Ormai credo che, arrivati al terzo album con questo Radiant Bloom, non ci sia più bisogno di presentazioni per la peculiare formula degli Astronoid. Così come il primo album Air apportava una boccata d'aria fresca (appunto) per il genere metal, inteso nell'accezione più ampia possibile di tutte le sue sottovarianti, il secondo omonimo segnava un po' il passo, come a certificare un prematuro logoramento della formula. Per questo motivo, dopo l'entusiasmiamo iniziale per Air, non aspettavo proprio con trepidazione questo nuovo lavoro.
Eppure devo dire che con Radiant Bloom la band è riuscita a migliorarsi e rigenerarsi rispetto alla preoccupante stagnazione mostrata da Astronoid. Cosa è cambiato quindi questa volta? Il thrash spaziale inondato da fontane zampillanti rifrazioni elettriche shoegaze e le distintive voci esilmente acute del chitarrista Brett Boland sono ancora qui a darci il benvenuto in un metalgaze che si culla in soavi costellazioni dream pop. In un certo senso però Radiant Bloom ritrova lo slancio dell'esordio, grazie a dinamiche e melodie più incisive, che riescono a schivare il rischio di appiattire e rendere monotono un intero album costruito su assalti di pop thrash con vocine alla Mew (si ascoltino gli ultimi due minuti di Human che, con quelle tastiere ad incrementare il muro sonoro, sembrano uscire fuori direttamente da And the Glass Handed Kites).
Ciò che emerge da questa ritrovata identità è proprio una presa di coscienza indirizzata verso il senso dell'orecchiabilità pop che in questa sede viene accentuata e che va ad impattare come un'onda d'urto, ripiena degli impasti impalpabili tipici dei Cocteau Twins, su pezzi come Sleep Whisper e I've Forgotten Your Face. Poi è sempre curioso spingere al limite questo connubio di forze stilistiche contrastanti, di poli opposti, e vedere fino a quale punto di rottura possa arrivare, tipo quando si approda alle tiratissime ritmiche di Sedative o al tenere il piede in due staffe di Orchid, che oscilla di continuo tra lo spingere fortissimo e l'ammaliare con dolcezza.
Detto con molta semplicità, la differenza di cui si fa carico Radiant Bloom è quella di emanare luce per trasformarla in tanti colori, come fa il prisma. Air e Astronoid nel loro insieme avevano delle prerogative tendenti al plumbeo, Radiant Bloom invece a livello musicale è l'album più solare e vivace della band, anche se ciò non vale a dire che sia il migliore dei tre, ma rimane comunque un'affermazione di intenti molto convincente.
Circa tre anni fa per recensire l'impressione positiva avuta con Air, il debutto degli americani Astronoid, mi dedicai ad un'introduzione dove cercavo di spiegare la dissoluzione di ipotetiche barriere tra generi, vista la singolarità di una band che prendeva dei prototipi strumentali thrash metal e vi aggiungeva delicate voci dream pop che davano un tocco ultraterreno a dei riff sanguigni. Come prendere due estremi e abbinarli.
E' quasi ovvio che con il secondo album dal titolo omonimo quell'effetto sorpresa sia andato inevitabilmente perduto. Quello che gli Astronoid stessi definiscono "dream thrash" porta alle estreme conseguenze il lavoro di gruppi come Alcest e Deafheaven aggiungendoci sognanti voci alla Mew. Astronoid inizia proprio sui passi di Air con gli apripista I Dream in Lines e A New Color, ma questa volta la band sembra aver voluto puntare su una produzione più pulita, dando alle eteree linee vocali di Brett Boland un alone più terreno, ponendole con maggiore nitidezza nel mix.
Fortunatamente il gruppo si dedica poi a provare qualcosa di differente per cambiare traiettoria. Nella scaletta che arriva dopo Lost, una ballad psichedelica che ha a che fare più con lo shoegaze che con il metal, gli Astronoid decidono di mettere da parte le assillanti ritmiche del thrash e le vibrazioni del djent e rivestire tutto con imponenti accordi elettrici che illuminano da parte loro il lato quasi da arena rock della band: se potreste immaginare una versione pop rock di Traced in Air dei Cynic probabilmente avreste una vaga idea di ciò che vi aspetta nelle cavalcate del trittico Fault, Breathe e Water.
Al che, dopo questa sentenza, immagino già qualcuno storcere la bocca, ma in sostanza gli Astronoid sono questi, prendere o lasciare, lo stesso sound intransigente di Air che può convincere o meno è presente anche su Astronoid, solo presentato con minor incisività nelle invenzioni melodiche come appare su Beyond the Scope. I Wish I Was There While the Sun Set è l'apice di questo processo dove i cori che si aprono a grandi spazi sembrano una versione sbiadita delle tracce di Air. L'attenuante però questa volta ci sta tutta ed è più che giustificata in quanto, dopo un'opera prima così peculiare, non era semplice tornare a dei livelli di eccellenza, prendendo pure in considerazione il lusso di superarsi senza ripetersi. Bravi comunque.
Quando ti vengono in mente i paragoni più distanti tra loro nei quali racchiudere un'unica band, si palesa il pensiero di come la concezione di genere stia sempre più tramontando in favore di molteplici sfumature senza confini. In altre parole, al netto di praticità, è sempre più frequente l'uso di termini compositi per descrivere un singolo gruppo e, in tal senso, più distanti risultano questi generi, maggiori sono le possibilità di apparire freschi e nuovi. Proseguendo il discorso che cercai di abbozzare presentando gli Stage Kids, sembra che il futuro e la missione della popular music* contemporanea non sia reinventare se stessa, ma progredire attraverso la contaminazione.
(*Piccola parentesi: attenzione al termine popular music che non è un sinonimo di "pop music" ma, come molti musicologi sottolineano, generalmente indica l'inclusione di tutte quelle musiche di consumo popolare che non siano musica classica (o colta che dir si voglia) e musica etnica.)
A partire dagli anni '50, con l'avvento del rock and roll e proseguendo poi nelle sperimentazioni di fine anni '60/inizio anni '70, molti generi erano ancora inediti e definirono lo loro genesi, poiché prima non esisteva nulla di tutto ciò: psychedelic rock, hard rock, progressive rock, heavy metal e così via. In sintesi, nel passato per comprendere l'appartenenza ad un dato movimento rock bastavano peculiarità semplici, ma distintive. Con il passare del tempo abbiamo assistito alle fusioni e ai termini più disparati in ogni ambito rock come chamber pop, post rock, jazzcore, prog metal, fino ad arrivare agli assurdi e fantasiosi abbinamenti inventati dalle stesse band nelle proprie pagine Facebook.
Quindi, a quale cambiamento possiamo ambire se è già stato tutto sperimentato? Eppure, l'unione degli opposti estremi, ha aperto nuove interessanti possibilità. Il progressivo sgretolarsi di molte barriere che ha portato all'incontro tra generi apparentemente inconciliabili credo abbia dato l'occasione di andare oltre la semplice definizione di sottogenere. Prima si è partiti con l'unire la progenie del punk - il post hardcore - con il progressive rock e nel presente si è arrivati a capire che nessuna contaminazione è più un tabù: il math rock ha trovato un suo completamento molto naturale nel jazz; il djent, partito dalle premesse più estreme del metalcore, è arrivato a combinarsi con le eteree forme divergenti dell'ambient e, nel frangente strumentale, con la fusion. Non è un discorso scontato, perché nell'immenso ed eclettico panorama
musicale non è semplice riconoscere chi si distingue in questo senso,
ancora non sono in molti a cimentarsi in quel salto che porti oltre
il sottogenere, ma penso che l'assenza di inibizioni e la
spregiudicatezza con la quale una band potrà accostarsi a vari generi,
può fare veramente la differenza nella ricerca dell'originalità.
Ad esempio, gli Astronoid si sono messi alla prova in un debutto tutto considerato controverso che, per i detrattori, apparirà come una pratica da derubricare all'interno del death metal per hipster, ma che, per chi non ha problemi con i limiti concessi dai generi, Air - questo il titolo - potrebbe mandare in pensione anticipata in un colpo solo Deafheaven e Alcest, solo per fare due nomi a caso. Usando un'estetica tipicamente blackgaze e thrash metal, gli Astronoid mettono da parte growl e harsh vocals, vi inseriscono esclusivamente vocalità riverberate e con toni elevati, quasi ai confini tra Yes e Mew (ascoltare il finale di Tin Foll Hats), con forti accenti dreampop e con una resa globale molto simile ai coaguli elettro-spaziali dello shoegaze. Come al solito, coloro che potrebbero storcere il naso sono i puristi ma, se c'è una cosa che questo articolo e questa direzione ci vuole insegnare, è che il purismo è la madre di tutte le cazzate.
Partiti con due EP che facevano intravedere l'ombra dei Cynic tra i punti di riferimento, gli Astronoid hanno pensato bene di rendere il loro sound più personale. Come conseguenza, l'ascolto di Air è un'esperienza piuttosto singolare, in quanto si viene travolti dalle scariche di riff a mitraglia e doppia grancassa - come se dietro ci fosse un gruppo che emula Devin Townsend, Voivod e Vektor - tanto da aspettarsi un approccio brutale e aggressivo da parte di tutta la band. Invece entrano in gioco queste voci estremamente melodiche e ai limiti del dreampop angelico, creando un contrasto da corto circuito. Ed è proprio qui che sta il trucco: il superamento del sottogenere come deviazione dal filone principale si compie attraverso un proprio sviluppo che consente l'interazione tra stilemi opposti, non limitandosi a mera estetica bipolare, ma modificandone i connotati per creare qualcosa di inedito. Il metal, inoltre, in questo caso funziona bene come esempio poiché è uno di quei generi che è stato sottoposto a qualsiasi tipo di rimaneggiamento, eppure gli Astronoid, che piaccia o meno, hanno escogitato per esso una nuova possibilità proprio attuando l'azione dei poli contrastanti che si incontrano. Ciò che in pratica distingue Air da tutte le ramificazioni metal di cui sopra è il non fermarsi alla superficie per privilegiare come sempre solo l'aspetto metal, ma accentuare in parti uguali gli stilemi dai quali prende spunto e si ciba. Non c'è nulla di subordinato in Air, la componente dream/shoegaze è importante tanto quanto quella thrash metal.