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lunedì 18 gennaio 2016
Steven Wilson - 4 ½ (2016)
L'anno appena trascorso ha, nel bene e nel male, sancito il successo di Steven Wilson, eleggendolo il "re del prog moderno" con una consacrazione resa possibile grazie al suo peggior album come solista, che naturalmente è balzato in vetta alle classifiche di fine anno di quasi tutte le webzine di progressive rock in circolazione. Di Hand.Cannot.Erase. si è già detto qui, un album epigonico, povero di idee e privo di mordente, che però sembra aver fatto presa sul grande pubblico, più per quello che rappresenta - e cioè il culmine dell'ascesa di Steven Wilson come fenomeno di massa nel prog rock - che non per effettivi meriti artistici, dimostrato anche da un fanatismo ingiustificato (e francamente incomprensibile) che talvolta può offuscare giudizi imparziali. Come molte altre volte accaduto nella storia del rock, il plebiscito di consensi è in parte meritato frutto di un duro lavoro, in parte marketing. Il nome di Wilson è cresciuto nel tempo, ma il caso ha voluto che esplodesse nella sua fase meno interessante. Così non importa se Grace for Drowning o The Raven risultano artisticamente più rilevanti, Hand.Cannot.Erase. sarà da qui in avanti riconosciuto incondizionatamente come il suo capolavoro.
Bene, detto ciò arriviamo a questo EP di sei tracce (che comunque ha una bella durata di 37 minuti), denominato 4 ½ (poichè il suo compito è di traghettarci verso il quinto album di Wilson) che raccoglie quattro inediti scaturiti dalle sessioni di Hand.Cannot.Erase., uno da quelle di The Raven e, per finire, una solida versione live di Don't Hate Me (tratta da Stupid Dream) con ospite Ninet Tayeb alla voce, registrata durante l'ultimo tour europeo. Tra i musicisti presenti in questi pezzi ritroviamo quelli che hanno accompagnato Wilson ultimamente da Adam Holzman a Nick Beggs, Marco Minnemann e Guthrie Govan, fino a Dave Kilminster, Craig Blundell, Chad Wackerman e Theo Travis.
Quindi iniziamo con una domanda: può un EP di outtakes essere migliore del suo full-length-predecessore? Sì che può e non solo, la prima traccia My Book of Regrets da sola mette all'angolo l'intero Hand.Cannot.Erase. E a questo punto ci si chiede: come possono degli avanzi di studio superare quelle che sono state delle prime scelte? Forse la risposta va ricercata proprio nella loro natura di essere destinati virtualmente ad un album minore, posti in un angolo per filologi completisti, un EP dove ci si può permettere di rischiare e presentare del materiale fuori dai soliti schemi. Parlando di Wilson, però, questo non succederà, poiché ormai la sua figura di rilievo impone che tutto ciò che il "genio" produce deve necessariamente assumere un livello di primo piano. Per tale motivo 4 ½ non sarà diverso e credo andrebbe recensito e giudicato come un nuovo album da aggiungere a Hand., Raven, Grace e Insurgentes, proprio in virtù dello status di icona del prog che il personaggio Wilson ha conseguito.
Quindi dicevamo: My Book of Regrets nei suoi nove minuti abbondanti ci mostra un complesso in stato di grazia, una canzone che è divertente da ascoltare per tutti i suoi piccoli accorgimenti strumentali. Incasellati dentro ci sono le rifiniture dell'ottimo Kilminster, un bel basso bolso alla Yes, gustosi impasti di synth che si sposano con ottimi arpeggi di chitarra, ritmo da ballata funky con un gradevole ritornello che richiama l'antico brit pop anni '90. Anche Year of the Plague è uno dei pezzi strumentali più delicati usciti ultimamente dalla penna di Wilson. Dopo un intro ambient e aleatorio con piano elettrico, violino e un leggero mellotron, il pezzo prende l'avvio da un arpeggio acustico reiterato sul quale poi poggiano le fondamenta di tutta l'impalcatura di strumenti. In pratica è un'elegia poetica in musica, molto atmosferica e malinconica. Abbastanza trascurabile Happiness III che non nasconde la sua natura di ballata folk, arrangiata però come fosse un pezzaccio da rock FM. Sunday Rain Sets In e Vermillioncore sono altri due brani strumentali: il primo, con un paio di accordi depressivi e un mellotron, si accompagna ad un tema da film noir, trasformandosi in una sorta di soft muzak che sfiora atmosfere fusion, anche se non sono presenti assoli; il secondo punta su un groove di basso che accenna a delle arie malate come avveniva in molti punti di Grace for Drowning, infatti ci sono fratture elettriche improvvise e sintetizzatori spaziali e invasivi.
In breve, tutto sommato questi outsider potrebbero essere stati prelevati da qualche b-side dei Porcupine Tree e 4 ½ starà alla discografia di Steven Wilson come Recordings sta a quella dei PT. Materiale trascurabile? Forse in parte, ma c'è più voglia di progredire e qualche sprazzo di genuina lucidità qui dentro che su Hand.Cannot.Erase.
venerdì 11 gennaio 2013
STEVEN WILSON - The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) (2013)
Un lavoro, quindi, che vede fin da subito impegnata tutta la band e non il solo Wilson che a più riprese diluisce il tutto in varie sessioni di registrazione. Un modus operandi che probabilmente ha ravvicinato Wilson alla metodologia Porcupine Tree, anche se questo album, ancora una volta come successo per Grace For Drowning, prende le distanze dal suono degli ultimi porcospini. E questo è già di per sé un valore aggiunto, poiché si deve ammettere che questa "pausa di riflessione" che Wilson si è preso dalla sua creatura è stata una ventata d'aria fresca per il proprio repertorio, un ritorno alla genuinità della sua musica.
Come sappiamo Steven Wilson ha maturato negli anni un'autorevole tecnica in materia di lavoro in studio, quindi il coinvolgimento di Alan Parsons dietro il banco di regia non può che essere la ciliegina sulla torta per un'opera che sicuramente non avrebbe snaturato dal risultato finale. E' come una fotografia ben definita e messa a fuoco alla quale viene aggiunta una risoluzione ottimale.
La vera sorpresa è forse rappresentata proprio dalla presenza di un chitarrista virtuoso come Guthrie Govan. La chitarra è sempre stata uno strumento centrale nella musica di Steven Wilson che raramente ha coinvolto in studio altri chitarristi oltre a lui. Tuttavia Wilson tiene a freno l'esuberanza di Govan ed è proprio quest'ultimo che comprende e sa calarsi, adattandosi, in un ambito progressive distante, ma non poi così tanto, dalla sua fusion.
Detto questo, The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) può essere considerato il proseguimento naturale di Grace For Drowning? Sicuramente si. Le recenti influenze crimsoniane, le pieghe dai sapori jazz rock e le mutuazioni dal prog anni '70 sono ancora tutte qui, protagoniste indiscusse di un nuovo colpo da maestro di Wilson. Delle sei tracce che compongono l'opera, le tre che superano i 10 minuti hanno un impatto semplicemente devastante. Esse danno l'impressione di essere delle jam strumentali alle quali sono state aggiunte delle parentesi cantate. Prese sotto questo aspetto, la sola potenza delle sezioni strumentali è tale da spazzare via dieci anni (e forse anche quindici) di rock progressivo moderno, che sia neo-sinfonico-metal o quello che volete voi. Qui non ce n'è per nessuno: inchinatevi di fronte a Steven Wilson, è lui il Re del prog e ce lo ribadisce con tre pezzi dalla statura immensa. Una grossa parte del merito, non dimentichiamolo, va anche ai musicisti che Wilson ha avuto la lungimiranza di coinvolgere, aggiungendo delle parti soliste ineccepibili. Gli altri pezzi sono a modo loro interessanti, ma non altrettanto imponenti, facendo di The Raven un album bello e intenso, ma comunque non propriamente perfetto.
In Luminol (già presentata in anteprima nell'ultimo tour) il corposo muggito del basso di Beggs è la colonna portante di buona parte dell'impalcatura su cui poggiano il pezzo e il nervoso riff principale. La parte strumentale si spiega tra progressioni di accordi chitarristici e febbrili fraseggi di piano elettrico. A circa 1/3 del brano tutto si placa ed entra in scena il cantato di Wilson in perfetto "Porcupine Tree style". Questo tema è utilizzato anche per un gustoso assolo di piano molto jazzy. Poi, in un crescendo di chitarre elettriche e mellotron, fa capolino l'ombra dei Genesis, una band la cui influenza non ha mai rivestito un ruolo rilevante nell'estetica wilsoniana e che ritroveremo altrove in questo disco.
The Holy Drinker è forse il pezzo migliore della collezione, i groove del piano elettrico imbastiscono un'atmosfera dark e da rock classico. Nella parte strumentale si trova di tutto: mellotron e solismi di sax e flauti crimsoniani (più virtuosi che mai), l'organo solenne degli ELP e quello sepolcrale dei Van der Graaf. The Holy Drinker è un po' la Remainder the Black Dog di The Raven, ovvero la traccia che fa uscire il progger di razza che è in Wilson.
Altro pezzo da brividi è The Pin Drop, breve ma intenso - sorvolando sul fatto che l'arpeggio principale è molto simile a quello di Water Under the Bridge di Kevin Gilbert. La voce di Wilson canta inusualmente su un registro per lui più alto del solito, la sezione ritmica irrompe in modo ossessivo a turbare la calma apparente e quello che si può definire il ritornello è preceduto prima da un solo di sax soprano, poi di chitarra, entrambi strepitosi nel dare un alone catartico a ciò che viene dopo.
The Wacthmaker inizia con una chitarra acustica arpeggiata dal sapore vittoriano, ritornando con più convinzione ad un palesissimo omaggio ai Genesis. E' una ballata dalle tinte nostalgiche che passa dalle parti di The Musical Box e Can-Utility and the Coastliners e di nuovo da quelle del Kevin Gilbert di Tired Old Man. Come da copione il brano si anima nell'intermezzo, nel quale si cela la stessa cadenza blues di Money dei Pink Floyd, con un Govan finalmente libero di sfogarsi in un assolo micidiale. La seconda parte cambia impostazione e diventa un'ariosa ballad per pianoforte, concludendosi in modo antitetico all'apertura: dura e quasi apocalittica, con chitarra distorta e mellotron angoscioso.
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Drive Home e The Raven That Refused to Sing sono invece dei brani più ordinari, delle ballate malinconiche che sembrano uscite dal repertorio dei Blackfield. La prima, che si trascina in maniera abbastanza moscia, raggiunge il suo apice nell'assolo finale di chitarra. La seconda, presentando un tema di piano con una progressione reiterata, dà la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande o la coda di una suite, andando anch'essa a crescere in un climax dalle sfumature estatiche e liberatorie.
Ho dimenticato di dire che il tema su cui è incentrato The Raven That Refused To Sing (and Other Stories) sono vecchie storie di fantasmi e che la cover ad opera di Hajo Mueller (che per questa volta ha rimpiazzato all'artwork Lasse Hoile) è proprio bruttina. Ma non fa niente, ciò che importa è il contenuto.
Tracklist:
1. Luminol 12:10
2. Drive Home 7:37
3. The Holy Drinker 10:13
4. The Pin Drop 5:03
5. The Watchmaker 11:43
6. The Raven that Refused to Sing 7:57
http://stevenwilsonhq.com/
domenica 21 ottobre 2012
Steven Wilson dream team line-up e nuovo album
Un breve commento sul nuovo album di Steven Wilson. Come saprete il musicista è attualmente impegnato a Los Angeles per registrare il successore di Grace for Drowning insieme al leggendario produttore Alan Parsons. Wilson ci fa sapere che le registrazioni sono appena iniziate con il pezzo Luminol, l'inedito presentato durante l'ultimo tour e presente nell'imminente DVD Get All You Deserve.
Ma la notizia più bella, secondo me, è rappresentata dalla line-up davvero da sogno che Wilson è riuscito a mettere insieme. Oltre a Nick Beggs, Theo Travis, Adam Holzman e Marco Minnemann (che hanno accompagnato Wilson in tour), si è aggiunto il talentuoso chitarrista Guthrie Govan che con Minnemann (e Bryan Beller) ha già condiviso il funambolico trio The Aristocrats. La curiosità di tale sodalizio viene dal fatto che Wilson non si era mai misurato finora con un chitarrista dalle caratteristiche come Govan, noto virtuoso dello strumento. Wilson ha sempre preferito atmosfere, diciamo, dilatate e che prediligono paesaggi sonori privi di cascate di note. Forse imporrà a Govan un metodo di lavoro differente per tenere a freno la sua esuberanza, o forse lo lascerà libero, vedremo. L'album come è noto uscirà il prossimo anno, ma da tali premesse c'è da aspettarsi grandi cose.
edit: 18/09
beh, direi che la seconda parte risponde alla mia curiosità su Govan.
edit: 21/10
Oltre ad aver pbblicato altri video estratti dalle registrazioni in studio (ora terminate) Steven Wilson ha aggiornato le news riguardanti il prossimo album, il tour europeo e un nuovo sito web:
Recording for the next Steven Wilson album has wrapped in Los Angeles, and you can see clips of the recording sessions (still being added to) over on the official SW YouTube page.
There is still some work to do before work is complete, but the provisional track listing (subject to change) for the as yet untitled album is as follows:
1. The Holy Drinker (10.00)
2. Drive Home (8.00)
3. Luminol (12.00)
4. The Watchmaker (12.00)
5. The Pin Drop (5.00)
6. The Raven That Refused to Sing (8.00)
The album will be released towards the end of February on KScope in an array of formats (including a very special deluxe edition) and will contain 5 or 6 lengthy pieces. The line up on the album is SW (vocals, guitars, keyboards), Guthrie Govan (lead guitar), Adam Holzman (piano, Fender Rhodes, Hammond organ, Moog), Theo Travis (flutes, saxes), Nick Beggs (bass guitar, stick), Marco Minnemann (drums). The sessions in LA were engineered by legendary producer / engineer Alan Parsons.
http://stevenwilsonhq.com/
domenica 29 gennaio 2012
The Aristocrats e Guthrie Govan

Essendosi conquistato un posto ragguardevole nella classifica di fine anno di Altprogcore, penso che l'omonimo album d'esordio degli Aristocrats meriti due parole. The Aristocrats è un trio formato dal bassista Bryan Beller (collaboratore di lunga data di Mike Keneally), dal batterista Marco Minnemann (anche lui con Mike Keneally e poi Eddie Jobson e Adrian Belew) - che sta riscuotendo una fama crescente grazie a Steven Wilson che lo ha voluto nel suo tour come solista - ed infine dal chitarrista Guthrie Govan (già con Asia e poi GPS). Dei tre, quest'ultimo, era quello a me meno noto, ma che, alla fine, ha stupito di più.
Il trio suona una fusion chitarristica riconducibile ai più famosi colleghi Steve Vai e Joe Satriani. Diciamo che in tale ambito il picco creativo fu toccato proprio da questi due tra la fine degli anni '80 e la prima metà degli anni '90. Dopodiché il genere si è evoluto a malapena con chitarristi ingessati, soprattutto a livello sonoro, che a stento sono riusciti a rinnovare la propria formula. Ad esempio gli unici due concerti di Steve Vai a cui ho assistito li ricordo tra i peggiori a cui abbia mai partecipato, con il chitarrista impegnato più nel dare risalto alla forma e all'estetica che non alla sostanza (sintomo di una cronica mancanza di idee?). In pratica si è venuta a creare una sorta di staticità che ha intrappolato i suddetti nei loro cliché virtuosistici.
Quindi capirete con quale spirito scettico mi sono avvicinato a The Aristocrats, convinto che ormai questo filone avesse esaurito il suo percorso. E invece ho trovato tre musicisti d'alta classe e in Govan ho rilevato uno stile versatile e inventivo, che mi ha stupito e invogliato a saperne di più. In effetti il suo estro funziona ancora meglio su Erotic Cakes, l'esordio come solista del 2006.
L'album, sebbene abbia avuto un successo relegato credo al solo circuito dei fan del genere, merita molto, molto di più. Esso, oltre a rappresentare una pietra miliare di shred guitar e fusion, andrebbe incorniciato accanto ad altri classici come Surfing with the Alien (1987) e Passion and Warfare (1990). Eroric Cakes è un capolavoro che riesce nell'improbabile e difficilissimo compito di risvegliare dal torpore una scena chitasrristica ormai troppo uguale a se stessa.

Quello che mi ha stupito dei due album presi qui in esame è la loro scorrevolezza, i brani sono essenziali, non si dilungano eccessivamente e in pochi minuti riescono ad esporre ciò che altri farebbero in 15 o venti minuti. Eppure, nella sua essenzialità, la ricchezza, la fantasia e l'inventiva sono le vere risorse di un lavoro come Erotic Cakes. Govan non vuole solo suonare per il piacere di farlo, ma vuole intrattenere l'ascoltatore e in questo è un maestro.
The Aristocrats - Sweaty Knockers by Abortion Factory
Waves - Guthrie Govan (Erotic Cakes) by evetke
Guthrie Govan - Wonderful Slippery Thing by sfrdmrc
Guthrie Govan - Fives by jrhetf4xb
http://the-aristocrats-band.com/
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