandallah, che si apre con un piano incerto e si espande in un corale psichedelico, ci descrive benissimo un gruppo in bilico tra Pink Floyd, Radiohead e i primissimi Coldplay. A questi paragoni che tratteggiano la musica dei Mice on Stilts si aggiunge un carattere da chamber rock già dal secondo brano, il gospel di Orca, e quelle saranno le coordinate sulle quali poi rimarrà Hope For A Mourning. Non si pensi però a qualcosa di epico e magniloquente, tutt'altro, i crescendo sono presenti, ma tra i contorni del mondo della band ogni cosa si muove al rallentatore, come fosse una marcia funebre, tant'è che l'impronta funerea è richiamata anche nei titoli della lunga e tetra ballad Funeral e del requiem per pianoforte And We Saw His Needs Through the Casket. YHWH si occupa di tenere alta la tensione con improvvise rianimazioni elettriche e il suono apocalittico e polveroso ci trasporta idealmente dalle parti dei deserti della vicina Australia. L'album si chiude con Monarch, che è quasi la controparte di Khandallah, siderale e sinfonica, ma anche un cammino sonoro etereo, melodrammatico e senza indirizzo. Assicuratevi di essere del giusto umore prima di ascoltare Hope For A Mourning (voglio dire, già il titolo dovrebbe mettervi in guardia).




http://miceonstilts.co.nz/

martedì 26 aprile 2016

Deus Ex Machina - Devoto (2016)


Tagliato il traguardo dei trentuno anni di carriera, i bolognesi Deus Ex Machina riemergono prepotentemente dal cono d’ombra in cui hanno vissuto negli ultimi tempi. Complice qualche stop forzato – perché di sola musica, si sa, non si vive – e un cambio di formazione che ha visto il ritorno dello storico tastierista Luigi Ricciardiello e il temporaneo abbandono di Alberto Piras, i DEM non si facevano vivi dal 2008, quando fu pubblicato il live in studio Imparis: un lavoro che, a suo modo, ha segnato al tempo stesso un punto di arrivo e un nuovo inizio. Devoto si presenta quindi dopo una lunga pausa che, come era lecito aspettarsi, ha dato modo al gruppo di meditare su una nuova direzione; un cambiamento che ha portato due importanti novità: la scelta di abbandonare definitivamente i testi in latino in favore di quelli in italiano e un approccio musicale, per quanto possibile, più asciutto e diretto. In un certo senso il passaggio è stato meno traumatico di ciò che sembra, poiché le liriche si inseriscono bene nel tessuto musicale attraverso la sempre ineccepibile performance di Piras e anche perché i Deus Ex Machina hanno preservato le proprie radici stilistiche. La peculiarità del loro progressive è stata sempre quella di prendere le mosse dal classic rock, dall’hard dei Led Zeppelin, dal blues e dalle jam psichedeliche, mescolandolo con l’imprevedibilità di Area e PFM. Tutto questo torna nei riff sferzanti di Collina e nei groove delle tastiere di Ricciardiello, una linea percorsa con trascinante carica nei saliscendi di Transizione e nell’estesa Più Uguale, mentre la sezione ritmica e il violino aggiungono quel tocco di fusion alla Mahavishnu rafforzato talvolta dall’intervento dei fiati che ritroviamo su Distratto da Me e Figli. Album dopo album, i DEM ci hanno abituato a cambi di prospettiva, avendo mantenuto sempre il pregio di esplorare nuove possibilità. Devoto non fa eccezione e, se lo poniamo all’interno di una cornice progressive rock, risulta quasi anomalo per le sue aperture verso schemi formali più ortodossi ai quali si applica il sound sanguigno e viscerale del blues e dell’hard rock, ma ci restituisce un gruppo in continuo movimento e ancora in pieno fermento.).

lunedì 25 aprile 2016

Covet session @ Audiotree Live


Da illustratrice di copertine per album math rock a musicista all'interno del genere, l'ascesa della chitarrista Yvette Young sta riscuotendo un buon seguito dopo aver pubblicato un EP acustico come solista nel 2014 e poi, lo scorso dicembre, un altro EP con il suo nuovo progetto Covet, costituito insieme a Keith Grimshaw alla batteria e David Adamiak al basso. Anche loro si sono recentemente cimentati in una session live per Audiotree nella quale hanno presentato cinque delle sei tracce contenute sul loro esordio Currents (che potete ascoltare di seguito).



 

venerdì 22 aprile 2016

The Gabriel Construct - Interior City (2013)


Interior City è uno degli album più impegnativi che mi sia capitato di ascoltare di recente, chiedendomi il perché non abbia mai sentito prima il nome di The Gabriel Construct, dato che il suo primo (e finora unico) lavoro risale ormai a tre anni fa. Interior City è il parto musicale del giovane compositore Gabriel Lucas Riccio che per 72 minuti ci regala una personalissima visione di complesso avant prog. Dissonanze, melodie, minimalismo, rumore, classica, jazz, avant-garde, RIO, metal, sono solo alcuni degli aspetti che quest'opera unica va a sondare con un gusto del tutto alieno che naturalmente richiede all'ascoltatore pazienza e tempo per essere assimilata. A partire dall'inaugurale Arrival in a Distant Land, Gabriel ci mostra solo la superficie di quello che andrà ad intaccare, destreggiandosi tra le caratteristiche di moltplici generi senza mai però potersi ascrivere all'interno di essi: possono essere le concezioni astratte della traccia appena citata e quelle di Languishing in Lower Chakras, oppure le ritmiche metal, le armonizzazioni jazz e le agonizzazioni thrash di Curing Somatization, ma non è classica avant-garde né prog metal. Quindi, cosa può essere Interior City se non la pura essenza del progressive rock nel frappore generi e dar loro nuova linfa? 

Per presentare con efficacia il risultato di questo giovane artista, mi verrebbe da sintetizzare con una domanda ad effetto: vi piacciono maudlin of the Well, Kayo Dot, Devin Townsend, Quiet Child, Mr. Bungle? Bene, qui siamo oltre. Gabriel Lucas Riccio sa osare come e più di questi artisti con ambizione e coraggio, proprio perché si presenta con una prima opera monumentale sotto molti punti di vista. Interior City è inoltre, liricamente, una profonda meditazione sul declino della società e il rispetto che il singolo individuo si deve conquistare all'interno di essa, concetti espressi attraverso la forma del concept album che unisce idealmente tutte le dieci tracce senza soluzione di continuità, in un'unica, lunghissima, suite. Tra gli ospiti che hanno suonato su Interior City troviamo Travis Orbin (Darkest Hour, ex-Periphery, Of Legends) alla batteria, Thomas Murphy (ex-Periphery) al basso, David Stivelman (ex-Debbie Does Dallas) alla chitarra, Soren Larson al sassofono e Sophia Uddin al violino.



http://thegabrielconstruct.com/

mercoledì 20 aprile 2016

The Fall of Troy - OK (2016)


I The Fall of Troy sono stati tra i pionieri del mathcore progressivo, pubblicando quattro album tra il 2003 e il 2009. I tre membri, dopo l'abbandono e la sostituzione del bassista storico Tim Smith con Frank Ene, durò tre anni, finché nel 2010 decisero di comune accordo di sciogliersi. Il leader Thomas Erak formò per un breve periodo i Just Like Vinyl ed entrò in seguito a far parte dei Chiodos. Alla fine del 2013, a sorpresa, i The Fall of Troy si riunirono nel trio originale di Erak/Smith/Forsman per suonare alcuni concerti. Da quel momento la band ha continuato la propria avventura con altri concerti e l'annuncio del quinto album, semplicemente intitolato OK, che viene pubblicato oggi in modo gratuito tramite il sito ufficiale della band (che comunque ha lasciato l'opzione di poterlo comprare sia in versione fisica che digitale).

Dalla sua ruvidezza, essenzialità e durata (poco più di mezz'ora, quindi anche meno di Phantom on the Horizon che viene considerato un EP), OK dà proprio l'idea dell'album nato velocemente sull'onda dell'entusiasmo della reunion e dell'affetto mostrato dai fans nei confronti della band. In termini musicali OK non aggiunge molto a quanto già fatto in passato dalla band di Seattle, anzi, proprio per questo suo "ritorno alle basi" appare molto meno strutturato dei vecchi classici Doppelgänger e Manipulator. Come sempre, si susseguono le parti frenetiche di chitarra di Erak, che si destreggiano tra "harsh vocals" e linee melodiche da pop punk, ma i brani che ne escono sono spigolosi e diretti come una versione primordiale dei The Fall of Troy, uno stile che troppe band hanno abbracciato ultimamente. E il fatto che si vadano ad allineare sullo stesso piano dei loro discepoli fa guardare ad OK come ad un lavoro di passaggio, o comunque minore.





http://thefalloftroy.com/

martedì 19 aprile 2016

The Knells live at National Sawdust


In attesa del secondo album in arrivo tra la fine del 2016 e l'inizio del 2017, i The Knells, ensemble di avant-prog guidato dal chitarrista e compositore di estrazione classica Andrew McKenna Lee, hanno anticipato alcune nuove composizioni dal vivo in un'esibizione tenuta al National Sawdust di Brooklyn il 21 gennaio scorso. Le tracce presenti su YouTube sono finora Immolation, First Song e Interlude I, ma non è detto che in futuro ne vengano aggiunte delle altre.
Il gruppo - e il suo primo album del 2013 - rappresenta una delle offerte più originali e uniche non solo nel panorama del rock progressivo, ma in quello della musica in generale, capace di unire le soluzioni armoniche lucidamente esaltanti della fusion canterburiana con la musica colta e intellettuale, senza mai risultare cervellotico. Dai nuovi brani presentati sembra che lo stile dei The Knells proseguirà sulle medesime coordinate del primo lavoro, senza comunque diminuire il grande potenziale di questa band.





http://theknells.com/

lunedì 18 aprile 2016

Strawberry Girls Live @ Audiotree


Ecco un'ottima occasione per vedere dal vivo cosa sanno fare gli Strawberry Girls, il trio di math post hardcore strumentale che si è esibito poco tempo fa negli studi di Audiotree Live. Come spero abbiate notato, il loro recente album American Graffiti è stato uno dei più apprezzati da questo blog tra quelli pubblicati nel 2015 e quindi è un piacere scoprire la loro musica suonata dal vivo.




domenica 10 aprile 2016

HAKEN - Affinity (2016)


Qualche volta è davvero difficile prevedere il futuro, poiché la realtà appare ben più misera di tutte quelle belle varianti che ci potremmo immaginare nella nostra mente. Ad esempio, prendete il cinema o il revival di molte serie TV di culto: penso che nessuno poteva prevedere che la progressiva atrofizzazione delle idee a cui siamo arrivati ci avrebbe riproposto una tale quantità di sequel, prequel, inutili remake e rebooth che però sono solo la pallida espressione (per non dire di peggio) dei bellissimi film che conoscevamo rimasti nell'immaginario collettivo e nella cultura pop. Di contro, nessuno di questi prodotti moderni rimarrà nella storia da quanto sono superficiali, ma fotografano un vero e non immaginario futuro del XXI secolo equivalente ad un vacuo mashup degli anni '80 riproposto con effetti speciali ipertrofici e sceneggiature molto più stupide e infantili (grazie Disney!).

Anche in musica c'è un progressivo ritorno al fascino e all'estetica retrò di quegli anni, ma le cose vanno decisamente meglio. Basti pensare alla riscoperta del synthpop e delle sue peculiarità spartane, declinato in qualsivoglia modo: dalle band che lo rileggono in chiave contemporanea come CHVRCHES, School of Seven Bells, GEMS; oppure più strettamente aderente allo stile iconico e sonoro dell'epoca come il carinissimo omonimo album dei GUNSHIP (uscito lo scorso anno), i recenti ospiti degli Snarky Puppy su Family Dinner vol.2, i Knower, la colonna sonora (e di conseguenza il film) del fantastico "futuro-passato" di Turbo Kid; ed infine le variazioni più estreme attuate dal delirante genere chiptune o 8-bit music di cui Bandcamp è invaso.

Ora vi starete chiedendo cosa c'entra tutto ciò con il progressive rock, niente in effetti, però mi sembrava una digressione necessaria e pertinente per introdurre la scelta di come gli Haken hanno presentato il loro quarto album in studio, Affinity. Se date un'occhiata al loro sito web e ancora di più alla simpatica presentazione e al video teaser dell'album, vi renderete conto di come la band inglese abbia adottato anch'essa questo effetto nostalgia, facendoci tornare alla mente (per chi se li ricorda) i tempi gloriosi dei mangianastri e del Commodore 64. Con tale espediente, la curiosità per un'eventuale cambio di direzione musicale è aumentata, legittimando il dubbio se gli Haken avessero virato verso un neo prog anni '80 o magari intrapreso la via di un crossover synthprog alla maniera dei VOLA. 

Niente di tutto ciò. La band è rimasta saldamente ancorata al suo stile, però il fatto che al songwriting questa volta abbia partecipato tutta la band con maggiore collaborazione, condividendo democraticamente idee musicali, si sente eccome. L'operazione degli Haken è semmai più intelligente e adotta sporadicamente peculiarità sonore degli eighties, come la drum machine, il registro pacchiano delle tastiere e imitazioni della computer music, per trasportarle nel loro progressive rock. Prendete 1985, già esplicativa fin dal titolo, dove abbiamo passaggi solisti degni delle soundtrack tastieristiche di Vince DiCola (ricordate Rocky IV?), brevi intersezioni djent e una più marcata vena sinfonica del solito. Diciamo che questa è un po' la prerogativa di altri brani temporalmente contenuti come Lapse, Earthrise e The Endless Knot, i quali, sottotraccia, riescono a strizzare l'occhio a quei vezzi musicali (non solo in ambito prog) tipici di trenta anni fa, rimanendo allo stesso tempo ben saldi al sound prog metal del presente. Cioè, a differenza di The Mountain, vengono abbandonati senza rimpianti quei rimandi a Gentle Giant, AOR e al continuo sfoggio di virtuosismo nel quale il gruppo si smarriva e si recuperano le intuizioni migliori di brani come Atlas Stone.



Affinity appare molto più vario e ispirato nella scelta normalissima di riprendersi il giusto spazio connesso tra prog sinfonico e prog metal, sapendo quando trattenersi e quando spingere sull'acceleratore. Il brano di punta The Architect da oltre quindici minuti, ad esempio, torna alle ouverture dei primi Spock's Beard, mettendoci dentro le digressioni dei Dream Theater e un insolito intermezzo tra l'ambient e il minimale che sale gradualmente alle vette che solo i Pain of Salvation erano capaci di sfoggiare. E' a questo punto che fa la sua comparsa la voce "harsh" di Einar Solberg dei Leprous, che per un attimo riporta gli Haken in quel regno di metal estremo familiare alla band norvegese.

Red Giant probabilmente è la traccia più atipica per chi è abituato alle grandi aperture sinfoniche degli Haken. Tutta ritmi e pulsazioni concentrati tra l'elettronica dark e le visioni future di Vangelis, punta a spiazzare: laddove il gruppo fa della sua forza le melodie, qui è tutta un'edificazione atmosferica che gioca per sottrazione. L'ultima traccia Bound By Gravity è invece tutto l'opposto: un'ariosa e calma suite-ballad di nove minuti e mezzo il cui unico difetto è quello di non presentare grandi variazioni al suo interno. Affinity rimane comunque un lavoro che offre molteplici aspetti, anche nuovi, degli Haken e da questo punto di vista va lodato il mettersi alla prova della band. Devo confessare di non essere mai stato un loro grande fan e, proprio da questa posizione privilegiata di non faziosità, mi sbilancerei affermando che Affinity può essere tranquillamente considerato il miglior lavoro della band fino ad oggi.


mercoledì 6 aprile 2016

BLACK PEAKS - Statues (2016)


L'evoluzione e la storia dei Black Peaks è come un piccolo bignami di come una band possa passare in poco tempo dal quasi anonimato di culto al nuovo nome caldo da tenere d'occhio. Infatti, nonostante il quartetto di Brighton sia al primo album, ha già alle spalle una storia ben delineata che lo differenzia sostanzialmente da molti altri gruppi che, come loro, pubblicano musica su Bandcamp e si fanno il culo nei concerti in piccoli club. Sarà per le giuste conoscenze o per un'otttima strategia di mercato, comunque Joe Gosney (chitarra), Liam Kearley (batteria), Andrew Gosden (basso) e Will Gardner (voce), dopo aver pubblicato nel 2014 un fantastico EP di tre tracce sotto la sigla Shrine, di lì a poco hanno cambiato nome in Black Peaks (poiché avevano scoperto che quello vecchio era fin troppo abusato), tirato fuori un paio di singoli inediti che prontamente hanno avuto molteplici passaggi su BBC Radio 1 e lodi da dj del calibro di Zane Lowe e Daniel P. Carter e ci è scappato pure un contratto con la Sony che adesso pubblica Statues tramite la consociata Easy Life Records.

Nel frattempo, il materiale a nome Shrine presente nelle piattaforme di streaming musicale è stato prontamente cancellato, come a segnare un nuovo inizio, ma se non ci fosse stato l'EP Closer to the Sun non credo avrei guardato ai Black Peaks con lo stesso interesse. Un po' perché i singoli Glass Built Castles e Crooks non avevano la stessa potenza di Saviour e Say You Will (due pezzi compresi nell'EP e che in questa sede sono stati leggemente ritoccati a livello di sound), un po' perché Will Gardner (che pure ha una grandissima voce) eccede talvolta negli scream da me personalmente non molto tollerati. Lasciando da parte i gusti personali, però, c'è da dire che Statues mantiene un grado tale di componenete prog e di abrasività hardcore che è impossibile non annoverarlo tra le più importanti uscite dell'anno, anche se non è esente da contradizioni interne.





L'album parte a palla con l'assalto di Glass Built Castles, il brano che tratteggia le peculiarità comuni anche agli altri singoli (Crooks, Set in Stone, White Eyes), che la band ha lentamente svelato mano a mano che la data di uscita si avvicinava, e cioè un'inclinazione al chorus da arena rock con implicazioni epic metal, ma comunque con una melodia che si ricorda - una formula simile agli ultimi Biffy Clyro - intervallati da arpeggi e riff hard con la medesima intensità stoner prog dei Mastodon, i quali riecheggiano nel potente tour de force Hang Em High. Ma in queste prolungate reiterazioni corrosive che si replicano su Drones ci si dimentica troppo spesso della bellezza dell'imprevisto, della virata improvvisa che spiazza l'ascolatatore e si procede a risaltare la materia hard tout court. Ecco allora che Statues si trasforma più in un ritratto di un post hardcore emancipato, come testimonia la stima e la partecipazione su To Take the First Turn da parte di Jamie Lenman (ex frontman degli ormai dimenticati Reuben), che non in un prog-core capace di osare, imparentato alla lontana con gli Oceansize, una tra le band a cui il gruppo si ispira.

La perla prog hardcore di tutto il lavoro rimane quindi la già nota Saviour che, nel suo alternare epiche cadenze a trame dinamiche in continua evoluzione culminante negli intricati fraseggi chitarristici dell'esplosivo finale, non trova un altro brano all'interno di Statues che possa reggerne lo stesso livello d'intensità, a parte forse la calma apparente allestita da Say You Will che, guarda caso, si trovava anch'essa nell'EP già citato (del quale ormai potevano recuperare anche la validissima title-track Closer to the Sun). Insomma, la sensazione è che con Statues i Black Peaks non abbiano voluto esporsi al rischio di risultare troppo cervellotici e abbiano imbrigliato parzialmente quella libertà che traspariva quando si chiamavano Shrine. Ad ogni modo, i protagonisti sono grandiosi nel portare l'esecuzione ad un livello di sfida permanente: Gardner passa in un secondo da violente urla a passaggi ariosi alla Jeff Buckley, dando prova di una duplicità vocale schizofrenica e versatile, Gosney, da solo, cuce assieme furiosi riff e arpeggi da ballad senza abbassare il pathos drammatico di una tacca e il motore propulsivo del duo Kearley-Gosden raggiunge alti stati di frenesia ritmica.

martedì 5 aprile 2016

2016: il miglior anno musicale del decennio?


Questo 2016 si preannuncia come uno degli anni più eccitanti degli ultimi tempi. Non è il fatto che è appena iniziato il quarto mese e già abbiamo fatto il pieno di opere di qualità come Rare Futures, School of Seven Bells, The Mercury Tree, Adjy e Black Peaks (dei quali mi occuperò a breve), ma le anticipazioni che ci aspettano non sono da meno. Oltre al ritorno di band lungamente scomparse dai radar come Thrice, Saosin, Glassjaw, First Signs of Frost e The Fall of Troy nel post hardcore e Frost* e Deus Ex Machina nel progressive rock, si preannuncia l'arrivo del primo straordinario album d'esordio degli Oh Malô il 29 aprile, oltre che i nuovi lavori di Bent Knee, Thank You Scientist e, forse in extremis a fine anno, quello dei The Knells, ovvero i tre gruppi le cui opere prime sono state al vertice degli ultimi "Best of" annuali di Altprogcore. E questi sono solo alcuni dei nomi sicuri che ci è dato sapere fin qui. Chissà cosa riserverà il resto dell'anno.

Intanto, dopo questa considerazione, vi lascio con qualche testimonianza sonora:
Il primo singolo Leak Water tratto dai Say So dei Bent Knee in uscita il 20 maggio e Heartstrings (eseguito dal vivo) che sarà nel nuovo album dei Frost*.





E di seguito alcune uscite che si sono accumulate il primo di aprile:
C'è il math-post-rock dei Three Trapped Tigers, nuova acquisizione della Superball Records (etichetta che aveva in scuderia Pure Reason Revolution e Oceansize), che nel loro osannato secondo album Silent Earthling sembrano dei Battles a colori e sotto steroidi, il che come affermazione è già di per sé provocante. Se volete ben cominciare, ascoltate Blimp o Rainbow Road.



Sempre in tema di math rock c'è da segnalare il ritorno dei Wot Gorilla? che intitolano simpaticamente il loro EP .​.​.​and then there were three​.​.​. anche se con i Genesis non hanno nulla a che fare musicalmente.



Poi ci sono quei pazzi scatenati dell'avant-prog Godzilla Black al secondo album con Press the Flesh.



Infine un'eccezione meritevole di un'artista già conosciuta a livello planetario, ma che ha tirato fuori un album che nessuno si aspettava e non mi stupirei se alla fine del 2016 si piazzasse nelle parti alte di molte classifiche di fine anno. La sempre osannata Esperanza Spalding lascia il suo soul jazz funk per radical chic della prima ora, si presenta con un look rinnovato e, prendendo la scusa di interpretare un alter ego ispirato al suo secondo nome di battesimo, dà una sterzata alla sua carriera con Emily's D+Evolution. La Spalding lascia solo virtualmente il jazz e le premesse di partenza rimangono saldamente indirizzate alla black music, ma vi affianca una prorompente matrice rock, giocando con poliritmie, armonie vocali e groove soul. Il risultato infatti assomiglia molto alla pop fusion reintepretata dai bianchi, come ad esempio al periodo jazz-mingusiano di Joni Mitchell o ai capolavori pop prog di Steely Dan e Todd Rundgren.

domenica 3 aprile 2016

Sithu Aye - Set Course for Andromeda (2016)


Com'è bella questa comunità djent sempre pronta a scambiarsi favori e solidale l'uno con l'altro. Come vogliate metterla, questi giovani prodigi della chitarra, chiusi nelle loro stanze a registrare in solitaria, si sono creati in qualche anno un seguito di pubblico leale ed entusiasta, facendo crescere un genere strumentale che taglia trasversalmente fusion e prog metal, ma che si estende anche verso il math rock e il djent, acquistando consensi anche tra chi di solito è estraneo a questi generi. Prendete ad esempio il terzo lavoro di Sithu Aye in uscita il 4 maggio - chitarrista "one man band" di Glasgow che ha alle spalle anche diversi EP di cui uno split con Plini -, Set Course for Andromeda (questo il titolo) sarà un gigantesco doppio album che già dalla presentazione dei nomi coinvolti  - Mark Holcomb (Periphery), Aaron Marshall (Intervals), Yvette Young (Covet), Jake Howsam Lowe (The Helix Nebula), Stephen Taranto, Plini e David Maxim Micic (Bilo 2.0, Destiny Potato) - e dal pezzo di apertura da poco apparso su YouTube, appare un ghiotto antipasto per una futura indigestione di djent-fusion.



Di seguito potete leggere la tracklist e i relativi ospiti e nell'attesa, se ancora non lo avete fatto, potete andare a riascoltare i precedenti Invent the Universe (2012) e Cassini (2011).





www.sithuaye.co.uk

venerdì 1 aprile 2016

Altprogcore April discoveries


Quello che portano sul piatto gli He Was Eaten By Owls con il loro esordio Chorus 30 From Blues For The Hitchhiking Dead è quanto meno da segnalare per la sua radicale e personale punto di vista sul math rock. Il duo composto dal chitarrista Kyle Owls e dal batterista Vilius Kancleris mettono insieme nove tracce collegate come una suite e, al solito impianto di arpeggi e tapping scombinati e invenzioni soniche tra il post rock e il jazz sperimentale, aggiungono alcuni strumenti a fiato come tromba e clarinetto e un quintetto d'archi, sintetizzando il suono in ciò che si potrebbe definire chamber math rock. Un'esperienza musicale da provare sicuramente.




Se cercate un compromesso tra Tool, Karnivool e Isis senza però aspettarvi grandi sorprese, allora Serene dei norvegesi Delvoid potrebbe fare al caso vostro. Vedo che da altre parti se ne è parlato un gran bene, ma personalmente l'ho trovato monotono e ripetitivo, in una parola: noioso. Comunque ve lo segnalo ugualmente, sia mai che a voi faccia l'effetto opposto.




Non so se ricordate i Grammatics dato che pubblicarono un solo album e poi scomparvero dai radar. E' da qualche anno che l'ex frontman Owen Brinley ha creato un suo progetto chiamato Department M, realizzando alcuni singoli. Deep Control è appena uscito ed è il primo full length dove Brinley si occupa di tutti gli strumenti, lascinado Tommy Davidson alle percussioni e alla batteria.




Gli Orchards sono invece un quartetto math pop di Brighton dei quali ascoltai a suo tempo l'EP Constantly Moving che però non mi convinse del tutto per via della cantante che non possedeva una voce adatta a quell'ambito stilistico. Non so come sia andata, ma credo lo abbiano capito anche loro e adesso si sono ripresentati con un singolo nuovo di zecca e, guarda un po', con la nuova convincente voce di Lucy Evers. Peggy è un brano molto carino, un funky-math-pop che suona come un misto tra Signals. e Venkman.




Come ultime ho lasciato due band che sono in procinto di pubblicare i loro nuovi album e non mi soffermo molto poiché se ne varrà la pena approfondirò il discorso più avanti. I primi provengono dalla remota Nuova Zelanda, si chiamano Mice on Stilts e hanno alle spalle un EP intitolato An Ocean Held Me. Questo mese uscirà Hope for a Mourning dal quale è tratta Khandallah.




I secondi sono i Little Tybee di Atlanta, una band di virtuosi prog folk arrivata al quarto album che prenderà come titolo semplicemente il nome del gruppo. Una traccia tratta da Little Tybee è stata recentemente pubblicata su YouTube in versione live, mentre un'altra dal titolo More Like Jason la potete ascoltare a questo indirizzo. Se poi siete curiosi di ascoltare il repertorio precedente, la loro pagina bandcamp è questa http://littletybee.bandcamp.com/