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venerdì 14 maggio 2021

Frost* - Day and Age (2021)

 
E' passato quasi un anno dall'EP Others - che ha anticipato il box set antologico 13 Winters pubblicato lo scorso novembre -, una piccola raccolta di inediti uscita per mitigare l'attesa di questo Day and Age, quarto album in studio della band di Jem Godfrey. Con lui sono rimasti in formazione i fidati John Mitchell alla chitarra e Nathan King al basso. Purtroppo qualche tempo fa il batterista Craig Blundell ha lasciato in termini amichevoli i Frost*, i quali in questo lavoro hanno deciso di non sostituirlo con un membro stabile, ma sono ricorsi all'avvicendarsi di tre batteristi: Kaz Rodriguez (Chaka Khan, Josh Groban), Darby Todd (The Darkness, Martin Barre) e, last but not least, Pat Mastelotto (King Crimson, Mister Mister). 
 
La particolarità di un gruppo come i Frost*, oltre a quella di non cadere nelle trappole del prog revival, ma infondere al genere una visione moderna e rinnovata, è stata quella di cambiare prospettiva in ogni lavoro mantenendo salda un'identità sonora tra elettronica e prog futurista che li ha da sempre caratterizzati. Tale aspetto li ha agevolati nella maturazione, come se ogni volta avessero esplorato un aspetto diverso del loro metodo compositivo, cercando soluzioni al fine di non ripetersi. In questa seconda fase della storia dei Frost* si può affermare che la scrittura è nelle mani dell'esperto duo Godfrey/Mitchell e da questo punto di vista Day and Age è un album dei Frost* a tutti gli effetti, dove i contributi dei due autori sono più che riconoscibili. Questa volta però la prima cosa che può essere rilevata è l'assente di quella particolare miscela che ha sempre portato i Frost* a cambiare e progredire. Day and Age risulta così un album di stallo all'interno della discografia del gruppo, un momento creativo che non aggiunge nulla a quanto già fatto in passato. Ma questa non vuole essere una critica severa, poiché è comprensibile che non si possa pretendere che ogni capitolo apporti qualcosa di differente.

La title-track, ad esempio, pur sfiorando i dodici minuti, si consuma in una prima parte dove è compresa una canzone (infatti disponibile anche in versione edit) che avrebbe potuto tranquillamente essere inclusa nel progetto solista di Mitchell Lonely Robot (senza nulla togliere, ma dai Frost* ci si aspetterebbe di più), proseguendo poi con una parte strumentale che invece è un vacuo contenitore di suoni tastieristici e chitarristici, ben ritmato ed eseguito, ma nnell'insieme abbastanza dimenticabile. Stesso discorso vale per la successiva Terrestrial, ineccepibile dal punto di vista interpretativo, ma un episodio di stesura quasi di routine per il duo.

Waiting for the Lie è un brano d'atmosfera guidato da piano e tastiere, a volte a carattere minimale, che pare un interludio allungato al quale sono stati donati connotati da pezzo compiuto. Sempre tra le composizioni più brevi (cioè normali se non si utilizzano i parametri prog) sono da includere Island Life e Skywards, molto gradevoli, ma nulla di più. The Boy Who Stood Still è la traccia più inaspettata, strumentalmente è la più interessante del lotto, riportando i Frost* a quell'electro prog presente sul precedente Falling Satellites, con la peculiarità di utilizzare al posto del cantato un racconto in spoken word per buona parte della sua durata.
 
Kill the Orchestra nelle intenzioni dovrebbe essere l'epic track, il pezzo di punta dell'album, ma dopo una timida introduzione di due minuti con Godfrey in solitaria tra tastiera e voce, prende il via con un insieme sonoro abbastanza standard, spinto da un groove cadenzato, anche se l'impasto si dimostra poco convinto, restituendo l'idea che anche la band sia poco partecipe emotivamente nell'esecuzione. Repeat to Fade ha una cadenza marziale e un tema musicale reiterato, edificato da bassi bombardanti e tastiere sontuose e algide, che donano al tutto un sapore industrial. Il giudizio generale è che Day and Age rimanga un'opera che riporta una versione un po' sbiadita dei Frost*, fotografia di un istante non molto ispirato in cui la band ha bisogno di un nuovo slancio, oppure, se questa sarà la direzione futura, fermarsi per riflettere su soluzioni più incisive.
 

mercoledì 10 giugno 2020

Frost* - Others EP (2020)


Dopo aver rimesso insieme i Frost* in seguito ad una lunga pausa di riflessione, il mastermind del gruppo Jem Godfrey sembra non volersi fermare, fortunatamente aggiungiamo. Il nuovo EP Others è solo un assaggio di ciò che ci aspetta in futuro ed è compilato con brani rimasti fuori dal precedente Falling Satellites, album pubblicato ormai quattro anni fa. Ma nuove offerte sono all'orizzonte, in quanto i Frost* stanno preparando un nuovo album che se tutto va come deve andare vedrà la luce a settembre, al quale seguirà poi un'antologia con artbook dal titolo 13 Winters e conterrà anche il qui presente EP che per ora è disponibile solo in versione digitale.

Others è un perfetto compendio (o appendice) a Falling Satellites, ripercorrendo con Fathers e Clouda il percorso di quel prog rock bombastico e futuristico che caratterizzava tracce coraggiose e originali come Towerblock e Numbers. Il martellante utilizzo di percussioni elettroniche tra l'umano e l'umanoide, le inondanti tastiere sintetiche, gli effetti distorti di voce e strumenti, fanno come sempre del progressive dei Frost* un mondo a sé stante, totalmente avulso dal panorama attuale del genere. Godfrey fonde benissimo elementi pop, synthwave, techno e colto in un contesto più ampio che non stona mai, anche quando si tratta delle esagerazioni da capogiro, specie nel caso della infuocata tribal dance di Exhibit A.

Stupisce poi Eat, un pezzo che si serve dei parametri tecnologici pop del momento e dei loro conseguenti trucchi di arrangiamento, poi in un colpo solo rimette in riga popstar mainstream sopravvalutate come Billie Eilish, mostrando cosa si può fare nel medesimo ambito con giusto un margine di talento in più. Down è infine un chiaro tributo di Godfrey ai Genesis di The Lamb Lies Down on Broadway, citando, neanche troppo velatamente, l'intenzione dell'incipit della title-track adattandola all'interno di un dream prog delicato e sognante. In definitiva i Frost* continuano a non sbagliare un colpo, ormai il loro stile è riconoscibile e per fortuna non si lascia mai tentare da facili datati canoni prog nostalgici.

venerdì 13 settembre 2019

Frost* - i primi due singoli tratti dall'EP "Others"


Questa estate i Frost* hanno annunciato l'uscita di nuovo materiale dai tempi di Falling Satellites (2016), che sarà contenuto in un EP dal titolo Others. Se ancora una data di uscita non è stata ufficializzata, il gruppo di Jem Godfrey ha appena reso disponibile i primi due nuovi brani tratti da Others, Fathom e Exhibit A, quest'ultima soprattutto è un interessante esperimento che spinge in modo spregiudicato lo stile prog bombastico dei Frost* a latitudini simil techno con uso abbondatissimo di elettronica e una ritmica martellante. Sembra quasi un proseguimento di Towerblock, della quale potete ammirare una spettacolare resa dal vivo nel video qui sotto. A tale proposito ricordo che il batterista Craig Blundell ha di recente dato l'addio alla band a causa di altri impegni e il suo sostituto non è ancora stato ufficializzato.





mercoledì 25 maggio 2016

FROST* - Falling Satellites (2016)


Se Jem Godfrey nel 2008 non avesse gettato la spugna con i Frost* dopo il secondo album Experiments in Mass Appeal, avrebbe potuto essere considerato a tutti gli effetti una specie di messia del prog moderno. Invece, in mezzo a questo lasso di tempo c'è stata una pausa di otto lunghi anni nei quali Godfrey ha deciso di eclissarsi dal suo progetto prog e ritornare dietro le quinte, concentrandosi sui suoi lavori di produzione per rallentare i ritmi per lui usuranti imposti dall'essere il leader di una band. Il ritorno dei Frost* è avvenuto quindi lentamente con la pubblicazione di un DVD live nel 2013, qualche data dal vivo e l'annuncio di due nuovi album che avrebbero costituito un progetto unitario intitolato Six Minutes In September, idea poi abbandonata in favore di questo Falling Satellites che nasce sotto i migliori auspici. Godfrey ha ricostituito il gruppo con il fidato John Mitchell alla chitarra (Arena, It Bites,Kino, Lonely Robot) e richiamando Nathan King al basso (che aveva sostituito John Jowitt) e Craig Blundell alla batteria, ma senza più Dec Burke. Come sempre, Mitchell condivide le parti vocali con Godfrey e questa volta anche il songwriting. Al che, questa notizia non può che creare un valore aggiunto all'opera, dato che che Mitchell, oltre ad essere un chitarrista di livello eccelso (vogliamo ricordare Black Light Machine?), è anche un ottimo compositore.



Nonostante lo stop forzato, Godfrey ha sempre dichiarato fin dall'inizio che sarebbe ritornato con i Frost* per un altro lavoro, anche per onorare il contratto con la InsideOut che prevedeva tre album, ma nessuno sapeva esattamente quando. Nel frattempo, il culto della band è giustamente cresciuto e con esso anche l'attesa. Considerando che i primi due lavori dei Frost* sono ormai dei classici indispensabili per capire come si possa produrre oggigiorno progressive rock con le moderne tecnologie, sfruttando tutte le commistioni ibride che ha da offrirci l'elettronica tanto detestata dai puristi, Falling Satellites si spinge ancora più in là. Non che vada a concorrere con l'ipetrofia sintetica di Experiments in Mass Appeal ma, partendo da quelle premesse, Falling Satellites osa aggiungerci tonnellate di chorus epici che scaturiscono da progressioni audaci e synth a profusione come sottolineano Numbers, Signs (molto nello stile di Mitchell e degli It Bites) e Heartstrings, raggiungendo livelli eccelsi sulla multiforme The Raging Against the Dying of the Light Blues in 7/8.

Godfrey rischia seriamente di inventare un nuovo genere che andrebbe catalogato sotto il nome di techno prog rock, non avendo paura di confrontarsi con beat a metà strada tra il drum n' bass e l'R&B (confondendo batteria umana ed elettronica) sulla sorprendente Towerblock, un'impressionante opera di montaggio digitale da rimanerne storditi, senza tralasciare le inclinazioni pop con cui spesso ha a che fare nelle vesti di produttore, mettendo sul piatto momenti più riflessivi come Lights Out e Last Day. L'esperimento con il pop continua su Closer to the Sun (che vede una breve comparsata di Joe Satriani nel solo centrale) e viene declinato in ambiti sempre pronti allo sconfinamento con quel prog anni '90 di Porcupine Tree, Ozric Tentacles e Steve Hillage che andava a flirtare con la cultura trance/dance molto vicina ai The Orb. Con la strumentale Nice Day for It... (una citazione da "Guida Galattica per Autostoppisti") si ritorna a quelle citazioni sonore che ricordano le soundtrack plastiche degli anni '80 di cui parlavamo già nella recensione di Affinity degli Haken (e quando si decideranno a fare un monumento postumo all'ingiustamente dimenticato Vince DiCola sarà sempre troppo tardi). Con Falling Satellites i Frost* non fanno altro che farci rimpiangere la loro assenza durata anche troppo tempo, regalandoci un altro album pazzesco.



 http://frost.life/

martedì 18 dicembre 2012

Il ritorno dei Frost*

Dopo un prolungato periodo di inattività, Jem Godfrey quest'anno ha annunciato di rimettere in piedi il suo progetto Frost* e, attualmente, sta preparando il terzo album in studio della band che si prevede uscirà nel 2013.

Nel frattempo, domenica si è tenuto il concerto "natalizio" dei Frost* dal quale sono trapelati questi due brani inediti: Heartstrings e Fathers. La qualità audio/video non è eccelsa, ma può comunque dare un'idea della direzione che prenderà il nuovo lavoro.



lunedì 19 marzo 2012

IT BITES - Map of the Past (2012)


Map of the Past arriva a ben quattro anni di distanza da The Tall Ships, album che segnò il ritorno degli It Bites dopo il loro scioglimento diciotto anni prima. Ma la riformazione degli It Bites non andrebbe vista come una semplice reunion nostalgica (e non solo perché Francis Dunnery non vi ha preso parte); gli It Bites del presente sono effettivamente una band diversa con un percorso musicale totalmente rinnovato. E ci mancherebbe, visto che il loro pop prog sarebbe stato alquanto anacronistico di questi tempi. Il rinnovamento è passato attraverso i Kino che poi si sono evoluti in questa nuova incarnazione degli It Bites.

Il merito di questa ritrovata armonia compositiva penso vada attribuita all'attuale front man John Mitchell (chitarrista, cantante, autore e produttore), responsabile di aver portato nuova linfa musicale ai membri storici Lee Pomeroy, John Beck e Bob Dalton. Da tempo sostengo che la figura di Mitchell è una delle più importanti e rilevanti nell'odierno panorama progressivo inglese. A parte i suoi trascorsi negli Arena e nella alternative rock band The Urbane, il contributo di Mitchell ai progetti a cui ha preso parte è sempre stato di alto profilo, sia quando deve sottostare alla direzione di altri (nei Frost* di Jem Godfrey), sia quando è un membro attivo (Kino e It Bites).

Map of the Past è un concept album che prende le mosse da alcune vecchie foto di famiglia ritrovate dal protagonista che divengono a loro volta il pretesto per raccontare un pezzo di storia della Gran Bretagna. Messo in questi termini ci si aspetta qualcosa di grandioso e pomposo, ma gli It Bites riescono a rimanere umili con dei brani più riflessivi e meno avventurosi rispetto a quelli di The Tall Ships, ma non per questo meno emozionanti.

Man in the Photograph, con il suono di organo quasi cerimoniale, funge da introduzione e lascia ben presto lo spazio al rock diretto di Wallflower. Di seguito arriva il primo pezzo da novanta che è la title-track che riporta quel gustoso progressive pop che aveva segnato le migliori pagine di The Tall Ships. Altrettanto fanno Clocks, Flag e The Big Machine. La chitarra di Mitchell è appassionata come non mai, tanto nei dolci arpeggi quanto nei solismi. Cartoon Graveyard, Meadow and the Stream e Send No Flowers sono un buon compromesso tra la teatralità dei Genesis degli anni '70 e quelli art rock degli anni '80, con Beck impegnato in passaggi di organo che ricordano proprio il lavoro di Tony Banks. L'album non potrebbe avere chiusura migliore con The Last Goodbye, che fin da ora si candida ad essere una delle migliori canzoni dell'anno, una rock ballad altamente coinvolgente nella sua liricità armoniosa, interpretata con gran classe dalla calda voce di Mitchell che si porta a casa l'ennesimo assolo da favola. Verrebbe da dire che bastano questo pezzo e la title-track per apprezzare Map of the Past, ma il lavoro nel suo complesso offre dei buoni spunti melodici.

www.itbites.com

domenica 7 novembre 2010

TINYFISH - The Big Red Spark (2010)


I Tinyfish finora non erano una band che mi aveva molto impressionato. L'esordio omonimo del 2006 e la controversa raccolta di brani non propriamente progressive Curious Things sinceramente non facevano intravedere il potenziale e il successivo exploit di The Big Red Spark, uscito a settembre dopo tre anni di lavorazione.

I Tinyfish amano definirsi "la più piccola progressive rock band del mondo", autoprodotta e autofinanziata e in effetti se uno dà un'occhiata ai vari video-documentari del loro sito ufficiale si intuisce quanto sia casalingo l'approccio alle registrazioni. Simon Godfrey (fratello di Jem, leader dei Frost*) ha radunato attorno a sé un gruppo di amici con l'intento di creare una band progressive sui generis, senza tastiere e basata essenzialmente sulle chiatrre, con un suono molto orecchiabile da pop rock. Quest'ultima prerogativa non sarà una vera e propria novità per chi da anni segue il progressive, in quanto negli anni '90 molte band hanno contribuito a rendere il prog più accessibile, attirandosi talvolta anche gli strali dei più intransigenti fan del genere. E se pensate ad alcune di queste band tipo Spock's Beard, Flower Kings o Porcupine Tree, non siete poi così lontani dalla proposta dei Tinyfish.

Il gruppo di Simon Godfrey però è molto meno pretenzioso e più diretto ed è questo che fa di The Big Red Spark un ottimo album. Forti melodie, potenti interventi solisti e un approccio moderno ed essenziale al progressive, alla maniera del grande Kevin Gilbert.


The Big Red Spark è un concept album dal taglio sci-fi che parla di una macchina inventata dall'uomo capace di esaudire i suoi desideri e tra le tracce molti sono gli interventi in forma narrata (pure troppi per i miei gusti). Ciò non toglie che questo aggiunge maggiore varietà ad un album che può contentare allo stesso tempo coloro che amano il prog potente e metallico (Rainland, Bad Weather Road), ma anche quello immerso in atmosfere più lente quasi da ballata psichedelica (la title-track, I'm Not Crashing). E' innegabile che tra tutti i pezzi spicca la conclusiva Wide Awake at Midnight, 10 minuti dove il gruppo dà il meglio di sé, sia dal punto di vista compositivo sia dal quello emotivo, dato che il tempo scorre via piacevolmente. Un plauso infine alla chitarra di Jim Sanders che per tutto il disco regala assoli davvero ben orchestrati.

Nell'edizione limitata è contenuto un DVD con un documentario sulla band e quattro bonus track inedite, anch'esse molto ben fatte. I Tinyfish, da piccola band di progressive rock, con The Big Red Spark entrano così nel mondo degli adulti con il proposito di rimanerci. Una sorpresa.


sabato 15 maggio 2010

Frost* - The Philadelphia Experiment (2010)


I Frost* hanno annunciato la realizzazione del loro live The Philadelphia Experiment per il 1 giugno. L'album è un doppio CD (con il concerto registrato live al RosFest 2009, più l'inedito in studio di 17 minuti The Dividing Line) con in aggiunta un DVD con un documentario di 42 minuti sul backstage.
L'album può già essere preordinato sul sito www.frost-music.co.uk

CD1:
Intro
Hyperventilate
The Forget You Song
Wonderland
Falling Down
Black Light Machine
Experiments In Mass Appeal
Snowman
Story Time
Pocket Sun
Saline
Dear Dead Days

CD2:
Milliontown
The Other Me
The Dividing Line

venerdì 21 agosto 2009

FROST* - esperimenti sul prog di massa

E' vero, sono un po' in ritardo con i tempi, ma confesso che ero abbastanza scettico su questo progetto del "Re Mida" del pop inglese compositore, arrangiatore e produttore Jem Godfrey. Non mettevo in dubbio la sua competenza, ma mi inquietano questi personaggi che all'improvviso, dopo aver scritto e prodotto pezzi per gente del "calibro" di Atomic Kitten e Ronan Keating, si mettono a suonare progressive.

Invece il nostro Jem è un veterano al quale è sempre piaciuta la musica prog e ha voluto creare i Frost* per dedicarsi a questo. Fatto sta che ho ascoltato Milliontown e Experiments in Mass Appeal solo di recente e devo dire che sono due album eccezionali!

I Frost* rappresentano per Godfrey un diversivo dove può dar sfogo al suo amore mai sopito per il progressive rock. Dopo aver chiamato attorno a sé alcuni dei nomi più in vista della scena prog inglese come il chitarrista e cantante John Mitchell (Kino, It Bites, Arena), il bassista John Jowitt (IQ, Jadis) ed il batterista Andy Edwards (IQ) il supergruppo registra il primo album.

Milliontown (2006) è un lavoro che si ispira al neo prog più moderno con un suono carico ed enfatico orientato anche verso l’elettronica, ma estremamente melodico. I punti di riferimento di Godfrey sono i Kino e soprattutto gli Spock’s Beard. La strumentale Hyperventilate è quanto di meglio possa offrire il progressive contemporaneo, un tour de force muscolare e tecnicamente tiratissimo. La produzione è satura e in dei momenti sembra di sentire la heavy fusion di Steve Vai che si diluisce nei romanticismi dei Genesis. No Me No You assomiglia molto al progressive orecchiabile degli Spock’s Beard, mentre Snowman e The Other Me hanno un retaggio più inclinato verso il pop elettronico. L’ottima Black Light Machine è invece un compromesso tra le due direzioni. Il cuore dell’album è la sontuosa title-track (26 minuti) che comincia con delicate suggestioni genesisiane per poi esplodere in una magniloquente sinfonia per tastiere.

Dopo aver sciolto la band nel 2007 a causa di altri impegni di lavoro, Godfrey rimette assieme i Frost* e, alla fine del 2008, dà alle stampe il secondo album Experiments in Mass Appeal. Il lavoro, se possibile, è ancora più fastoso di Milliontown con la sua produzione traboccante, i suoi cromatismi debordanti e con i suoi suoni oltremodo moderni. Su tutto l’album aleggia più che mai lo spirito del prog melodico degli Spock’s Beard di Neal Morse (Welcome to Nowhere), ma Godfrey non ha alcuna paura delle contaminazioni e utilizza benissimo, ad esempio, anche germi di industrial-techno nello stile dei God Lives Underwater (Pocket Sun, Falling Down). Pur rimanendo nei confini del progressive pop (Toys) e sfruttando progressioni armoniche degne del miglior Kevin Gilbert, i Frost* creano un progressive alquanto anomalo, come nelle straripanti arie di Dear Dead Days. L’unione tra chitarre e tastiere non è mai stato così pregnante e frenetico, alternando momenti calmi ad altri più convulsi.