L'annuncio improvviso lo scorso agosto della fine dei black midi penso abbia colto di sorpresa quasi tutti coloro che li conoscono. Altrettanto sorprendente è stata la velocità con cui il frontman Geordie Greep ha pubblicato il suo primo album da solista, registrato per la maggior parte in Brasile con musicisti trovati in loco per un totale di una trentina di persone coinvolte, oltre alle ospitate degli ex black midi Morgan Simpson e Seth Evans. The New Sound è contemporaneamente il titolo dell'album, il nome della band e una dichiarazione di intenti. Il distaccarsi dal suono originario dei black midi era quindi già prefigurato, ma in tutta sincerità non sapevo quale indirizzo avrebbe potuto prendere la carriera solista di Greep, ma di sicuro niente che potesse accostarsi a tale livello.
Se questo deve essere ciò che la dissoluzione dei black midi ha generato, allora ben venga la loro morte. Tutto ciò per dire ancor più chiaramente che The New Sound in termini di risultati supera di gran carriera quanto prodotto da quella band nell'arco di tre album. Magari non sarà giusto fare paragoni, ma Greep è stato pur sempre un membro fondatore dei black midi ed un confronto con il repertorio che ha contribuito a scrivere è inevitabile. La maturazione di Greep come direttore artistico e principale motore del progetto è impressionante e a questo punto è lecito sospettare che la band fosse per lui un freno, il che è paradossale visto che il trio inglese aveva fatto della libertà sperimentale il proprio cavallo di battaglia. Eppure The New Sound sa percorrere strade ancor più avventurose e avvincenti. Senza mezzi termini, qui siamo di fronte ad una resa grandiosa: lo spettro sonoro coperto, la visione musicale di Greep, l'esecuzione musicale dell'insieme, l'organizzazione strumentale, sono qualcosa di impressionante se si pensa poi alla giovane età dell'autore.
Su The New Sound Greep costruisce un ensemble dai forti connotati musicali latino-americani, per ciò che riguarda le ritmiche (salsa, samba, rumba) e certe armonie estratte dalla bossa nova. Questo ultimo aspetto si arricchisce da sprazzi jazz, fusion e prog, che riprendono le pirotecniche linee math rock e sperimentazioni avant-garde dei black midi, ma con un gusto di profondità melodica e strumentale degna della maniacalità degli Steely Dan. La componente cabarettistica che nei black midi era accentuata proprio dall'istrionismo canoro di Greep in questo caso lascia spazio ad un crooning da big band in un connubio, come anche il cantante sottolinea, tra Frank Zappa e Frank Sinatra.
Sinceramente stupisce come Greep abbia orchestrato e concepito un disco del genere, così sontuosamente ricco negli arrangiamenti e nelle stratificazioni. In ogni passaggio o cambio di direzione sono nascosti tanti particolari timbrici che formano un corto circuito tra sonorità lounge jazz/funk anni '70 e lo sfoggio di tecnicismo moderno, non indirizzato però al virtuosismo ma all'accrescere le potenzialità della prospettiva sonora e timbrica. Forse a descrivere ogni brano si fa un disservizio alla sorpresa che ognuno di questi può suscitare, anche perché non ce n'è uno che risalti sopra ad un altro, l'eccellenza in questo caso trabocca nella totalità di tutte le tracce. Un esordio di tutto rispetto, forse anche di più. I black midi sono morti, lunga vita a Geordie Greep.
Nel giro di interviste per promuovere Cavalcade il batterista dei black midi Morgan Simpson rivelò come il piano della band fosse fin dagli esordi quello di pubblicare un album all'anno, un progetto che poi è stato ridimensionato dalla pandemia, ma che adesso può proseguire senza ostacoli apparenti. Cavalcade ed il nuovo Hellfire sono infatti stati registrati a stretto contatto, uno dietro l'altro, il che li porta ad essere per certi aspetti simili, per altri differenti: "if Cavalcade was a drama, Hellfire is like an epic action film" ha sentenziato il chitarrista e cantante Geordie Greep. Comunque li si valuti appartengono allo stesso momento creativo e presi insieme fotografano una band molto differente dall'esordio post punk di Schlagenheim. In partica li possiamo considerare i loro Kid A e Amnesiac, facendo tutte le distinzioni del caso, due album divisi ma complementari e chissà se in futuro continueranno così o cambieranno di nuovo.
Quindi, incassata l'approvazione di Bill Bruford (e scusate se è poco), i black midi continuano nella loro fase avant-prog, da una parte approfondendo e amplificando alcuni aspetti di Cavalcade, dall'altra di smorzarne altri. Il primo requisito si riverbera su una maggiore condensazione di idee in quella che può essere vista come un'apertura alla forma-canzone, con il conseguente freno sull'autoindulgenza, soprattutto evidente nella prima parte dell'album (o "lato A" come si diceva una volta). E questa è la premessa del secondo connotato che ci presenta sempre un gruppo teso verso la sperimentazione, ma totalmente assorbito dai propri vezzi e manierismi da istrioni avant-garde e jazz.
Fondamentalmente ciò che i black midi hanno introdotto su Cavalcade con Hellfire prende contorni più chiari e definiti, perché prima offuscato da una vena incline alle divagazioni math prog e noise punk. Su Hellfire si divertono a decostruire il pop swing americano di matrice anni 40-50 e dargli una folle revisione punk jazz per renderlo moderno e fuori controllo. Il ruolo della big band è ancora una volta interpretato dal piano di Seth Evans e dal sax di Kaidi Akinnibi, ma invece che all'armonia e all'accompagnamento il loro compito è destabilizzare e creare dissonanze, mentre il crooner di turno è naturalmente Greep, però più interessato a "parlare cantando" piuttosto che a smussare e addomesticare la propria verve. C'è da ammettere però, per quanto idiosincratico possa apparire tale approccio, che questa volta la sua interpretazione si adatta meglio del solito alle composizioni (ci sono comunque anche due brani cantati dal bassista Cameron Picton).
Probabilmente il compromesso è merito di una maggior consapevolezza acquisita, perché in fondo la materia musicale in cui scavano i black midi non appartiene né al rock né al prog, né al post punk né all'avant-garde, questi sono solo punti di arrivo. Loro partono da pagliacciate da cabaret che spingono la teatralità vocale di Greep a livelli insopportabili (la title-track, che fortunatamente dura giusto il tempo di una breve introduzione), da tessuti strumentali che sembrano il commento sonoro di un cartone animato impazzito, narrato dalla voce di Greep e che assumono i contorni di un tributo ai Cardiacs in chiave jazz (Welcome to Hell) o da frenetici musical sbilenchi spiritualmente zappiani (The Race is About to Begin). L'epitome di tale pratica la palesa subito lo swing infuocato di Sugar/Tzu, uno dei pezzi più incisivi scritti dal gruppo, che non rinuncia a repentine parentesi strumentali isteriche e capace di progressioni jazz estremamente gustose.
Ma non è tutto, perché il tornare a rapportarsi con una tipologia di struttura più omogenea e uno stile meno orientato al caos organizzato della sperimentazione, conduce i black midi ad accentuare la propria inclinazione verso il melodramma espressionista e far affiorare similitudini con la frangia meno estrema del Rock In Opposition. Quando ad esempio ascoltiamo l'attitudine bandistica e teatrale della conclusiva 27 Questions appare più di un parallelismo con quella altrettanto cerebrale degli Henry Cow. E accorgersi di ciò nel finale dell'album è quasi una rivelazione, dato che ci costringe a riconsiderare tutto l'ascolto in una chiave progressiva alternativa. Ci sono dei momenti solenni e inaspettati che vestono deliberatamente le raffinate vesti della tradizione degli chansonnier francesi, raccontando amori e omicidi sotto forma di drammi da camera (Dangerous Liaisons, The Defence) e altri che si rifanno alla patafisica di marca Kevin Ayers con accostamenti surreali di bombardanti ritmiche flamenco e fiati che barriscono (Eat Men Eat). Questi non sono più i black midi figli del noise punk che li ha lanciati in primis generando tanto hype, né quelli dell'avanguardia jazzcore di Cavalcade, ma piuttosto dei nuovi cantori, consapevoli o meno, del Rock In Opposition.
Anche se con questa affermazione possiamo ormai inscrivere i black midi nel filone prog senza paura di sembrare fuori contesto, essi rappresentano quasi un’anomalia. Nel senso che se altri nomi - più o meno conosciuti - vanno ad interessare un target di pubblico ben specifico, loro grazie all’hype di cui hanno goduto ad inizio carriera raggiungono una fascia trasversale e più eterogenea, accontentando contemporaneamente i giovani alternativi che vanno ai festival che contano e gli amanti dell’avant prog sperimentale. Al di là che piacciano o meno, i black midi con Hellfire certificano un valore artistico e creativo che, a differenza di altri colleghi glorificati più per moda che per meriti effettivi, non li rivela come un vacuo prodotto dell'hype momentaneo, ma come un gruppo di folli guastatori che di musica ne sa, magari talvolta eccessivi, ma genuini. E, a parte ogni cosa, conseguire nell'improbabile impresa di far ritornare ancora una volta alla ribalta la parola "prog", oltretutto a trascinarci dentro un pubblico altrettanto giovane contando su una visione senza compromessi, non era così scontato.
Ciò che rimane è piuttosto l'interrogativo di come abbiano fatto a mantenere tanta attenzione dedicandosi ad una frangia di nicchia come il math rock / avant-prog, arrivando ad una popolarità ed un consenso che la moltitudine sommersa che produce questo genere non è riuscita (e riuscirà) mai a raggiungere. A questo punto il vero miracolo utopistico sarebbe se i black midi riuscissero pure a smuovere il lassismo d'ascolto delle nuove generazioni che si nutrono solo di playlist e webzine alternative e gli accendessero la curiosità di andarsi a cercare opere esteticamente affini come spirito, scoprendo dischi fondamentali come In Praise Of Learning, Kew. Rhone., i primi due volumi dei Soft Machine, Joy of a Toy, ecc. Questa sarebbe la prova definitiva che l'interesse per la musica dei black midi in chi la ascolta è genuino e non frutto dell'hype del momento.
L'entusiasmo musicale è una sensazione molto gratificante: un irrefrenabile istinto che ti porta all'urgenza di condividere con gli altri una nuova scoperta, meglio ancora se ci senti dentro qualcosa di nuovo e unico. Bisogna però fare molta attenzione a non farsi prendere la mano, perché poi, quando l'entusiasmo si diffonde in modo più generalizzato, c'è il rischio che spuntino fuori parole eccessivamente spropositate come "capolavoro", "coraggioso" o "rivoluzione" che magari, associate all'opera a cui ci si riferisce, vanno un po' strette e finiscono per apparire esagerate e fuori luogo.
Questo per dire che a soli cinque mesi dentro il 2021 si contano già diversi album responsabili di aver generato un hype clamoroso - e mi riferisco a Black Country New Road, Floating Points insieme a Pharoah Sanders, Dry Cleaning, Squid e Iosonouncane -, dove la critica ha indirizzando le lodi verso elementi di peculiarità e unicità di tali uscite, a loro dire audaci, anche se in realtà, come sempre, andando a scavare nel sottobosco musicale si possono trovare cose ben più interessanti, ignorate a loro tempo e passate sotto silenzio solo perché non abbastanza in linea con ciò che è ritenuto cool in quel momento. Talvolta si ha la sensazione, come nel caso del nostro Iosonouncane, che l'asticella dell'hype pre-release sia andata fuori scala e che il giudizio positivo arrivi aprioristico a prescindere, non in virtù dell'opera, ma del nome del suo autore.
Anche per i Black Midi successe la stessa cosa ancor prima che pubblicassero il loro primo album due anni fa. In effetti, le loro apparizioni live giustificavano una certa attesa, cosache poi è stata leggermente ridimensionata all'uscita diSchlagenheim, generalmente lodato dalla stampa, ma non all'altezza di tutto il clamore sollevato in partenza. Adesso, alla lunga distanza e alla luce del secondo album Cavalcade, quell'hype sembra pienamente giustificato. Come già i vari singoli anticipavano, il nuovo sforzo discografico dei Black Midi segna un imprevedibile e, a suo modo, radicale cambio di rotta, virando lo sguardo della loro sperimentazione post punk/noise rock verso un altro linguaggio o stilema musicale. Così facendo, i Black Midi dimostrano grande acutezza nel non ripetere gli schemi del debutto ma, in particolare, manifestano un'ambizione che li ha trasportati in territori ancor più elaborati e vicini al progressive rock, ripagandoli di tale scelta.
Cavalcade vede l'originale line-up privata temporaneamente del chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, assente durante le registrazioni per prendersi cura della propria salute mentale. Al suo posto comunque il gruppo si è stabilmente espanso con il sassofonista Kaidi Akinnibi e il tastierista Seth Evans, dettaglio non secondario visto la piega che hanno preso le nuove composizioni.Per una band già imprevedibile di suo, Cavalcade ha il pregio di essere una continua scoperta, nella quale i Black Midi mettono sul piatto molteplici aspetti sonori, a differenza del primo album che appariva più coerente nell'offrire una visione disordinata di math rock viscerale e punk.
Ad esempio l'esaltazione dell'improvvisazione e del continuo accavallarsi di ritmiche e progressioni caotiche che erano prerogativa di Schlagenheim, qui lasciano lo spazio anche a squarci di composizione, per così dire, più lineare, mettendo alla prova il gruppo su un versante soft e melodico, quasi del tutto inedito per loro. E anche per questo Cavalcade si rivela un album pieno di piacevoli sorprese. Quando il cantante e chitarrista Geordie Greep non si lascia andare al suo peculiare e idiosincratico vezzo vocale declamatorio da espressionismo tedesco, sembra quasi assumere le sembianze di un consumato crooner, come avviene nei due brani Marlene Dietrich e Ascending Forth, che maggiormente rappresentano le caratteristiche appena citate. Entrambe caratterizzate da un approccio acustico con un vago sapore di chamber folk, la prima è una rilassatissima ballad che si tinge di un arrangiamento tra il vintage e il moderno, cogliendo sia le malinconiche arie del pop orchestrale del cinema anni '60, sia la spaziosa psichedelia di quel periodo. La seconda, che è forse la traccia meno convenzionale per i Black Midi, si regge inizialmente su una progressione di accordi di chitarra pizzicati, quasi bossa nova, e all'accenno delle sue prime variazioni il brano prende le sembianze di una sinfonia per gruppo rock simil Genesis.Non per quanto riguarda l'aspetto orchestrale, ma per quello formale ed esecutivo, un pezzo che pare estrapolatoda una pièce più ampia, nell'ottica della concezione di popular music, tra colto e popolare, tramandata fino a noi dai fratelli Gershwin (fatte le dovute proporzioni ovviamente).
Discorso totalmente differente per la sperimentale Diamond Stuff, anch'essa che si stacca sostanzialmente dall'estetica dell'esordio, imbastendo un piccolo concerto per cordofoni e percussioni, incentrato su una cellula percussiva martellante alla quale si sommano in crescendo gli altri strumenti, fino sfociare su un ritmo fluido ed a creare un finale catartico e psichedelico. Quell'attitudine post punk presente su Schlagenheim, in questa sede viene convogliata piuttosto verso le zone del free jazzcore bombardante dei The Mars Volta, come accade nei nevrotici arcipelaghi di-staccati di John L, frazionati da stop improvvisi con ripartenze ogni volta sempre più fragorose. Una vera e propria "cavalcata" di strumenti al loro massimo di tensione, che accelerano in modo propulsivo e schizofrenico durante il loro percorso, tra ostinati di violini, chitarre psicotiche, sassofoni sguaiati e pianoforte apocalittico.
Questa attitudine prosegue su Chondromalacia Patella: il sound è rauco, secco e il brano viene montato sopra tasselli e frammenti tematici di math jazz che oscillano dal quieto al rumoroso, allo stesso modo in cui la ritmica conduce dallo swing al punk. Slow la segue a ruota in questa ricerca dinamica di equilibrio di frenetica geometria irregolare e fusion post moderna, mentre Dethroned è una scusa per mettere in vetrina l'abilità di ciò che
possono inventarsi i Black Midi attorno ad un groove avvolgente e costantemente in divenire. Hogwash and Balderdash si spinge ancora più a fondo nella sua idea di patchwork strutturale e sonoro, stipando in due minuti e mezzo ogni aspetto dell'album: è come fosse il trailer di Cavalcade.
Come sempre nelle tracce più pirotecniche il drumming di Morgan Simpson è il vero perno del quale si servono i Black Midi per avviluppare complesse e cervellotiche dinamiche. Ma si deve ammettere che la direzione dell'album mette in risalto le abili doti di ognuno di loro come hanno dato prova nell'incredibile sessione dal vivo per KEXP. Quindi, chiudendo il cerchio sull'argomento di apertura, Cavalcade forse non ha generato lo stesso hype dei gruppi citati in precedenza, ma anche se lo avesse fatto sarebbe stato sicuramente più giustificato. Detto questo, anche per Cavalcade non è legittimo spendere vocaboli maestosi come "capolavoro", "coraggioso" o "rivoluzionario", poiché non rientra in queste categorie. Il giudizio rimane però positivo, è un notevole progresso in avanti rispetto al primo album, è un ascolto complesso e stimolante, ma soprattutto è l'ambiziosa fotografia di una band che ha saputo rinnovarsi in grande stile.
In attesa del loro secondo album Cavalcade, annunciato per il prossimo 28 maggio, i nuovi paladini del rock sperimentale Black Midi pubblicano una performance live dove anticipano buona parte del suo contenuto. Oltre ai singoli John L e Slow (quest'ultimo uscito proprio oggi) sono presenti i brani Dethroned, Hogwash And Balderdash, più un altro non inclusa nell'album dal titolo Sugar/Tzu. A giudicare dalla presentazione, e dalla presenza di una sezione di fiati, il gruppo ha incrementato il proprio sound verso un math rock intriso di jazz-core, il che li proietta verso una nuova fase ancor più ambiziosa rispetto al primo album Schlagenheim.
Nell'ultimo anno i black midi sono stati tra i più chiacchierati gruppi dell'underground londinese, costruendosi in poco tempo una forte reputazione grazie alle loro esibizioni dal vivo, tanto da richiamare l'attenzione anche Oltreoceano, partecipando al festival SXSW e incassando le lodi di Pitchfork. Tutti e quattro giovanissimi e freschi di diploma alla BRIT School di Croydon, i black midi hanno raggiunto uno stato di popolarità senza neanche pubblicare un album, ma solo una manciata di singoli. Schlagenheim è il debutto che esce ora per l'etichetta Rough Trade e prodotto da Dan Carey (Bat For Lashes, Franz Ferdinand), praticamente un condensato di quel math punk noise che i black midi offrono dal vivo molto spesso originati improvvisando tra di loro. Infatti, nonostante la giovane età, i quattro ragazzi hanno una invidiabile padronanza dei loro strumenti, sopratutto l'incredibile e pirotecnico batterista Morgan Simpson che si fa carico di sostenere gli strani e obliqui riff cacofonici del terzetto a corde costituito da Geordie Greep (voce e chitarra), Cameron
Picton (basso, voce) e Matt Kelvin (chitarra, voce).
Tra i tanti attributi affibbiati alla musica dei black midi il termine "imprevedibilità" appare di sovente per descrivere il flusso sonoro, ma in realtà il gruppo sembra più affascinato da droni e reiterazioni di cellule strutturali che trasmettono quasi un senso di alienazione ipnotica, come nelle spirali siml sample di Speedway o nella marcetta psicotica bmbmbm. Quindi, più che vicini all'imprevedibilità del prog, i black midi si fanno paladini del futurismo nichilista alla Devo mescolato al Krautrock teutonico dei NEU! nell'ansiogena Ducter. Come dire che l'approccio rimane punk, ma l'intenzione è altamente pseudoartistica. In questa corsa all'avanguardia espressionista capitano alcuni colpi di genio come la destrutturazione post punk jazz di Raggae e Near DT, MI. I pezzi con cui i black midi danno sfogo alla loro parte più sperimentale e votata all'imprevedibilità sono i centrali Western e Of Schlagenheim, delle jam di gruppo trasformate in canzoni.
Ulteriore particolarità è la voce di Greep, il quale al cantato regolare preferisce spesso e volentieri intervenire in modo libero e fuori dagli schemi metrici, concedendosi ancora più anarchia di Adrian Belew impegnato in Elephant Talk. Ma nell'insieme troviamo frammenti del proto punk vandergraaffiano, sia che si tratti dell'immortale Pawn Hearts (e mi riferisco in particolare alla sezione centrale di MAN ERG) sia che si tiri in ballo l'Hammill solista di Nadir's Big Chance. Non a caso i King Crimson e i Van der Graaf Generator sono gli unici gruppi prog a cui si possa far eventualmente riferimento per quel caos organizzato e chitarrismo ossessivo muscolosamente mostrato in Years Ago e l'opener 953, due tra i brani migliori del lotto. Forse Schlagenheim non è quel debutto esplosivo che ci si poteva aspettare dai black midi, ma già il fatto che un gruppo del genere abbia generato tanto hype può essere solo un bene.
Con l'ascesa inesorabile black midi sembra di essere tornati agli anni '90. Senza nessuna pubblicazione ufficiale e senza l'ausilio di social network, questi quattro giovanissimi iniziano circa un anno fa a mettere a ferro e fuoco i club live londinesi, fino a che il passaparola delle loro esibizioni si espande a macchia d'olio e compaiono i primi attestati di stima anche tra i colleghi (vedi Jeremy Pritchard degli Everything Everything e Mike Vennart) e vale anche una collaborazione con l'ex CAN Damo Suzuki. Insomma si riparte dalla gavetta come si faceva una volta: rifiutando il fondamentale apporto di Internet per avere visibilità, i black midi hanno dimostrato che ancora oggi se davvero la tua musica è potente e hai del talento nel proporla puoi emergere ugualmente dalla massa.
Da qui è stato tutto un susseguirsi di complimenti e hype cresciuti fino a raggiungere l'apice con questo nuovo singolo Crow's Perch, uscito ieri e di cui adesso tutte, ma proprio tutte, le testate web più cool ne stanno parlando. The Quietus nella sua sintesi della recensione di un concerto dà la definizione migliore dei black midi: "Sometimes they sound like a math rock band, sometimes they sound like
punks, sometimes they’re post-punk, psychedelic, noise, prog, rock,
indie or blues. But they are none of the above, something indefinable
and new."
Gli altri singoli pubblicati finora - BmBmBm e Speedway - sono altrettanto estremi nel loro proporre un misto degenerato ideale tra post punk e krautrock, tale da non offrire compromessi sonori. Le caratteristiche che ad un primo impatto colpiscono sono lo spettacolare e frenetico drumming di Morgan Simpson e il cantato idiosincratico di Geordie Greep che pare un'evoluzione psicopatica delle declamazioni degli Slint. Ma anche il basso di Cameron
Picton e la chitarra di Matt Kelvin aggiungono i propri peculiari assalti sonici come fossero guidati senza controllo tra spasmi di furia improvvisa e tensioni latenti. Naturalmente adesso i black midi hanno una pagina Facebook, forse creata a furor di popolo, e anche un contratto con la Rough Trade. Attendiamo il primo album.