giovedì 29 settembre 2016

Promenade - Noi al dir di Noi (2016)


Quando si ha a che fare con l’opera prima di un gruppo di giovani musicisti è comprensibile accostarsi ad essa con un certo spirito di curiosità e indulgenza, pensando che in futuro potranno avere la possibilità di crescere ancora. Nel caso dei Promenade tutte le riserve del caso vengono meno poiché Noi al dir di Noi ha già il sapore di un lavoro maturo, rifinito al minimo dettaglio e che colpisce per il suo grado di preparazione musicale. In effetti, i quattro ragazzi genovesi hanno tutti alle spalle studi di Conservatorio e l’indirizzo stilistico da loro scelto non è certo dei più agevoli. Infatti non ci troviamo di fronte al classico progressive rock italiano, anche se naturalmente ci possono essere dei richiami al cantautorato sinfonico (diciamo così) degli anni ’70, ma i Promenade complicano la formula deragliando su sonorità fusion e strade che collimano con l’improvvisazione e con il jazz.

L’apertura della strumentale Athletics, proprio come suggerisce il titolo, si dedica ad uno sfoggio di muscoli con una schizofrenia formale e una frenesia esecutiva degne delle jam degli Echolyn prima maniera. Non siamo molto lontani dai vezzi stilistici barocchi dei Gentle Giant in Roccocò, anche se i Promenade si prendono il merito di realizzare le imprevedibili svolte tematiche senza cadere nella trappola della nostalgia. Ad esempio, nelle delicate trame de L’Albero Magico e nei fraseggi jazz rock di Kernel, ecco apparire anche le lande grigiorosa di Canterbury, ma il gruppo si permette di amalgamare un sound personale nei suoni puliti, liquidi e riverberati del basso di Scarella, della chitarra holdsworthiana di Gianluca Barisone e del piano elettrico di Matteo Barisone, dove, ancora Scarella, aggiunge i suoi passaggi di sax. L’impostazione fusion è ben salda e presente in ogni brano, tanto che la difficile adesione tra musiche e testi fa pensare ad un lavoro disgiunto tra le due parti, come nelle evoluzioni di Pantera (non so se il titolo sia una coincidenza o un voluto tributo agli indimenticati D.F.A.). Non mancano due brani dall'impostazione più ambiziosa nelle vesti delle mini-sinfonie Il Secondo Passo e Crisantemo, nelle quali la prominenza della sezione di archi aggiunge un tono orchestrale ad ampio respiro. La prima sfida è quindi vinta a pieni voti, mostrandoci un gruppo sicuro, conscio dei proprio mezzi e un album che è tra le migliori uscite prog di quest’anno.


lunedì 26 settembre 2016

Thank You Scientist live @ Audiotree


Per chi si chiedesse come suonano dal vivo i Thank You Scientist e non ha mai avuto modo di ammirarli, soprattutto noi del pubblico europeo, ecco una parziale ricompensa con il live registrato lo scorso 29 agosto presso gli studi Audiotree, suonando per l'occasione tre canzoni tratte dall'ultimo album Stranger Heads Prevail e una da Maps of Non-Existent Places. Come sempre è anche possibile acquistare la versione audio tramite Bandcamp.




venerdì 23 settembre 2016

Skyharbor - Chemical Hands (single, 2016)


Dopo aver presentato il nuovo cantante Eric Emery in sostituzione del dimissionario Daniel Tompkins, gli Skyharbor non avevano perso tempo e, durante il 2015, hanno immediatamente realizzato due singoli inediti, Blind Side e Out of Time, per mostrare le doti di Emery. Ora ecco che arriva il primo video ufficiale del terzo singolo Chemical Hands con il quale la band annuncia la pubblicazione del nuovo album prevista per febbraio e un tour europeo a ottobre.






http://skyharbor.band/

mercoledì 21 settembre 2016

Introducing: Mouse on the Keys


A dire il vero, posso anche presentarli adesso, ma il trio giapponese Mouse on the Keys è insieme dal 2006, quindi da ben dieci anni e, naturalmente, ha già un paio di album alle spalle e qualche EP. Il gruppo consiste nei due pianisti Akira Kawasaki e Atsushi Kiyota, provenienti dalla band underground Nine Days Wonder, e nel batterista Daisuke Niitome. Della loro esistenza vengo a conoscenza solamente ora che hanno in cantiere una pubblicazione con la label indipendente americana Topshelf Records. Si tratta di uno split EP di quattro tracce condiviso con i LITE in uscita il 21 ottobre e dal quale potete ascoltare due estratti:




Sulla stessa scia di altre band catalogate come nu jazz e presentate su altprogcore nel corso del 2016 - tipo GoGo Penguin, Mammal Hands, Roller Trio e Greg Spero -, anche i Mouse on the Keys si possono ritenere inclusi in una scena jazz alternativa che sempre più spesso fonde minimal music, post rock, elettronica e math rock. Incuriosito dal brano incluso nell'EP sono andato a sondare il loro ultimo LP che risale al 2015 dal titolo The Flowers Of Romance. Non sono rimasto deluso dato che l'album può considerarsi una riuscita miscela tra avanguardia jazz minimale, progressive rock e elettronica. Si sentono echi in egual misura di Soft Machine (come nella seconda metà di The Lonely Crowd con l'intervento del sax) e di musica classica (per i più attenti nella conclusiva Le Gibet è contenuta anche la stessa piccola citazione del brano Gaspard De La Nuit di Maurice Ravel che era alla base di Unravel tratta da Effloresce degli Oceansize).



http://mouseonthekeys.net/

mercoledì 14 settembre 2016

Altprogcore September discoveries, part 2: focus on Voice Coils, Crying, Doppelganger, Sleep Token


Mentre è già in preparazione l'edizione di scoperte per il mese di ottobre, mi sono ritrovato negli ultimi giorni a dover fare i conti con una tale quantità di valide band che ho deciso di dedicare un mini speciale focalizzato su quattro di queste al fine di evitare un sovraccarico di proposte che potrebbero passare inosservare e dare quindi loro il giusto risalto.

La prima band di cui voglio parlarvi sono i Voice Coils che hanno realizzato l'EP Heaven's Sense e un singolo di due tracce nel 2015 e nel 2014 rispettivamente. Il progetto nasce dall'unione di un collettivo di musicisti con alle spalle la militanza in band già note nell'ambiente alternativo di Brooklyn: Sam Garrett e Caley Monahon-Ward (Extra Life, Feast Of The Epiphany), Kelly Moran (Cellular Chaos), Kevin Wunderlich (Epistasis, Couch Slut) e Cameron Wisch (Porches). Alla voce abbiamo invece nientemeno che Mitski Miyawak, cantautrice ultimamente molto apprezzata come solista nella scena indie e il cui ultimo lavoro, Puberty 2, sta riscuotendo molti consensi. Ma torniamo ai Voice Coils nella speranza che la gran bella impressione che hanno suscitato in me venga colta anche da voi. Il gruppo suona un progressive rock avant-garde che potrebbe rientrare senza problemi nella sfera del Rock in Opposition, accostandosi a quelle band contemporanee che nel tempo hanno modernizzato le tortuose composizioni degli Henry Cow e Art Bears. Penso in particolar modo ai Thinking Plague con l'aggiunta di un senso del gotico simile a quello dei defunti Time of Orchids. Anche se viene utilizzata la classica strumentazione da rock band, già nella sorprendente An Atrium si percepisce una volontà di arrangiamento da chamber rock nella stessa prospettiva degli ultimi Kayo Dot.




Come bonus ecco un bel video playthrough per An Atrium realizzato dal batterista Cameron Wisch e il pezzo, devo aggiungere, risulta davvero impressionante nei suoi continui cambi repentini di armonia e ritmica.



Se c'è una canzone che in questi giorni non riesco a smettere di ascoltare quella è Revive dei newyorkesi Crying. Lanciata come singolo per il nuovo album Beyond The Fleeting Gales, in uscita il 14 ottobre, in meno di due giorni ha racimolato 3.800 ascolti su Soundcloud, almeno 200 dei quali penso siano i miei. Con alle spalle due EP di chiptune power pop dall'estetica lo-fi, il trio composto da Ryan Galloway (chitarra), Nick Corbo (batteria) e Elaiza Santos alla voce è pronto a fare il grande salto esordendo per l'etichetta Run for Cover Records. Galloway riporta come influenza primaria durante la stesura dell'album i Rush e il rock arena degli anni '80 che si fondono in un pastiche di AOR anomalo con dentro spore di Van Halen, REO Speedwagon, ma anche di Journey e del rock vintage/sperimentale degli Stereolab. Queste sono le tre canzoni pubblicate sinora tratte da Beyond The Fleeting Gales.





Questo EP di quattro tracce del quartetto inglese Doppelganger, anche se risalente al 2014, è assolutamente da segnalare per la sua lucida potenza e perfetta sintesi tra generi, posizionandosi a metà strada tra un poderoso post hardcore, con rocciosi riff ai limiti dello stoner, e un math rock di scuola americana con una menzione d'onore per il brano Hours/In My Head.



Gli Sleep Token sono invece una novità assoluta nel panorama post metal e che hanno appena esordito pubblicando il seguente singolo Thread the Needle, un misterioso brano dai toni dark che, nei suoi oltre sei minuti di durata, parte con un carattere atmosferico malinconico e pacato, interrotto solo dall'irrompere di una parte più massicciamente metal. Di loro per ora non è dato sapere nulla, a parte che sono inglesi e qualche voce di corridoio dei soliti ben informati che inquadra i membri come personaggi conosciuti nell'ambiente progressive metal/djent. Vedremo se con un'uscita più consistente, tipo un EP o un full length, gli Sleep Token decideranno di svelare la loro identità.


martedì 13 settembre 2016

TesseracT - Errai (2016)


Per i TesseracT il terzo album Polaris è stato un punto di svolta coraggioso. Se devo dire il vero, leggendo ancora oggi le critiche in giro per il web, non è un lavoro che è stato molto amato e in tanti gli preferiscono Altered State. Questo scetticismo credo sia stato alimentato dal progressivo allontanamento del gruppo da canoni estetici metal in favore di sonorità più eteree e articolate. Ad ogni modo, paradossalmente, con Polaris i TesseracT hanno tracciato una nuova via per il djent, maggiormente incline al post prog di casa Kscope (la loro etichetta discografica), ma adattandosi ad una veste sonora che dona loro un'identità personale e sperimentando con rischio come i Karnivool fecero a loro volta con il metal su Asymmetry.

L'EP Errai, in uscita il 16 settembre, ripropone quattro tracce "ri-immaginate" tratte da Polaris, ovvero Survival, Cages, Tourniquet e Seven Names. I TesseracT non sono nuovi a questo tipo di esperimenti, già tentati in passato con l'altro EP Perspective, sempre concentrandosi su atmosfere più leggere e acustiche, una prova che il gruppo è sempre più attratto dalle possibilità trasversali che offre la propria musica. E infatti, nella loro rilettura, i TesseracT accentuano quella che in Polaris era divenuta la novità da esplorare, cioè l'associazione ad impalpabili atmosfere ambient e new age che si frapponevano di contrasto ai riff di chitarra distorti. Su Errai le tastiere, con lunghi e spaziosi tappeti, prendono il sopravvento sulla chitarra, mentre la batteria si sposa in modo indolore con ritmiche elettroniche, anche se la vera protagonista rimane la voce di Daniel Tompkins che si lancia in un vero tour de force melodico. Sarebbe curioso ascoltare questo trattamento su tracce inedite e chissà che il prossimo album non si dedichi ancora di più a tale aspetto.



Errai, oltre che separatamente, sarà disponibile allegato ad una nuova versione di Polaris e, per l'occasione, la band ha condiviso il nuovissimo video di Hexes.


giovedì 8 settembre 2016

The Dear Hunter - Act V: Hymns with the Devil in Confessional (2016)

 

A solo un anno di distanza da Act IV, Casey Crescenzo ha stupito tutti con l'annuncio, lo scorso giugno, dell'arrivo del quinto capitolo della sua saga. La ragione di tale rapidità consequenziale è presto detta, è stato infatti rivelato che i due Act IV e Act V sono stati registrati in contemporanea il che stupisce ancora di più se si pensa alla mole di lavoro convogliata in trenta brani per una durata complessiva di circa 145 minuti. Un fiume in piena d’ispirazione quindi. Il fatto poi che Crescenzo abbia dichiarato laconicamente che Act V sarà l'ultimo album “rock” della serie fa presumere che da parte sua ci sia stato il bisogno di concludere al più presto il lungo percorso degli "Acts" e dedicarsi a qualcosa di musicalmente differente. In fondo, l'impegno che si è assunto Crescenzo fin dall'inizio va avanti ormai, con qualche pausa, da dieci anni esatti e l'epilogo di Act VI (a questo punto più simile ad una postilla) si preannuncia una conclusione in grande stile. Nessuno sa ancora di cosa si tratta, ma sicuramente il progetto non si limiterà alla sfera musicale. Forse sarà un film che narrerà tutta la storia? O più probabilmente una completa graphic novel, di cui il primo atto è stato appena realizzato e associato al “mega bundle” del preordine di Act V (per chi lo avesse perso niente paura, sarà in vendita separatamente molto presto).

A livello narrativo avevamo lasciato il Ragazzo (The Boy) di ritorno dalla I Guerra Mondiale e, presentandosi con la nuova identità del suo fratellastro morto in battaglia, viene eletto sindaco nella città dalla quale in passato era scappato e ora divenuto una pedina nelle mani della sua nemesi, il pappone/prete (The Pimp/The Priest) che è l'unico a conoscenza del suo segreto, costringendolo con il ricatto a diventare suo socio in loschi affari. La trama che si sviluppa nell’ultimo capitolo è a dir poco avvincente, ricca di colpi di scena, metafore sul tradimento, il riscatto e la redenzione, lasciando spazio a interpretazioni personali, ed è forse la più complessa messa in scena congegnata finora da Crescenzo (senza stare a svelare il finale, troverete nel booklet anche una specie di parabola legata al brano The Most Cursed of Hands). Rimane da capire che cosa aggiungerà al racconto la postilla di Act VI, dato che Act V si conclude con le parole “A new beginning’s waiting patiently...”. Chi credeva che Act V sarebbe stato, in termini di stile, un album gemello di Act IV in parte rimarrà stupito poiché, proprio come la storia, la musica prende una piega ancor più articolata, esoterica e piena di toni chiaroscuri. Come per Act IV abbiamo di nuovo l’ausilio della Awesöme Orchestra che accompagna molti dei brani, immediatamente utilizzata al meglio nell’introduttiva Regress (che per il protagonista è presagio di ciò che lo aspetta). In più, Crescenzo si fa largo tra altre nuove commistioni stilistiche di raro gusto e da vero intenditore.

Il pensiero corre al Black EP di The Color Spectrum negli attacchi elettronici e sincopati di The Moon/Awake, un brano che si dipana in un vorticoso e imponente chorus orchestrale, un’idea di arrangiamento su grande scala che si approfondisce nello scorrere dell’album e nei segue (transizioni) che si frappongono tra un brano e l’altro, raggiungendo l’epitome sinfonica in Melpomene, come avveniva per Remebered contenuta su Act IV. Più volte ho rimarcato come la musica concepita da Crescenzo dovrebbe vivere anche di una dimensione visiva e sarebbe perfetta per un allestimento teatrale, trovando molti parallelismi con il mondo del cinema. Proseguendo, infatti, troviamo Cascade che si fregia di un soft jazz mutuato dalle colonne sonore di Riz Ortolani e dal chamber pop di Burt Bacharach, poi di seguito The Most Cursed of Hands/Who Am I, un hard country che sembra tirato fuori da un western moderno di Tarantino ed infine la più teatrale di tutte The Revival, un rockabilly da musical d’altri tempi. Alcune volte, in passato, Crescenzo ha utilizzato lo stratagemma di associare un tema ad un determinato personaggio e, ritrovandosi qui ad introdurne uno nuovo (il mellifluo Mr. Usher), ricorre parallelamente ad uno stile relativamente inedito per lui come lo swing jazz alla Tony Bennett su Mr.Usher (on His Own Way to Town). The Haves Have Naught ricorre addirittura, per la prima volta, ad un duetto per sottolineare il dialogo tra il Ragazzo (Crescenzo) e The Pimp/The Priest, interpretato per l'occasione dall’ospite Gavin Castleton. Mano a mano che il brano si dipana, il crescendo con l’alternarsi e il sovrapporsi delle parti vocali tra i due personaggi è semplicemente un capolavoro da lasciare senza fiato.

L’acustica Light, in coppia con la prima canzone ad essere resa nota, Gloria, rientrano in un canone più normalmente associato allo stile della band, ma infine si apre una discesa verso una spirale dark con il dittico The Flame (is Gone) e The Fire (Remains) che raccolgono l’eredita della multipartita Bitter Suite, rappresentandone quasi un rovescio speculare con tonalità minore e un forte senso di epica oppressione come nei momenti più bui di The Wall dei Pink Floyd. The March, come suggerisce il titolo, ha una ritmica spedita che musicalmente ricorda Smiling Swine (da Act II) il cui tema infatti riemerge brevemente tra le crepe orchestrali dopo un richiamo anche a The Old Haunt. Il clima elegiaco col quale si presenta Blood - organo da chiesa e ottoni - è strettamente collegato al melodrammatico finale con le riflessioni amare del protagonista destinato a raccogliere ciò che ha seminato. Il brano che chiude l’album in un sussurro ha il titolo emblematico e contrastante di A Beginning, un gemello meditabondo e più spirituale di Ouroboros, il pezzo che chiudeva Act IV. Entrambi fanno riferimento ad una negazione di una fine o di un inizio, proprio come il serpente che si morde la coda. Non c’è modo migliore per dichiarare che la storia è in sé conclusa, ma che sarà aperta ad un nuovo capitolo che la suggellerà per sempre. Sommando ogni tassello che compone questa pentalogia non riesco ad immaginare una band contemporanea che possa aver conseguito una tale vetta, neanche dopo anni di attività, e invece Casey Crescenzo ha scritto cinque capolavori di seguito appena all’inizio della sua carriera.

 Epilogo

I The Dear Hunter sono la prova vivente che il progressive rock non ha più senso di esistere se non nelle cerchie di retrogradi malinconici, o comunque è un termine che andrebbe abolito. Accanto ai Coheed and Cambria, si sono imbarcati nel concept più ambizioso del nuovo millennio nel corso del quale hanno sondato le possibilità più sfrenate di una musica ad ampio respiro che comprende al suo interno arrangiamenti sinfonici, orchestrali, jazz, baroque pop, musical e post hardcore. Una roba che a raccontarla farebbe andare in sollucchero il più duro e puro dei proggers, invece, nonostante ciò, i The Dear Hunter sono sempre stati ignorati, snobbati ed emarginati dalla comunità prog internazionale, attirando piuttosto l'attenzione della scena alternativa e indie americana. Dall’altra parte, se non scimmiotti gli anni '70 sei destinato all'oblio. Uno Steven Wilson da definire “genio" dà sempre più certezze che un Casey Crescenzo con le stesse, se non superiori, capacità. Una contraddizione che non lascia scampo all'appassionato medio di prog, relegandolo giustamente alla tanto demonizzata definizione di "dinosauro", al cui confronto i ragazzi che ascoltano alternative rock sono avanti anni luce.

martedì 6 settembre 2016

Bon Iver - 22, A Million (2016)


Il primo frammento audio che Justin Vernon ha registrato per il terzo album dei Bon Iver sono le parole “It might be over soon”. “Potrebbe finire presto”. La frase, impressa in un sampler portatile durante un non proprio felice viaggio in un’isola greca, fa riferimento a tutto lo stress accumulato nel periodo di promozione dell'album Bon Iver, Bon Iver, portato in un tour che ha girato intorno al mondo per oltre un anno. Il successo, il consenso della critica e la profondità con cui quell’opera ha toccato il pubblico devono aver generato anche un invisibile fardello dentro Vernon che alla fine è cresciuto e lo ha lasciato esausto ed inerme di fronte a quella valanga di emozioni e aspettative, innescando anche l’equivoco, con varie dichiarazioni postume, che quello avrebbe potuto essere l’ultimo capitolo del gruppo Bon Iver.

22, A Million è nato come una reazione e una rinascita nei confronti di tale stato d’animo e forse, a livello di contenuto, si rivelerà il lavoro più ermetico prodotto da Vernon a partire dai caratteri utilizzati nella particolarissima tracklist, l’equivalente grafico di un sodalizio tra numerologia biblica e vaporwave. E così, 22, A Million, è un album da decifrare non solo dal punto di vista verbale e iconografico, ma anche da quello musicale. Proprio come testimonia la cover realizzata dall'artista Eric Timothy Carlson, ne nasce un puzzle postmoderno di folktronica, glitch music, soul, suoni manipolati e uso smodato di auto-tune: un ibrido talmente potente da annullare la sua appartenenza ad un genere, al quale si aggiungono le tante volute piccole imperfezioni audio (ad esempio i volumi disturbati della prima traccia) come fosse un nastro a bobina proveniente dal futuro prossimo. Ma se oggi il post rock non fosse riconosciuto con un’identità ben definita molto distante dai canoni primordiali con cui fu inizialmente individuato - si pensi alle elucubrazioni jazz rock di Bark Psychosis, Talk Talk, fino all’archetipo ambient rock intellettuale di David Sylvian -, si potrebbe affermare che i Bon Iver hanno partorito un album di evoluto post rock in tutto e per tutto.

Vernon, completamente a corto di idee e confuso su quale direzione musicale intraprendere, come reazione al tracollo di cui sopra si è dedicato a registrare piccoli frammenti di musica e ore di improvvisazione che poi ha utilizzato nell'assemblaggio dei pezzi. Di tutto il materiale, molto deve essere stato tagliato per andare a compilare questi scarsi 34 minuti, rispettando la consueta brevità che contraddistingue di solito i lavori dei Bon Iver. L’album è un viaggio interiore che parte dall’individualità di Vernon, rappresentata dal numero 22, e che si confronta con il mondo esterno, cioè l’"a Million": le conoscenze, le amicizie, tutto ciò che ci collega alle nostre relazioni, che siano quelle più intime o quelle più lontane, ma sempre connesse e ricondotte a noi in prima persona. Anche i riferimenti alla religione, che emergono più o meno velati, non credo debbano essere letti come un’improvvisa adesione incondizionata a dettami cristiani da parte di Vernon, ma più come una metafora di ricerca spirituale laica e universale che ci guidi ad una pace interiore, prima di tutto con noi stessi.



Senza stare a disquisire sulle differenze stilistiche e di significato che già distanziavano For Emma, Forever Ago e Bon Iver, Bon Iver, qui Vernon ha oltrepassato in modo netto e definito anche la fase del secondo album, aggiungerei fortunatamente e intelligentemente, poiché ritornare sui passi aggraziati di Bon Iver, Bon Iver, con tutta l’importanza che ha rivestito e dalla cui fascinazione suscitata sono nati pure alcuni piccoli cloni, sarebbe stato da parte sua un errore imperdonabile. Ma se Bon Iver, Bon Iver ha lasciato un'eredità che altri musicisti hanno potuto raccogliere, sarà più complicato fare la stessa cosa con 22, A Million senza cadere nella trappola dell'inutile replica, perché è un'opera talmente personale ed esoterica che inizia e finisce nei confini da lei stessa tracciati ed è giusto che rimanga un caso isolato. Che qualcosa fosse cambiato era intuibile anche dagli ultimi concerti (primo fra tutti l’anteprima completa di 22, A Million avvenuta il 12 agosto al festival di Eau Claire), dove Justin Vernon, al posto di imbracciare la sua chitarra, ha preferito piazzarsi dietro un banco di tastiere. Basti dire che quello che accomuna i tre LP è solo la virgola nel titolo e c’è una distanza estetica abissale tra il primo, timido, scarno e introverso lavoro e questo estremamente moderno esperimento che fonde l’acustico con la più spregiudicata elettronica. Se For Emma, Forever Ago nasceva nella solitudine di un capanno del Wisconsin, 22, A Million è stato alimentato dal confronto con altri artisti con i quali Vernon ha collaborato durante la sua pausa di cinque anni (Volcano Choir, The Staves, James Blake, The Shouting Matches).

Vernon spinge le possibilità al limite e non si preoccupa di risultare anticommerciale, aprendo con un trittico inusuale dove la frattura che si crea tra l’accompagnamento strumentale e le parti vocali riveste un ruolo di primo piano. Il prologo affidato a 22 (OVER S∞∞N), tra sample, loop vocali e pochi accordi di chitarra, si presenta già con un’estetica da salmo quasi acappella; nell'orgia cacofonica tribal/percussiva che percorre 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄ (talmente satura da sfiorare il clipping) le melodie predominanti sono tessute dal canto di Vernon, il resto assume le sembianze di rumori astratti ricompattati da una sezione di fiati di dodici elementi indicati nei credits con il nome di The Sad Sax of Shit. Si torna al minimale nel breve concerto “per voce preparata” 715 – CR∑∑KS ed è in questo estratto che compare per la prima volta un nuovo strumento, ideato da Justin Vernon e realizzato dallo studio manager e collaboratore Chris Messina, battezzato per l’appunto “the Messina”, che è in pratica un plug in sviluppato in modo da permettere la modifica di un’armonia in tempo reale.

Arrivando a quello che è il cuore dell’album, impostato come un incontro tra tradizione e progresso, spetta a 33 “GOD” la palma del pezzo più composito, dove si intersecano piano e banjo da una parte e percussioni programmate, sintetizzatori e un minuscolo sample di Iron Sky di Paolo Nutini dall’altra. 29 #Strafford APTS spezza inaspettatamente il riflusso di modernità tornando per un attimo ad un normalissimo country, infarcito riccamente di sax e archi, non resistendo però alla tentazione di intervenire con qualche solito trattamento vocale. Altro pezzo di punta è  666 ʇ che si poggia su una cellula di drone elettronico a cui si sovrappone un agile riff semiacustico di chitarra, ma la meraviglia è l’inserimento di una pacata ritmica swing valorizzata dal contrabbasso ad opera di James Buckley e la corale sezione di fiati. Quella che potremmo definire la coda finale dell’album, che ci viene introdotta dagli echi di world music e ambient che percorrono 21 M◊◊N WATER, è formata da un trittico che ha l’aria di una preghiera raccolta e suona come un ritorno al traditional americano. Una rivisitazione che passa attraverso il rilassato R&B trasfigurato alla maniera di Peter Gabriel 8 (circle), lo spiritual futurista ____45_____ per sax manipolati (ancora grazie al Messina) e omelia gospel, chiudendo con il soul ecclesiastico di 00000 Million.

Nella sua peculiare veste rimane quindi anche un senso generale di eterogeneità nel materiale qui raccolto che per alcuni potrà essere un punto positivo, mentre per altri potrebbe rappresentare un elemento di indefinitezza, incidendo sul giudizio finale. Forse, per la sua spigolosità, sarà un album destinato a dividere il pubblico, ma ascoltandolo in raccoglimento e solitudine (come suggerito dallo stesso Vernon) scorre molto bene e tutto acquista un senso. Alla fine l’unica cosa importante da sapere è che 22, A Million è nato per celebrare la musica come rinascita e salvezza e, se avete qualche ferita interiore che tarda a rimarginarsi, provate a dedicargli la dovuta attenzione. "Potrebbe finire presto".



giovedì 1 settembre 2016

Altprogcore September discoveries


Gli americani Amarionette sono discograficamente attivi da cinque anni e alle spalle hanno già diverse uscite tra album ed EP, ma credo che con un lavoro molto più maturo come si è rivelato Repeating History riusciranno ad essere considerati una nuova speranza nel progressive pop hardcore (se così si può dire). Come un misto condensato di Coheed and Cambria, Circa Survive e Emarosa, l'album si fregia anche delle ospitate di Kurt Travis (ex A Lot Like Birds) e Tilian Pearson (Dance Gavin Dance), tutti fattori che contribuiscono a far capire in quale tipo di ambiente musicale va incasellato il quartetto di Las Vegas.



Di questo album a nome In-Dreamview e dal titolo Reverie, so solo che è il prodotto di un solo musicista che si è occupato di ogni strumento, ma se mettiamo da parte i dettagli e lasciamo parlare la musica direi che le dieci tracce qui contenute - e descritte come "connesse attraverso variazioni ritmiche e armoniche" - hanno il pregio di dipingere suggestivi paesaggi sonori. L'atmosfera è impregnata in riverberi e echi new age e canterburiani; gli strumenti con maggior spazio sono le chitarre e le percussioni, le prime impegnate a tessere arpeggi con richiami al minimalismo, le seconde a scandire ritmiche jazz e math rock.



Dietro al nome e al progetto denominato Flyermile si nasconde in realtà Steve Clifford, batterista dei Circa Survive, che con Inversion Layer si distanzia in modo ragguardevole dal suo gruppo madre e produce un math rock alternativo che ricorda altre band underground come Vending Machetes e Ghost Parade.



Pate Davis non è altri che la mente celata dietro al math rock degli Invalids, il quale, quando non è impegnato con loro, si dedica in modo solitario ad un folk art rock che aveva preso toni orchestrali alla Sufjan Stevens su The Pottsville Conglomerate (2011). L'EP False Friends prende invece una via molto diversa e programmatica, indirizzata verso un'impostazione minimale che fa ricorso unicamente a voci multistratificate e sovraincise per creare le armonie e, solo occasionalmente, ad un ukulele in due tracce.



E infine poteva mancare l'ennesimo EP di djent fusion strumentale? Certo che no! Anche il progetto Crossing the Rubicon appartiene ad un unico musicista che risponde al nome di Alejandro Licano, naturalmente coadiuvato da altri colleghi chitarristi. Bloom è un EP di tre tracce che potrà piacere ai patiti di Sithu Aye e Plini.



I Cartoon Weapons, originari di Washington DC, si propongono con l'esordio Last Rites of a Living Legend di percorrere sentieri affini a math rock e improvvisazione da jam band, affrontati con un gusto totalmente imprevedibile e iconoclasta che ricorda il punk, ma anche l'estetica lo-fi.