lunedì 25 settembre 2017

Mercury Sky - Infra EP (2017)


Forse in questo periodo qualcuno di voi sta ascoltando l'ottimo In Contact degli australiani Caligula's Horse, i quali nel loro tour di presentazione dell'album si apprestano a condividere il palco con la band di Sydney Mercury Sky che ha appena pubblicato il suo secondo EP Infra. Pare che guardando ai gruppi che provengono dall'Australia non ci sia veramente niente da buttare e la loro inclinazione a produrre rock progressivo, metal, post, djent, fusion e quant'altro sia attuale al momento non è seconda a nessuno. Dopo aver realizzato un omonimo EP nel 2014, i Mercury Sky fanno un notevole passo avanti su Infra, co-prodotto da Dave Petrovic (che in passato ha collaborato con i Cog), presentando un pugno di canzoni che ripartono dal progressive hardcore dell'esordio, ma miscelato con una maturità maggiromente consapevole nel gestire le possibilità di trame più complesse e intercalare passaggi atmosferici con momenti aggressivi tecnicamente elaborati come nella traccia di apertura Sosonal oppure attraverso ottimi bilanciamenti tra hardcore melodico e echi di metal psichedelico su SleepDreamWake. Il merito va imputato sopratutto dell'interplay tra i due membri fondatori Keiren Lovett (chitarra) e Keiran Berry (batteria) che quasi si ispirano alle evoluzioni heavy dei Coheed and Cambria, Fair to Midland e Circa Survive. Se poi aggiungiamo all'equazione anche la voce di Kay Thatch che è un misto di Anthony Green e Geddy Lee, possiamo inserire al sound anche un tocco di Rush. Se però lasciamo da parte i paragoni, e comunque pensiamo alle tracce di Infra come vicine all'altrenative rock di matrice americana, i Mercury Sky mostrano un'abilità tecnica molto avanzata per un gruppo di questo genere.


martedì 19 settembre 2017

Circa Survive - The Amulet (2017)


All'inizio di quest'anno i Circa Survive hanno ricordato il decimo anniversario di On Letting Go, uno dei loro album più amati, con un grande tour celebrativo e oggi siamo qui a parlare del sesto album in studio The Amulet che arriva a tre anni di distanza da Descensus. Proprio con On Letting Go la band di Philadelphia era riuscita a conquistarsi una fetta di pubblico più ampia dopo l'esordio con Juturna, ponendosi sulla scia di quel progressive hardcore in stile Coheed and Cambria chedurante quel periodo stava vivendo la sua stagione migliore, tanto da creare una vera comunità musicale attorno all'etichetta Equal Vision Records.

Dieci anni e quattro album dopo ritroviamo i Circa Survive con The Amulet in una versione adulta di ciò che era quel genere. Come i loro fan anche loro sono cresciuti, hanno messo su famiglia e anche la testa a posto, quindi l'ispirazione ha seguito questa crescita rispecchiandosi nelle scelte stilistiche. Non ci sono più ritornelli catchy, non ci sono più le caratteristiche dinamiche quiet/loud, ma soprattutto non ci sono più punti di paragoni con gli colleghi. The Amulet presenta un gruppo stilisticamente emancipato che ha trovato una propria identità sonora, anche se non è semplice penetrare nell'essenza delle canzoni presenti nell'album a causa di elementi melodici talvolta sfocati. I Circa Survive non suonano più un post hardcore progressivo per adolescenti, ma nella loro maturità sembrano aver raggiunto un rapporto intellettuale con il proprio sound simile ai Dredg.

Come per Juturna, qui siamo di fronte ad un lavoro che va assaporato lentamente: all'inizio può lasciare perplessi e indifferenti proprio per la sua omogeneità nel fluire tra un brano e l'altro, però poi si faranno strada alcuni particolari e qualità nascoste. La maggior parte della musica composta per l'album conserva una miscela hard psichedelica, ancora e sempre orchestrata dall'interplay delle chitarre di Colin Frangicetto e Brendan Ekstrom, che sembra non avere contorni ben definiti ma sfumature frutto, ora più che in passato, di sessioni di scrittura fatte di jam collettive e improvvisazioni trasformate in strutture. Sicuramente non è un album che convincerà tutti, dato che comunque resta nell'aria qualcosa di lasciato in sospeso che dipende forse dalla rinuncia nella ricerca di trame più complesse ed incisive.

venerdì 15 settembre 2017

Arcane Roots - Melancholia Hymns (2017)


Lo so che là fuori c'è gente che non ama le classificazioni quando si parla di generi musicali, figuriamoci di sottoclassificazioni, eppure, sembrerà strano anche agli artisti interessati che sono i primi ad odiarle, ogni tanto aiutano a descrivere in maniera sintetica una deviazione dal filone principale. Ad esempio, adesso capita sempre più spesso di leggere il termine "atmospheric metal", ma non credo che ancora nessuno abbia coniato il termine "atmospheric post hardcore" che è ciò che mi sembra più vicino a quanto realizzato dagli Arcane Roots nel loro secondo album Melancholia Hymns in uscita oggi.

Devo dire che nel 2011 questo trio inglese che spuntò fuori con l'EP Left Fire riuscì ad incuriosirmi grazie ad un post hardcore con ambizioni progressive reminiscente degli At the Drive-In e dei The Mars Volta. Mi impressionò un po' meno il loro album di debutto Blood and Chemisty (2013) che non possedeva la stessa urgenza espressiva e ne sublimava leggermente la formula che comunque è stata ben ripresa e personalizzata in seguito dall'EP Heaven and Earth. Dopo aver dato l'addio al batterista Daryl Atkins, Andrew Groves e Adam Burton hanno reclutato Jack Wrench e si sono imbarcati in questa seconda prova che segna il più importante punto di svolta nella carriera della band dal punto di vista stilistico, mostrandola impegnata nel cambiare il proprio assetto sonoro con sfumature in passato assenti. Melancholia Hymns si apre con un tappeto sostenuto e in crescendo di tastiere, in seguito si aggiungono voci celestiali fino a che il brano prende corpo nella propria struttura, con altre tastiere e altri crescendo, in quello che sembra essere un preambolo al cammino di tutto l'album.

La maggior parte dei brani è costruita a grandi linee proprio in questa maniera: si parte sommessamente con tastiere atmosferiche che consolidano una tensione, la quale percepiamo scaturirà in qualcosa di più grande, attraverso lo sfoggiò di chitarre elettriche e potenti bordate hardcore, cosa che puntualmente avviene (Curtains, Everything (All at Once), Matter). L'aspetto inedito che questa volta hanno provato a testare gli Arcane Roots è il forte contrasto trasmesso dai vari registri di tastiere e qualche intervento di batteria elettronica che si impongono nell'estetica sonora come un richiamo ai contemporanei ritorni alla synthwave (Arp, Indigo), ma che li avvicina anche al modo di operare di band che stanno coniugando caratteristiche antitetiche, tra arie intimiste e sonorità più aggressive, come stanno facendo gli Sleep Token ad esempio (in questo caso citerei Fireflies come paragone). Alla fine però Melancholia Hymns sembra soffra del ripetersi di queste soluzioni e sulla lunga distanza perde quel fascino che comunque sicuramente trattengono alcune tracce se prese singolarmente. Una musica che in ogni caso acquista in suggestività se abbinata alle giuste immagini come il video di Curtains sta a dimostrare.






mercoledì 13 settembre 2017

La magia di JYOCHO e Uchu Conbini


Il chitarrista Daijiro Nakagawa ritorna alla guida dei JYOCHO con il secondo mini album a meno di un anno di distanza dal primo. Visto l'ascendente che il giovane ragazzo di Kyoto si è conquistato nei confronti del sottoscritto in quest'ultimo periodo, prima di parlare in modo completo dei JYOCHO, credo sia utile andare a ritroso risalendo alla sua band precedente chiamata Uchu Conbini per capire in pieno l'importanza e il valore del suo lavoro. Dato che il principale compositore è sempre stato lo stesso Nakagawa è logico che tra i due gruppi sia presente una continuità di stile. Tutto ciò che circonda gli Uchu Conbini sa di magico a partire dalla musica, così complessa nel costruire intricati e veloci arpeggi, tapping, poliritmie e imprevedibili svolte tematiche, eppure così semplice da interiorizzare e apprezzare. Merito della maestria tecnica di Nakagawa nel creare sognanti tessiture aromoniche con la sei corde, ma anche della dolce e delicata voce della bassista Emi Ohki e della versatile batteria di Yuto Sakai che insieme si fondono in canzoni math rock dalla sensibilità pop, anche se i giapponesi sono così avanti che fanno ricadere gruppi come gli Uchu Conbini nella categoria tutta giapponese chiamata J-Pop.

Il progetto nasce dalla volontà di Nakagawa nel creare una musica di forte suggestione e grandiosità, fondendo influenze per lui basilari come il progressive rock, il post rock e il midwest emo con un riferimento particolare al primo lavoro degli American Football di Mike Kinsella, che Nakagawa cita come uno dei suoi album preferiti. Inizialmente l'idea del gruppo era suonare musica strumentale, ma la passione di tutti e tre i membri per il pop diede l'occasione a Nakagawa di convincere la Ohki, in principio ritrosa, a farsi carico delle parti vocali. Gli Uchu Conbini realizzano così nel giro di poco tempo solo due mini album da favola che sono 染まる音を確認したら (Somaru Oto wo Kakunin Shitara - Feel The Dyeing Note) nel 2013 e 月の反射でみてた (Tsuki No Hansha De Miteta - I Looked By The Reflection Of The Moon) nel 2014. "Album bonsai" verrebbe da chiamarli per quella loro perfezione nell'accostare complessità e melodie dalla disarmante bellezza, senza esagerare il concetto di variazione attraverso motivi ricorrenti e temi riconoscibili costantemente rimessi in discussione dalla sezione ritmica e dalla chitarra che si destreggia tra linee armoniche e melodiche in un registro ultra clean. Purtroppo neanche il tempo di essere apprezzati in pieno durante la loro attività che gli Uchu Conbini si separano per divergenze artistiche nei primi mesi del 2015, dando un ultimo concerto di addio il 13 marzo di quell'anno e continuando comunque ad avere un crescente successo postumo. 8films, Pyramid, EverythingChanges e Sepia Iro no Shasou Kara sono praticamente diventati nel tempo dei brani di culto per chi apprezza questo genere.







Il fatto che gli Uchu Combini non siano stati dimenticati, ma anzi sempre più persone li stanno scoprendo, è forse anche merito del piccolo culto che si sta creando attorno alla nuova band di Nakagawa, i JYOCHO. Dietro al microfono c'è ancora una voce femminile, quella di Rionos, cantante di Tokyo che Nakagawa ha trovato tramite Twitter, ma questa volta da trio il nucleo si allarga a quintetto, aggiungendo alle tessiture strumentali anche tastiere e flauto, pur rimanendo questa volta indicato come un progetto solista di Nakagawa. Lo scorso anno è uscito il primo mini album 祈りでは届かない距離 (Inori dewa Todokanai Kyori - A Prayer in Vain) che ha suscitato di nuovo ampi consensi, riprendendo a grandi linee il discorso interrotto dagli Uchu Conbini.

Ad una prima impressione sembrerà che non sia cambiato molto nel passaggio tra i due gruppi, a parte appunto le sfumature più ricche donate dagli strumenti aggiunti. Eppure i JYOCHO si distinguono dagli Uchu Conbini più che altro ad un livello meno superficiale e squisitamente esecutivo. Con i JYOCHO, Nakagawa si rende ancor più accessibile e vicino a canoni pop, limitando le sterzate ritmiche in favore di scelte più lineari, anche tematicamente, facendo leva su sezioni ripetute e melodicamente simili di modo che rimangano ben impresse. Non che manchino le poliritmie, ma in questo caso si percepiscono in minor misura imprevisti di percorso ben camuffati in una veste che dona fluidità anche ad un contesto comunque fondato sulle geometrie virtuose del math rock. Oggi viene realizzato il secondo mini album 碧い家で僕ら暮らす (Ao ika de Bokura Kurasu - Days in the Bluish House) che segna l'importante arrivo nei JYOCHO della nuova cantante Keiko Kobayashi (proveniente dalla band heliotrope e attiva anche come solista con il nome di Nekota Netako) che sostituisce Rionos a causa del suo rifiuto di esibirsi dal vivo. Days in the Bluish House riesce ancora meglio a creare un ponte tra gli Uchu Conbini e i JYOCHO recuperando quel gusto per ritmiche jazz e articolati andamenti aromonici (The Bluish House), aggiungendo anche un'ingente parentesi di lirismo acustico (Hills, A True Figure of). Ora, a tutti coloro che si aspettano un giudizio, direi che è quasi superfluo, Daijiro Nakagawa si è distinto per una produzione discografica impeccabile e una vena costantemente ispirata che non accenna a spegnarsi. Una discografia da possedere nella sua totalità.






 http://jyocho.com/

martedì 12 settembre 2017

The Contortionist - Clairvoyant (2017)


Di recente neanche per il cambio di rotta di Steven Wilson ho visto tanto astio come quello riservato ai poveri The Contortionist nel momento in cui hanno pubblicato i singoli tratti dal nuovo album Clairvoyant. Una buona percentuale di commenti a margine nei vari social network (quindi non la maggioranza, precisiamo) fanno trasparire una certa delusione dei fan di vecchia data per il nuovo corso intrapreso dalla band, liquidato senza pietà come noioso, piatto, svogliato, fino ad arrivare al meno politicamente corretto "cos'è questa merda?" o altri più nostalgici che rimpiangono il vecchio cantante Jonathan Carpenter. Fin qui si dirà, è solo l'opinione di singoli e intransigenti sostenitori che non accettano come i The Contortionist siano diventati effettivamente un'altra band rispetto ai primi due album. In più le recensioni che stanno uscendo in anteprima, se positive mettono le mani avanti e sottolineano come Clairvoyant sia un album divisivo, se negative non ci vanno alla leggera sui giudizi, imputando una parte della responsabilità, appunto, alla voce di Michael Lessard così poco espressiva e monocorde.

Quindi per chi vivesse su Marte ecco cosa è successo in breve: i The Contortionist erano una band di technical death metal con uso abbondante di harsh e growl vocali, con l'arrivo di Lessard nel 2013 al posto di Carpenter la cosa si è di molto attenuata sul precedente Language, lavoro che comunque ha riscosso consensi unanimi, ora con Clairvoyant questo vezzo è scomparso del tutto (a voler fare i pignoli però ogni tanto si sente ancora qualche harsh in sottofondo, ma non ci interessa) e d'ora in avanti Lessard canterà esclusivamente in un registro clean. La scelta compiuta dal gruppo non è una novità nel panorama metal, ci sono altre band che hanno compiuto questo salto, ma sembra che per i The Contortionist il passaggio sia stato più traumatico. Il gruppo aveva comunque fatto presagire tale direzione con l'appendice a LanguageRediscovered, realizzata dopo un anno con quattro brani tratti da questo album reintepretati in chiave più intima.

Ed è così che per l'abbandono di queste scelte estetiche aggressive, infine i The Contortionist sono entrati nella mia traiettoria, oltre ad essere uno dei pochi a sostenere che se Language fosse stato concepito come Clairvoyant nella sua diversità ne avrebbe giovato, penso che quest'ultimo sia nettamente superiore. A parte la questione sull'uso della voce infatti i prodromi del cambiamento nel sound e nel metodo di composizione del gruppo partono proprio dall'album precedente e qui prendono contorni ancor più radicali e netti. I The Contortionist abbracciano in modo deciso un atmospheric prog nel quale tutto avviene in funzione di una visione meditativa e quasi mistica del metal, tanto che ormai la definizione stessa va loro stretta.

Clairvoyant è un album che richiede un confronto perché è inevitabilmente legato alla scia segnata da Language e nel suo cambiamento è come un esame generale su cosa funziona e cosa no nella nuova veste del gruppo, alla fine però la scelta estetica è così peculiare che dovrete essere voi a stabilirlo in base ai vostri gusti: in pratica, se vi è piaciuto Language non è detto che apprezzerete Clairvoyant o viceversa. Per quanto mi riguarda esso è una rampa di lancio efficacissima nel certificare uno status di livello in costante ascesa, rispetto a Language, per inserirsi con ancora più pertinenza nelle cerchie del progressive rock contemporaneo.

Dovendo scegliere un brano simbolo credo che The Center potrebbe rivestire questo ruolo, non perché sia il migliore (ce ne sono altri), ma perché ben rappresenta il procedere attonito, onirico, ipnotico di tutto l'album, sospeso in una sorta di limbo sonoro privo di climax. Anche dopo svariati ascolti non c'è infatti un frammento che si ricordi per la sua particolare memorabilità, pur potendo cogliere una struttura nei brani tutto viene avvolto in una nebulosa sonora monocromatica che ci fa perdere ogni punto di riferimento ed è una di quelle poche volte che riesco a comprendere certe critiche sull'inespressività di alcuni passaggi, che il narcolettico timbro vocale di Lessard contribuisce a rendere tutto ancora più algido e distaccato. 

Ma se da una parte l'insieme sonoro è così denso da mettere a rischio le dinamiche, cosicché il disco risulti uniforme, dall'altro le progressioni fusion e poliritmiche che stanno alle fondamenta vengono contaminate da una miriade di sottostrati post rock, ambient, metal, prog e new wave gestiti come pochi altri o nessuno ha saputo fare finora. I The Contortionist sfondano in questo modo la parete dell'inaccessibilità e si spingono a fondo in tappeti metallici ed elettronici così compressi da diventare eterei. Quella di Clairvoyant è una metal muzak che potreste mettere in sottofondo negli ascensori degli hotel senza avere lamentele dai clienti. Di quanti altri dischi prog metal azzardereste a dire lo stesso?






domenica 10 settembre 2017

Motorpsycho - The Tower (2017)


In uno degli sketch più famosi e apprezzati del Saturday Night Live alcuni comici del cast dell'epoca (tra cui Will Ferrell e Jimmy Fallon) impersonano i Blue Öyster Cult intenti a registrare in studio la famosissima (Don't Fear) The Reaper, mentre l'immaginario produttore interpretato da Christpher Walken li interrompe di volta in volta spronandoli ad usare "more cowbell!". Un meccanismo simile deve essere scattato anche nei pensieri dei Motorpsycho mentre preparavano The Tower, soltanto che questa volta il mantra che risuonava nella loro testa deve essere stato "more mellotron!". Arrivati ai bombardamenti tastieristici dell'ultimo brano Ship of Fools si rimane infatti quasi spiazzati per quanto il gruppo di Trondheim questa volta abbia spinto su sonorità prog vintage, anche se a guardar bene nel nuovo album troviamo in abbondanza un po' più di tutto: dalle chitarre alle tastiere fino all'estensione della durata dei pezzi. Forse non poteva essere altrimenti dato che i Motorpsycho erano alla ricerca per l'ennesima volta di un nuovo corso che li rimettesse in carreggiata dopo l'improvviso abbandono di Kenneth Kapstad, sostituito dallo svedese Tomas Järmyr anche lui come Kapstad proveniente dal conservatorio di Trondheim.

La voglia di superare il trauma per un altro batterista perso per strada è stata così forte da spingere Bent Sæther e Hans Ryan a trasferirsi negli studi californiani Rancho De La Luna con il produttore Dave Raphael per registrare un doppio album che, nelle intenzioni, dovesse eguagliare le ambizioni del passato. Ma, nonostante l'annuncio di una rinnovata prospettiva stilistica, The Tower più che l'apertura di una nuova éra, sembra più simile alla chiusura di un lungo capitolo. I Motorpsycho degli anni Zero sono stati abbastanza differenti nell'eclettismo rispetto a quelli che abbiamo imparato a conoscere per tutti gli anni '90. Lo spaziare da un genere all'altro tipico della band si è sublimato negli ultimi dieci anni in uno stoner heavy rock psichedelico molto debitore verso le sonorità degli anni '60 e '70, un elemento che era presente in parte anche nei primi Motorpsycho a dire il vero, ma che comunque veniva tradotto con stilemi conformi all'epoca del grunge e dell'alternative rock.

The Tower appare quindi come un riassunto di tutto il periodo in cui ha militato nel gruppo Kapstad, da Little Lucid Moments (2008) fino al recente Here Be Monsters (2016), cercando di replicare specialmente quell'epica progressiva di The Death Defying Unicorn senza però raggiungere l'incisività che ha reso quel lavoro il più interessante esperimento dei Motorpsycho del nuovo millennio. Quello in cui abbonda The Tower sono le digressioni strumentali nelle quali il trio può sbizzarrirsi in temerari soli, con particolare menzione e spazio per le chitarre di Snah e dell'ospite Alain Johannes (musicista di lunga data che ha collaborato con Chris Cornell, PJ Harvey, Queens of the Stone Age e che inizialmente avrebbe dovuto essere il produttore). Sotto tale aspetto va sottolineato quanto i Motorpsycho abbiano contato sulle proprie capacità di esecutori, presentando il materiale più articolato e trasversalmente prog dai tempi di The Death Defying Unicorn appunto, dove le lunghe divagazioni soliste non proseguono in un vortice sonico potenzialmente infinito, ma possiedono un'identità di sviluppo ben definita e giustificata, almeno così sembrano quelle della title-track e di Bartok of the Universe. Anche Järmyr da parte sua ha affrontato questa sfida in modo diligente e professionale, restando nei ranghi e non esponendosi troppo per il momento, forse in attesa di studiare più a fondo le dinamiche dei suoi due compagni.

In pratica sono queste le qualità (comunque non da poco) che alla fine tengono in piedi "La Torre" dei Motorpsycho e la àncora saldamente al presente. Il problema giace piuttosto nell'aver presentato una collezione di brani priva di uno spiccato senso di emancipazione dal passato: In Every Dream Home, The Cuckoo e A.S.F.E. ripropongono riff hard blues che avremmo potuto ascoltare dai Motorhead, mentre sul versante ballate acustiche Stardust e The Maypole sono sicuramente pregevoli nel ricreare quelle visioni West Coast dei CSN, ma la spontaneità indie di Sungravy, Wishing Well o The Skies Are Full Of ...Wine? era ben altra cosa. Intrepid Explorer si sposta nel reame interstellare delle improvvisazioni lisergiche tanto care ai Pink Floyd e sul versante acustico-pastorale a dare man forte ci pensa A Pacific Sonata: toni rilassati e assoli che volteggiano in oceani psichedelici nella prima parte e poi un crescendo cadenzato e minimale di piani elettrici incrociati. I brani di punta sono quindi lasciati in chiusura aggiungendo la già citata Ship of Fools che si stratifica in molteplici pieghe prog: ci sono gli Yes, c'è il mellotron di Watcher of the Skies e la tensione dell'Apocalisse in 9/8, ci sono gli immancabili King Crimson e i Van der Graaf Generator in un'alternanza di atmosfere ora cupe ora solari. Veramente notevole. The Tower è un disco che osa e abbonda, non sempre inteso da una prospettiva lusinghiera, però è forse il miglior album che i Motorpsycho potessero realizzare in questo momento.

mercoledì 6 settembre 2017

Altprogcore September discoveries


I gemelli Jordan (basso, voce) e Talor Steinberg (chitarra voce) insieme a Dan Costello (batteria, tastiere, voce) hanno formato gli SkyTalk nel 2015, dando alle stampe l'EP Days in the Sun scritto nell'arco di due mesi. I tre si dicono influenzati da Rush e Yes, ma questo EP va anche oltre nelle influenze che amalgama, mostrando arrangiamenti inventivi, una tecnica invidiabile e influssi di groove soul e R&B che rendono il tutto molto fluido e accessibile. I tre dicono di stare lavorando all'album di esordio dove cercheranno di approfondire le loro competenze. Non vediamo l'ora.



onevoice è invece il progetto solista del polistrumentista Dan Costello che si dedica invece ad un pop sinfonico molto orientato verso i synth e l'elettronica in un connubio che sembra richiamare la vena più sperimentale, ma sempre con un tocco di pop, di Todd Rundgren e XTC.



Essendo praticamente all'esordio ancora ho poche informazioni riguardo agli Hakanai che è una band formata dal musicista Matt Scherbatsky (responsabile anche del side project acustico minimale Ghost Park). L'EP omonimo degli Hakanai è un piccolo gioiello di math pop acustico che si incontra con il midwest emo più malinconico, sfiorando addirittura il prog pastorale dei Genesis negli arpeggi a 12 corde di Tendrils of Ivy.


Ho scoperto le No Joy grazie al fatto che saranno di supporto ai Quicksand nel loro imminente tour per promuovere il nuovo attesissimo album Interiors. Le No Joy sono Jasamine White-Gluz e Laura Lloyd, canadesi di Montreal e ormai viaggiano insieme dal 2009, non suonano esattamente post hardcore come i Quicksand, ma anzi vanno ad infilarsi direttamente nel revival dello shogaze con incursioni nel dreampop, insomma una band che non sfigurerebbe nella scuderia 4AD. All'inizio dell'anno sono uscite con un EP di quattro tracce dal titolo Creep anche se in questo caso ho preferito postare l'album More Faithful del 2015 che ho trovato decisamente delizioso e che contiene canzoni validissime, una su tutte: Hollywood Teeth.



I fulusu sono infine un duo di chitarra e batteria dal Giappone che suonano math rock. Nel giro di un anno, dall'agosto 2016, si sono impegnati a realizzare quattro EP dei quali Chapter: Lost è il più recente, ma se per caso vi incuriosisce raccomando di dare un ascolto anche agli altri, dato che la qualità rimane costante.

lunedì 4 settembre 2017

Time King - The 1955: Frontierland EP (2017)


Non so come facciano questi cinque ragazzi di Long Island ad essere ancora poco coperti a livello mediatico soprattutto per ciò che riguarda i siti specializzati, perché i Time King hanno tutto ciò che si possa pretendere da un gruppo prog moderno, senza pretendere di essere cervellotici a tutti i costi. Sono tecnicamente preparati, suonano delle composizioni che non si perdono in troppi meandri tematici o stilistici e per questo rimangono accessibili e molto piacevoli da ascoltare. Insomma, non è il solito prog metal o fusion che si scava una nichhia tutta propria e ammette nel suo perimetro solo pochi intenditori. Tra ritmiche funk, accenni jazz rock e metal, i Time King costruiscono The 1955: Frontierland EP con quattro tracce memorabili e, come nella loro indole, impeccabili dal punto di vista esecutivo. Potremmo dire che i Time King sono una versione light dei Thank You Scientist che continuano decisamente bene sulla scia del loro primo album Suprœ, pubblicato due anni fa.







http://timekingofficial.com/