sabato 29 aprile 2017

The Kraken Quartet - Separate | Migrate (2017)


Avevamo presentato qualche mese fa i The Kraken Quartet alle prese con una sessione dal vivo negli studi Audiotree. Per l'occasione il quartetto di Austin, Texas, si era cimentato in cinque tracce ancora inedite tratte dal proprio esordio che avevano in cantiere Separate | Migrate e che adesso viene pubblicato ufficialmente. Da quella testimonianza live era impossibile non notare la particolarità del gruppo, indirizzata principalmente verso gli strumenti a percussione. Vale la pena quindi nominare i musicisti e gli strumenti a loro associati che sono Chris Demetriou (vibrafono elettrico, percussioni), Andrew Dobos (marimba, synth, percussioni), Taylor Eddinger (batteria, synth, percussioni) e Sean Harvey (batteria, synth, percussioni). Come vedete non compaiono chitarre, bassi, strumenti a fiato o tastiere: se si eccettua qualche intervento di sintetizzatore la costruzione armonica dei pezzi rimane quasi esclusivamente sulle spalle di marimba e vibrafono.

Il fatto che i The Kraken Quartet non usino strumenti propriamente compresi nella sfera rock, ma in quella jazz e fusion non fa altro che sottolineare quanto oggi le linee di confine tra i due generi si siano ristrette. Partendo dalla preziosa lezione di quanto fatto dal virtuoso Gary Burton per lo sviluppo e la divulgazione nel jazz di strumenti quali la marimba e il vibrafono, applicando ad essi una tecnica simile al piano grazie all'utilizzo di quattro martelletti anziché due, i The Kraken Quartet sposano le soffici sonorità degli idiofoni con ruvide schegge di math rock ed elettronica, arrivando talvolta ai confini del minimalismo (Amethyst, Giant Battle Robot's Day Off). La presenza di due batterie assicura abbondanza di poliritmie, in più i contrappunti o le linee melodiche dettate dai synth, come accade in House 11 e nella title-track ad esempio, si fondono molto bene con il timbro delle percussioni a metallo. Anche l'interplay tra queste ultime e le batterie viene risaltato e incrociato, arrivando su The Gates alle sperimentazioni che lo scorso anno abbiamo trovato in band di electro math rock tipo Strobes e Three Trapped Tigers. In altri brani come Ox e Clover è interessante rilevare come sia affascinante questo continuo oscillare della band tra le vesti di piccolo ensemble orchestrale e combo elettronico di math rock. Con Separate | Migrate i The Kraken Quartet entrano quindi nel mondo della musica math prog dalla porta principale.



https://thekrakenquartet.com/

venerdì 28 aprile 2017

Tetrafusion - Dreaming of Sleep (2017)


L'ultima prova in studio della band Tetrafusion risale al 2012 con l'ottimo EP Horizons che aveva seguito il secondo album Altered State del 2010. Dreaming of Sleep ha avuto quindi una lunga gestazione, ma non poteva essere altrimenti visto che la sezione ritmica composta dal bassista Mark Michell e dal batterista J.C. Bryant è stata impegnata fino allo scorso anno negli Scale the Summit di Chris Letchford, con il quale i due musicisti si sono separati in maniera non del tutto amichevole per usare un eufemismo, dando luogo anche ad uno strascico polemico (si parla di compensi non pagati).

Che Bryant e Michell siano il motore principale dei Tetrafusion lo si capisce dalla prominenza che assumono i loro strumenti nell'economia sonora del gruppo. La chitarra di Brooks Tarkington e le tastiere del cantante Gary Tubb non sono chiamate spesso ad occuparsi delle parti soliste infatti, ma rivestono comunque un fondamentale ruolo negli accompagnamenti dei power chords e nei fraseggi matematici. I brani proseguono in un continuo scambio delle parti, molto spesso collegati tra loro senza soluzione di continuità, facendo di Dreaming of Sleep un imponente e monolitico album che unisce le digressioni pesanti del prog metal con le pratiche virtuose della fusion.

Che ci sia anche la voce di Tubb, non diciamo a fare da contorno ma da valore aggiunto, è solo un punto in più all'interno di una musica pensata come fosse un continuo tour de force per chi suona. Il jazz metal freddo e affilato di Dreaming of Sleep richiama quasi la meccanica di Gordian Knot e Cynic, non a caso due band che potevano contare sul basso propulsivo di Sean Malone al quale Michell sembra ispirarsi, anche se i Tetrafusion si spingono ancora più a fondo in meandri dai tratti quasi futuristici mutuati dall'elettronica delle tastiere di Tubb. Un lavoro che per la sua impostazione complessa e meccanica quasi si disumanizza, richiamando gli algidi scenari post apocalittici dei Voivod, anche se qui parliamo di tutt'altro stile di prog metal. I Tetrafusion sono comunque degli alieni o androidi che, parafrasando Philip K. Dick, sognano jazz metal elettrico.

mercoledì 26 aprile 2017

MEW - Visuals (2017)


Nelle recensione dedicata a +-, l'ultimo album in studio dei Mew, ci lamentavamo dell'abitudine della band di far passare diverso tempo tra un album e l'altro. Questa volta l'attesa per un nuovo lavoro è durata sorprendentemente solo due anni ma, se +- aveva visto il ritorno del bassista Johan Wohlert ricomponendo in tal modo il quartetto originale dei Mew, Visuals deve fare i conti con l'addio di un membro storico del gruppo: il chitarrista Bo Madsen. I Mew sono così tornati ad essere un trio nel 2015 e quindi è implicito che Visuals sia il frutto dei soli Jonas Bjerre, Silas Jørgensen e Wohlert, anche se a livello di economia sonora, per amore di verità, la differenza non si percepisce, come non aveva pesato l'assenza di Wohlert. Questa enfasi o preoccupazione riguardo le sorti della line-up non è casuale quando si parla di una band come i Mew, dove ogni membro è stato una pedina fondamentale nella peculiare messa a punto di un "wall of sound" originale e personale il quale, nonostante i cambiamenti, ha sempre dimostrato che la formula dei Mew è più solida e forte di qualsiasi crisi.

Visuals in questo senso parte alla grande, con una prima metà di una bellezza quasi ammaliante, raggiungendo delle vette di lucidità che il gruppo non toccava dai tempi di And the Glass Handed Kites, sempre però continuando in un percorso lontano da quel capitolo maiuscolo. Ma andiamo con ordine. Gli ultimi lavori ci avevano presentato una band curiosa di sperimentare ed evolversi nel proprio universo di synth pop e math prog ed erano stati così radicali in una direzione o nell'altra - No More Stories più prog e avventuroso, +- più orientato su sonorità pop - da lasciare interrogativi su come la band potesse ancora aggiungere qualcosa di nuovo e degno di interesse. Visuals riesce in tale compito, raggiungendo un equilibrio tra prog e pop davvero encomiabile, anche se è il secondo aspetto ad essere privilegiato. Probabilmente le melodie accessibili, pastose e orecchiabili dei Mew sono le uniche a richiedere un ascolto attento ed assorto, senza necessariamente dover battere mani e piedi, dovuto al fatto delle molteplici stratificazioni e Visuals spinge molto su tale effetto. A parte la voce angelica di Bjerre, i paesaggi sonori immaginati dai Mew hanno un fascino del tutto particolare, creando un insieme di timbri veramente unici.

Persa la chitarra baritono di Madsen, da una parte i Mew ovviano a tale mancanza edificando un caleidoscopio sognante di tastiere nella dolcissima Nothingness and No Regret, nel singolo 85 Videos e nella ballad Carry Me to Safety, ricordando a tutti che loro erano stati (e sono ancora) l'avanguardia synthwave quando ancora il revival era ben lontano e non andava di moda come adesso. Dall'altra ne rivitalizzano il ricordo nei riff obliqui di The Wake of Your Life e Candy Pieces All Smeared Out, due canzoni che segnano un connubio organico tra synth pop dai chorus perfetti e trame dalle involuzioni sottili. Ay Ay Ay è forse il miglior risultato nella convivenza tra le due parti di vecchio e nuovo - o meglio - passato e presente: basso e batteria in controtempi tribali, addolciti da arpeggi riverberati, sono congiunti ad un suggestivo ed avvolgente chorus. La seconda parte dell'album, adagiandosi su dei sentieri meno avvincenti ma ugualmente interessanti, è occupata da brani quasi interlocutori come Zanzibar e Shoulders oppure molto particolari come Learn Our Crystals e Twist Quest che fanno sfoggio di ritmiche tra il sudamericano e il math rock, sottolineate dalla leggera novità dell'utilizzo dei fiati (presenti anche nel finale di In a Better Place in odore di post rock) che ne accentuano la dimensione ballabile. In questo momento forse non poteva essere altrimenti, ma Visuals è l'album dei Mew che suona più anni '80, anche se rimane nella sfera del tutto riconoscibile della band, e quello che li ricongiunge alla matrice rock più diretta che era propria di Frengers.  






lunedì 24 aprile 2017

Outrun the Sunlight - Red Bird (2017)


Da molto tempo a questa parte, salvo qualche rara eccezione, faccio molta fatica ad ascoltare il post rock, poiché il suo sviluppo si è bloccato prematuramente imbrigliato in alcuni schemi stilistici molto spesso prevedibili e scontati. In un tipo di musica divenuta così descrittiva e "cinematica", molte band dimenticano talvolta di donare il giusto risalto o equilibrio alle dinamiche che per un genere come questo può rappresentare a volte solo un beneficio o un valore aggiunto. Fortunatamente c'è ancora chi, come Caspian, Circadia e Meniscus (per fare alcuni nomi), riesce a spremere qualcosa di interessante da dire a proposito di post rock.

Gli Outrun the Sunlight andrebbero aggiunti alla lista, dato che si erano ben destreggiati tra le trappole del post rock metallico con l'ottimo Terrapin e ora ci riprovano, con sempre buoni risultati, in questo EP di quattro tracce dal titolo Red Bird. La title-track in realtà è più una costruzione dosata di calme atmosfere ondivaghe che non sfocia mai in vere e proprie deviazioni potenti. Le cose cambiano invece da Synergy che, pur iniziando con un clima intimo, continua e si conclude nei meandri del blackgaze e minimalismo metal. Il tutto ci prepara agli oscuri nove minuti di The Danger of Alignment, intrisa di riff cupi e cosmici, e poi al metal psichedelico di Remaining in a Constant State of Discomfort. I quattro brani di Red Bird non aggiungono molto al precedente Terrapin, se non una vena da atmospheric metal ancor più accentuata che permette agli Outrun the Sunlight di confermarsi a proprio agio in qualsiasi dinamica o piega che può prendere la materia sonora alla quale viene attribuito il prefisso "post", che sia rock, metal o prog.


sabato 22 aprile 2017

Sorprese e ritorni: uno sguardo alle nuove uscite del 2017


Dato che le notizie su nuove incombenti pubblicazioni si stanno accumulando, anche con notevoli sorprese di ritorni attesissimi, credo sia bene fare il punto della situazione di quello che ci aspetta almeno da qui a questa estate.

Citerò alcuni album di interesse che ho segnalato anche nella mia pagina RYM e Facebook, cominciamo quindi dalla settimana prossima: il 28 aprile sono in uscita Visuals dei Mew e Grimspound dei Big Big Train, oltre che Dreaming of Sleep dei Tetrafusion che arriva a cinque anni di distanza dall'ottimo EP Horizons.







Il 19 maggio sarà la volta del terzo LP del trio giapponese Tricot, dal titolo 3, che per la prima volta avrà una distribuzione anche al di fuori del Giappone grazie alle etichette Topshelf Records (in USA) e Big Scary Monsters (in Europa).



Poi, sorpresa delle sorprese, il 26 maggio sarà pubblicato finalmente, dopo 15 anni di attesa e rinvii, il secondo album dei Bubblemath Edit Peptide attraverso la prestigiosa Cuneiform Records. Sempre da questa etichetta vedrà la luce il 12 maggio Putting Off Death dei CHEER-ACCIDENT.





Il 2 giugno, oltre al nuovo album di Roger Waters, gli Eidola usciranno con il terzo album della loro carriera To Speak, To Listen e poi, il 16, toccherà ai CHON con la realizzazione di Homey.





Infine, come spero già sappiate, i Bent Knee torneranno ad un solo anno di distanza dall'osannato Say So, con il nuovo Land Animal addirittura pubblicato per la InsideOut Records. Direi che i ragazzi stanno meritatamente bruciando le tappe! Finora dell'album è stata resa nota solo la title-track, ma dalla tracklist ho notato che sarà presente anche These Hands, canzone che era stata precedentemente inclusa nella compilation Boston Session vol.1: Beast.


venerdì 21 aprile 2017

Eternity Forever - Fantasy EP (2017)


Questo EP degli Eternity Forever potrebbe essere l'ibrido più anomalo che ascolterete quest'anno, già solo per il fatto che ne leggete un piccolo resoconto tra queste pagine. Se Fantasy EP si trova su altprogcore è perché ormai abbiamo imparato a conoscere bene i nomi degli autori che si celano dietro tale sigla: il supertrio è formato da Kurt Travis alla voce (Dance Gavin Dance, A Lot Like Birds), Ben Rosett alla batteria (Strawberry Girls) e Brandon Ewing al basso e alla chitarra (CHON). Un connubio di artisti interessante che però non si cimentano in post hardcore, math rock o progressive rock nel modo in cui hanno affrontato i propri gruppi d'appartenenza ma, se premete "play", al primo ascolto potrete rimanere spiazzati da ciò che hanno da offrire gli Eternity Forever: canzoni RnB e soul pop con melodie sensuali e radiofoniche che farebbero invidia a qualsiasi autore di black music.

Ma attenzione perché Fantasy EP, sotto sotto, è molto di più. E' un sopraffino esperimento di scontro tra stili: il sacro e il profano, il basso e il colto, il popolare e l'alternativo. La title-track funge come biglietto da visita che imposta l'atmosfera sinuosa attraverso dei riff chitarristici math funky molto simili a quelli creati dagli Strawberry Girls, ma è il cantato in stile quasi hip hop a dargli un'impronta più radicale. Il fatto che arrivi a gradire e a scrivere certe cose senza farmi venire l'orticaria credo dia la misura di quanto ci sia di buono in realtà in questo progetto. Per i restanti tre pezzi il gruppo si muove più o meno sulle stesse coordinate, in una varazione sul tema con lo smooth jazzy Letting Go, che rimane il pezzo forte, mettendo alla prova le doti math pop di Brandon Ewing, il quale è anche il protagonista degli arpeggi clean di All Alone e Movies. Forse è proprio la sua chitarra a fare la differenza per rendere riconoscibile l'impronta math rock, specialmente nei licks di apertura di Movies, all'interno di un EP in cui si nasconde un cuore tecnico, ma talmente accattivante da rappresentare una sorpresa da guilty pleasure.


mercoledì 19 aprile 2017

The Physics House Band - Mercury Fountain (2017)


Con solo un EP all'attivo, Horizons/Rapture, pubblicato esattamente quattro anni fa, il trio The Physics House Band arriva a questo mini album Mercury Fountain con già un seguito di culto nell'ambiente math/prog. Adam Hutchison, Sam Organ e Dave Morgan hanno capitalizzato questo tempo - mentre studiavano musica insieme a Brighton - componendo e suonando dal vivo, con una puntata all'edizione 2014 dell'ArcTanGent festival che è diventato in pochi anni un punto di riferimento per questo tipo di musica. Per attirare l'attenzione non c'è stato nulla di meglio, sino ad ora. Infatti il 21 aprile è in arrivo per la Small Pond Recordings il loro nuovo lavoro che sicuramente, date le sue caratteristiche così in sintonia con il post prog contemporaneo più evoluto, non mancherà di infoltire ancora un po' la schiera di pubblico dei The Physics House Band, una band dal grande potenziale .

L'energia sprigionata da Mercury Fountain è pari ad un torrente magmatico nel quale sono state sciolte le peripezie ritmiche ed elettriche di The Mars Volta e dei Three Trapped Tigers, anche se, di contro, la sua breve durata ne fa nascere in noi il bisogno di averne di più. L'album si dipana in un viaggio sonico senza soluzione di continuità (come fosse un'unica suite) che si divide equamente in sezioni tra un prog hardcore dai tempi frenetici e irregolari e sperimentazioni psichedeliche d'avanguardia. Tale bilanciamento è sottolineato dalla scelta, nella scaletta, di far susseguire tracce dal valore antitetico: e così alle pulsazione da codice morse di Calypso e ai bombardamenti ricolmi di fuzz e bassi perforanti di Surragoate Head e della multipartita Obidant, corrispondono gli spazi ambientali di Holy Caves e gli universi minimali di A Thousand Small Spaces e Impolex. Nel lento dispiegarsi di forze che è The Astral Wave, che parte come un'elegia acustica post rock e termina come un jazzcore orchestrale, il tutto viene incorniciato dalle due parti di Mobius Strip come a suggerire che inizio e fine di Mercury Fountain sono collegati tra loro in un loop infinito. Quindi possiamo ripartire nell'ascolto, ma il dischetto lascia comunque quella necessità e voglia di approfondire la proposta del gruppo oltre questi trenta, sessanta, novanta circolari minuti.







venerdì 14 aprile 2017

La reincarnazione degli Envy on the Coast


Quando a Casey Crescenzo dei The Dear Hunter nelle sue prime interviste veniva posta la classica domanda su quale band apprezzasse al momento, gli Envy on the Coast erano sempre tra i primi ad essere menzionati e non solo perché avevano condiviso con loro alcuni tour, ma traspariva vera e propria stima da parte di Crescenzo. Solo per dire, gli Envy on the Coast nel tempo si sono ritrovati nei palchi accanto a Thirty Seconds to Mars, Taking Back Sundays, The Receiving End of Sirens, The Fall of Troy e molti altri.

La band si presentava con Ryan Hunter (voce) Brian Byrne (chitarra) Sal Bossio (chitarra, tastiere), Jeremy Velardi (basso) e con vari ricambi per quanto riguarda la batteria dopo la fuoriuscita di Dan Gluszak nel 2009. Nel 2010 avvenne la separazione del gruppo e i membri si sono dedicati in seguito ad altri progetti: Hunter e Byrne hanno proseguito nei NK per poi dividersi ancora: Hunter si è occupato di un progetto solista di R&B e elettronica minimale chiamato 1st Vows, mentre Byrne è adesso alle prese con il moniker The Hand That Wields It del quale uscirà a breve un primo EP. Dall'altro lato Bossio e Gluszak si sono ritrovati e hanno formato gli Heavy English con connotazioni simili, ma più accessibili, agli Envy on the Coast.

Tornando agli Envy on the Coast, dopo un primo omonimo EP, hanno prodotto soltanto due album con i quali però sono riusciti a lasciare il segno. L'esordio è fulminante con Lucy Gray nel 2007 e, per capire di quale stima godesse il gruppo, si pensi che l'album conta come ospiti Anthony Green dei Circa Survive (nel brano The Gift of Paralysis) e Daniel Nigro degli As Tall As Lions (nei brani (X) Amount of Truth e "...Because All Suffering is Sweet to Me...", oltre a sfoggiare un artwork ad opera di Drew Roulette dei Dredg. Lanciato dai singoli Sugar Skulls e Mirrors, entrambi segnati da un'andatura pop punk che non rende a pieno le sfumature hardcore della band, Lucy Gray mostrava una band capace di segnare dei veri e propri classici per il genere come il già citato cavallo da battaglia The Gift of Paralysis e poi If God Smokes Cheap Sigars, Tell Them That She's Not Scared e Vultures e allo stesso tempo di immergersi in ballate soft come Starving Your Friends per piano solo e Lapse per sola chitarra che, poste nella tracklist una di seguito all'altra, formano un dittico da atmosfera raccolta.



Il secondo e ultimo album, Lowcountry (con la copertina questa volta curata da Justin Beck dei Glassjaw), era alquanto differente: uno strano ibrido tra post hardcore e southern rock che avrebbe potuto accontentare un pubblico trasversale che va dall'hard rock all'heavy metal, dal blues allo stoner rock, ma la sostanza deflagrante rimaneva invariata. La voce di Hunter era potente come non mai nell'introduttiva Death March on Two, Ready?, mentre la chitarra di Byrne sposava un sound polveroso e rauco più incline ai Led Zeppelin che non agli At the Drive-In. Un cambio di prospettiva inaspettato che comunque ha mantenuto il livello qualitativo altissimo e un sound compatto e originale che rimane costante per tutta la durata, tanto che anche le quattro bonus tracks presenti nell'edizione deluxe di Lowcountry sono pezzi di prima scelta.



Le voci che gli Envy on the Coast potessero tornare insieme sono state alimentate da un video di uno show dei 1st Vows avvenuto i primi di maggio e postato sulla loro pagina Facebook, dove Hunter e Byrne durante il bis hanno suonato due canzoni degli Envy on the Coast. La risposta da parte dei fan è stata così calorosa che il 17 maggio 2016 i due hanno dato l'annuncio ufficiale di una reunion degli Envy on the Coast per tre date in agosto: a New York, Long Island (la loro città natale) e Boston. La notizia non sarà importante come la reunion degli At the Drive-In, però la segue subito a ruota in quanto gli Envy on the Coast sono stati tra i gruppi post hardcore più importanti nel circuito alternativo statunitense dello scorso decennio. E anche qui c'è stato un colpo di scena perché subito dopo l'annuncio, Bossio, in uno statement nella sua pagina Facebook, ha fatto sapere che lui, Velardi e Gluszak non faranno parte della reunion. In effetti, Hunter e Byrne non hanno dichiarato esplicitamente che si sarebbe trattato di una reunion, limitandosi a pubblicare le date con il nome della band e replicando proprio ieri che nella didascalia al video postato si faceva cenno al fatto che, per ora, il meglio che avrebbero potuto fare loro due per riportare in vita lo spirito degli Envy on the Coast è suonare le canzoni della band insieme ad altri musicisti. Comunque sia, ne è nato un equivoco la cui storia completa potete leggere qui e dove i due musicisti vedono questa nuova partenza non come una reunion, ma come una reincarnazione.

edit 14/04/2017

Dopo un anno di tour con questa nuova formazione, gli Envy on the Coast tornano anche a pubblicare nuovo materiale con un EP dal titolo Ritual in uscita il 30 giugno. Presentando il nuovo singolo Manic State Park, la band ha anche reso noto di essere entrata nella scuderia dell'etichetta Equal Vision Records.



martedì 11 aprile 2017

Intervista con i Calla


Intervista e traduzione a cura di
Francesco Notarangelo

Questa è una storia lontana e mitica, è come ritrovarsi e abbandonarsi all’esigenza dell’illusione, nel fatto che tutti noi, sempre insoddisfatti, siamo alla perenne ricerca di qualcosa che ci accompagni nell’ignoto e ci restituisca uno straccio di appartenenza. La musica dei Calla è qualcosa di unico: evoca i luoghi notturni dell’anima, ci culla con suoni talmente semplici da essere geniali...è lenta, avvolgente, ipnotica e spettrale. Compare dappertutto un senso di mistero e di attesa. Aurelio, sussurrando e quasi copiando Elliott Smith, ci racconta di difficoltà di disagio, ma anche di vendetta e di morte...Calla e soprattutto Televise, un gruppo da conoscere, un album da possedere, da amare.


Come sono nati i Calla?
I Calla si formarono dai restanti membri di una nostra prima band in Texas tra il '92 e il '96 chiamata The Factory Press dopo essersi trasferiti a New York. Nel ’95 registrammo il nostro ultimo album con Kid Congo Power. Ci fermammo per un po’, iniziai a cantare e Sean Donovan si dedicò a suonare il basso e le tastiere mentre Peter Gannon prese una piccola pausa per tornare in Texas. I Calla erano quindi formati da Wayne Magruder, Sean Donovan ed io. Subito dopo la registrazione del primo demo nel '96, noi firmammo in Belgio con la Sub Rosa. Poco dopo firmammo con la Young God di Michael Gira, poi con l’Arena Rock e in ultimo con la Beggars Group.


Come riusciste a creare un’atmosfera così magica e dolce nelle vostre canzoni?
Abbiamo speso molto tempo a suonare e sperimentare fino a tarda notte. Spesso anche da soli nei nostri piccoli appartamenti per non disturbare nessuno. Siamo riusciti ad esprimere noi stessi utilizzando il minor numero di strumenti e suoni possibili. Poi in sala prove magari stravolgevamo il tutto cercando suoni un pò più duri, ma è sempre stato per noi fondamentale riuscire a divertirci e ottenere una vera e propria libertà artistica che alla fine si è espressa nel suono dei Calla.


Com’era l’atmosfera musicale quando vi trasferiste dal Texas?
Quando ci siamo trasferiti a New York la scena era dominata da band garage come Jon Spencer Blues Explosions, Spedball baby, Jonathan Fire*Eater, Chrome Cranks. Per noi era davvero un mondo strano…la factory press aveva prodotto un sacco di gruppi interessanti come Bauhaus, Joy Division, band che si ispiravano ai Wire. Avevamo decisamente gli elementi giusti per entrare a far parte di qualcosa di magico.


Da cosa deriva il nome Calla?
Cercavamo una singola parola. Ascoltavamo Autechre, Tricky, Labradford, Tindersticks e volevamo chiamarci un po' come loro. L’ispirazione ci venne fornita dalla foto di Robert Maplethorpe Calla. Sembrava un nome semplice ma forte, buono ma deciso.


Com’è il vostro metodo di registrazione?
Provenendo tutti da realtà diverse, spesso ci sedevamo ad ascoltare e discutere di ogni singola idea al fine di trovare la perfetta unione. Sean portava ad esempio pezzi che suonavano come John Cage e Steve Reich, Wayne portava invece qualcosa di più simile ai Massive Attack ed io dovevo concentrarmi su come cantare. Mi sono quindi ispirato ad usare una voce leggera ed intima ispirandomi anche un po' ai Talk Talk.


Chi decideva i nomi delle canzoni e i testi?
Inizialmente tutti volevamo esserne parte e scrivere qualcosa di personale, ma poi alla fine del processo, ero io a completare il testo e dare il nome alle singole canzoni..



Vi hanno influenzato i Cure?
Quando abbiamo iniziato a suonare (1986-1987) i Cure erano considerati una band molto importante. Ogni loro album fino a Disintegration era un capolavoro da possedere. Incontrai Pete a Kingsville, Texas, nel 1988...sapevo che aveva suonato in una band metal, ma cercava suoni diversi, più intimi. Ricordo che indossava una maglietta degli Smiths e occhiali con una montatura molto spessa alla Morrissey. Fin da subito ci siamo trovati. Wayne mi è stato presentato da Pete, indossava una maglietta dei New Order ed un berretto. Appena ci comunicò che sapeva suonare la batteria capimmo che il gruppo era formato.


Quali sono state le maggiori fonti d’ispirazione per voi?
E' molto difficile rispondere. Tutti noi potremmo darti nomi diversi. Personalmente Nick Cave, Joy Division, Jesus And Mary Chain, Tom Waits, Velvet Underground, Neil Young, My bloody Valentine, Bowie, Ecco and the Bunnymen, Can, Talk Talk.


Vi siete sciolti?
No, direi di no. Lavoriamo con la musica, spesso riflettiamo sul registrare qualcosa, ma poi ognuno ha la propria vita, le proprie cose da fare, per cui non riusciamo a trovarci. Nel mio futuro ci potrebbe essere un altro album con i Calla o un album solista.


Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Certamente.


Mi spieghi i titoli degli album?
Il nostro primo album doveva chiamarsi come noi, ma poi abbiamo deciso d’intitolarlo Scavengers poiché ascoltavamo musica come Bjork, Massive Attack e la nostra musica era come infestata da qualcosa di torbido, insetti e paludi che infatti abbiamo inserito nella copertina. Potremmo definirlo come una copia di Mezzanine e per questo siamo grati ad un amico di Michel Gira che scattò la fotografia. Televise era una fotografia scattata nel '97..non ho mai detto a quel ragazzo di averlo fotografato. Sembrava un fermo immagine simile al progetto di Nam June Paik e per questo decidemmo quel nome. Collisions è stato il titolo più indicato in quel periodo visto che stavamo lasciando l’Arena Rock per firmare con la Beggars Group. questo cambio di etichetta procurò infatti molti contrasti, liti, discussioni, l’industria musicale è come un vampiro che ti succhia lentamente rovinando ogni singolo rapporto! Avevano ragione gli Smiths ad affermare “you just haven’t earned it yet baby". Inoltre ho sempre pensato che Collisions avesse all’interno della singola parola molteplici e più significati. Strenght in Numbers è stato l’ultimo album dei Calla: eravamo esausti del tour, di stare così tanto lontano da casa e infatti lo registrammo un po' in Italia, un po' in Grecia, un po' in Texas. Anche se ottenne un buon successo non è mai stato accolto troppo bene dal nostro pubblico, però all’interno ci sono alcune delle mie canzoni preferite: Stand Paralized, A Sure Shot...il titolo ovviamente non ha bisogno di spiegazioni.


Dal 1997 al 2017 è cambiato qualcosa nel tuo modo di concepire la musica?
E' un mondo totalmente diverso: con regole diverse e in costante evoluzione. Come musicista devi trovare il posto giusto in un settore sbagliato e difficile.

www.callamusic.com

mercoledì 5 aprile 2017

Cauls - Recherché (2017)


In realtà l'album Recherché del quintetto inglese Cauls era stato annunciato per lo scorso dicembre, anticipato dal singolo Épée, poi credo che la cura maniacale con cui è stato concepito abbia preso il sopravvento per procrastinare l'uscita fino ad ora. Recherché è infatti in lavorazione dal 2015 e, proprio come indica il titolo, possiede quel sapore di ricerca per arrangiamenti e sonorità che possano includere un molteplice spettro ibrido di stili. I Cauls partono dal progressive hardcore per includere all'interno anche influssi math rock e post psichedelici, tutte caratteristiche che ritroviamo in apertura nell'acido trip di Peace Pean. L'uso di poliritmie e di contrapposizioni dinamiche quiet/loud viene mutuato dai The Mars Volta, con le classiche tensioni sonore che affiorano su Radio Johanne/Said Molineux e COQ8. Le tre parti in cui viene divisa Wide Opus Abyss approfondiscono gli aspetti sperimentali con deviazioni space rock e infiniti vortici elettrici mutuati dallo shoegaze. Épée, che sembra quasi l'ultima parte di un album costruito e concepito come un'unica lunga suite, mette insieme echi di Porcupine Tree per poi trasformarsi in una infuocata jam post hardcore nel finale.


lunedì 3 aprile 2017

Chameleon Culture - The Universe is a New Year's Day Parade (2017)


A volte, per creare un proprio sound, è necessario chiudersi dentro una stanza e iniziare a suonare tutti insieme ciò che passa per la testa come fosse una seduta d'improvvisazione collettiva. I Chameleon Culture, formati a Boston nell'ottobre 2014, devono aver usato questa pratica per comporre i brani che fanno parte del loro esordio The Universe is a New Year's Day Parade appena pubblicato. Alec Gaston (voce, chitarra, tastiere), Charlie Kendall (chitarra, voce), Chase Potter (violino, chitarra, voce), Tony Solis (basso) e Jamie Howell (batteria) nella propria biografia citano influenze nobili come Jeff Buckley, Radiohead e Pink Floyd, ma di questi artisti vi si ritrova piuttosto la concezione di costruire flussi musicali indipendenti da una forma preimpostata.

Nel rock sperimentale dei Chameleon Culture si possono invece rintracciare, a grandi linee, generi come blues, funk, indie rock e soprattutto psichedelia. E' quest'ultimo aspetto che viene sviscerato tramite suoni riverberati di chitarra, elettrici e celestiali, tastiere fluttuanti e la voce emozionale di Gaston che si estende con sicurezza tra acuti e crescendo, dando vita a delle jam torrenziali che ricordano un po' il modo di fare dal vivo di Prince. La cifra stilistica di The Universe is a New Year's Day Parade è proprio caratterizzata da un songwriting che predilige la lenta costruzione atmosferica del pezzo attraverso un inizio "di presentazione" che pone le basi per dei crescendo strumentali emotivi che possano coinvolgere l'ascoltatore. Un ottimo biglietto da visita che apre a prospettive ad ampio margine di crescita.





www.chameleonculture.com

domenica 2 aprile 2017

Altprogcore April discoveries


Fate Outsmarts Desire è l'esordio dei Kaprekar's Constant una band formata dai polistrumentisti Al Nicholson e Nick Jefferson nella quale milita anche l'ex Van der Graaf Generator David Jackson ai fiati e sua figlia Dorie che ha contribuito con alcuni interventi vocali. Il clima folk barocco, che regala anche qualche suite ben fatta, è molto somigliante ad un connubio tra Big Big Train e Jethro Tull.



Band del Minnesota di avanguardia spinta, i Combat Astronomy aveano già dimostrato un notevole coraggio nelle sperimentazioni ai limiti di RIO, free form, metal e jazz su Time Distort Nine del 2014. Ora il trio base composto da Martin Archer (fiati), Peter Fairclough (basso) e James Huggett (batteria) con Symmetry Through Collapse si avvale della voce melismatica e avant-garde della nostra Dalila Kayros (che ultimamente ha partecipato anche a Death by Water degli Yugen). Il risultato è un album che si inserisce nei meandri oscuri della ricerca sonora con brani che sembrano scaturire da improvvisazioni di gruppo che sviscerano temi come una versione ancora più radicalmente metal e fusion dei psichedelici Djam Karet.



Yang è invece una quartetto francese, ennesima creazione del chitarrista Frédéric L'Épée, storico esponente del progressive rock d'oltralpe prima con gli Shylock sul finire degli anni '70 e poi con i Philharmonie negli anni '90. In sintesi: il pallino di L'Épée sono sempre stati i King Crimson e di conseguenza la chitarra di Robert Fripp, se i Philharmonie erano una sorta di League of Crafty Guitarist in miniatura gli Yang ne sono la continuazione in chiave elettrica.



Rachel Flowers è la ragazzina non vedente, prodigio del pianoforte, diventata popolare tra gli amanti del progressive rock grazie ai suoi video caricati su YouTube nei quali coverizzava le grandi opere prog del passato, concentrandosi in particolare sul repertorio dei suoi amati Emerson, Lake and Palmer. Alla fine Rachel è riuscita a realizzare il proprio CD d'esordio Listen con sue composizioni che naturalmente fanno trasparire le influenze di Keith Emerson, ma anche di un jazz pianistico in bilico tra scuola di Canterbury, classica, Pat Metheny e Lyle Mays.



Jordan Rakei è un giovane cantante e tastierista della Nuova Zelanda che opera tra Inghilterra e Australia, ma qui non siamo esattamente tra le parti del progressive rock. Come in passato ho segnalato su queste pagine Hiatus Kaiyote e Kimbra, tra l'altro sempre situati in quelle parti geografiche, è doveroso presentare Rakei come una nuova promessa che si muove come un prodigio tra R&B, soul e jazz con il medesimo spirito di innovazione.



AfterWake è un duo canadese che comprende Gabriel Ramos (voce) e Stephen James Kerr (chitarra). Alive EP è la prima produzione di tre tracce che lambiscono i territori del progressive metal/djent inteso nei modi meno aggressivi di Tesseract e Skyharbor.