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martedì 6 settembre 2016

Bon Iver - 22, A Million (2016)


Il primo frammento audio che Justin Vernon ha registrato per il terzo album dei Bon Iver sono le parole “It might be over soon”. “Potrebbe finire presto”. La frase, impressa in un sampler portatile durante un non proprio felice viaggio in un’isola greca, fa riferimento a tutto lo stress accumulato nel periodo di promozione dell'album Bon Iver, Bon Iver, portato in un tour che ha girato intorno al mondo per oltre un anno. Il successo, il consenso della critica e la profondità con cui quell’opera ha toccato il pubblico devono aver generato anche un invisibile fardello dentro Vernon che alla fine è cresciuto e lo ha lasciato esausto ed inerme di fronte a quella valanga di emozioni e aspettative, innescando anche l’equivoco, con varie dichiarazioni postume, che quello avrebbe potuto essere l’ultimo capitolo del gruppo Bon Iver.

22, A Million è nato come una reazione e una rinascita nei confronti di tale stato d’animo e forse, a livello di contenuto, si rivelerà il lavoro più ermetico prodotto da Vernon a partire dai caratteri utilizzati nella particolarissima tracklist, l’equivalente grafico di un sodalizio tra numerologia biblica e vaporwave. E così, 22, A Million, è un album da decifrare non solo dal punto di vista verbale e iconografico, ma anche da quello musicale. Proprio come testimonia la cover realizzata dall'artista Eric Timothy Carlson, ne nasce un puzzle postmoderno di folktronica, glitch music, soul, suoni manipolati e uso smodato di auto-tune: un ibrido talmente potente da annullare la sua appartenenza ad un genere, al quale si aggiungono le tante volute piccole imperfezioni audio (ad esempio i volumi disturbati della prima traccia) come fosse un nastro a bobina proveniente dal futuro prossimo. Ma se oggi il post rock non fosse riconosciuto con un’identità ben definita molto distante dai canoni primordiali con cui fu inizialmente individuato - si pensi alle elucubrazioni jazz rock di Bark Psychosis, Talk Talk, fino all’archetipo ambient rock intellettuale di David Sylvian -, si potrebbe affermare che i Bon Iver hanno partorito un album di evoluto post rock in tutto e per tutto.

Vernon, completamente a corto di idee e confuso su quale direzione musicale intraprendere, come reazione al tracollo di cui sopra si è dedicato a registrare piccoli frammenti di musica e ore di improvvisazione che poi ha utilizzato nell'assemblaggio dei pezzi. Di tutto il materiale, molto deve essere stato tagliato per andare a compilare questi scarsi 34 minuti, rispettando la consueta brevità che contraddistingue di solito i lavori dei Bon Iver. L’album è un viaggio interiore che parte dall’individualità di Vernon, rappresentata dal numero 22, e che si confronta con il mondo esterno, cioè l’"a Million": le conoscenze, le amicizie, tutto ciò che ci collega alle nostre relazioni, che siano quelle più intime o quelle più lontane, ma sempre connesse e ricondotte a noi in prima persona. Anche i riferimenti alla religione, che emergono più o meno velati, non credo debbano essere letti come un’improvvisa adesione incondizionata a dettami cristiani da parte di Vernon, ma più come una metafora di ricerca spirituale laica e universale che ci guidi ad una pace interiore, prima di tutto con noi stessi.



Senza stare a disquisire sulle differenze stilistiche e di significato che già distanziavano For Emma, Forever Ago e Bon Iver, Bon Iver, qui Vernon ha oltrepassato in modo netto e definito anche la fase del secondo album, aggiungerei fortunatamente e intelligentemente, poiché ritornare sui passi aggraziati di Bon Iver, Bon Iver, con tutta l’importanza che ha rivestito e dalla cui fascinazione suscitata sono nati pure alcuni piccoli cloni, sarebbe stato da parte sua un errore imperdonabile. Ma se Bon Iver, Bon Iver ha lasciato un'eredità che altri musicisti hanno potuto raccogliere, sarà più complicato fare la stessa cosa con 22, A Million senza cadere nella trappola dell'inutile replica, perché è un'opera talmente personale ed esoterica che inizia e finisce nei confini da lei stessa tracciati ed è giusto che rimanga un caso isolato. Che qualcosa fosse cambiato era intuibile anche dagli ultimi concerti (primo fra tutti l’anteprima completa di 22, A Million avvenuta il 12 agosto al festival di Eau Claire), dove Justin Vernon, al posto di imbracciare la sua chitarra, ha preferito piazzarsi dietro un banco di tastiere. Basti dire che quello che accomuna i tre LP è solo la virgola nel titolo e c’è una distanza estetica abissale tra il primo, timido, scarno e introverso lavoro e questo estremamente moderno esperimento che fonde l’acustico con la più spregiudicata elettronica. Se For Emma, Forever Ago nasceva nella solitudine di un capanno del Wisconsin, 22, A Million è stato alimentato dal confronto con altri artisti con i quali Vernon ha collaborato durante la sua pausa di cinque anni (Volcano Choir, The Staves, James Blake, The Shouting Matches).

Vernon spinge le possibilità al limite e non si preoccupa di risultare anticommerciale, aprendo con un trittico inusuale dove la frattura che si crea tra l’accompagnamento strumentale e le parti vocali riveste un ruolo di primo piano. Il prologo affidato a 22 (OVER S∞∞N), tra sample, loop vocali e pochi accordi di chitarra, si presenta già con un’estetica da salmo quasi acappella; nell'orgia cacofonica tribal/percussiva che percorre 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄ (talmente satura da sfiorare il clipping) le melodie predominanti sono tessute dal canto di Vernon, il resto assume le sembianze di rumori astratti ricompattati da una sezione di fiati di dodici elementi indicati nei credits con il nome di The Sad Sax of Shit. Si torna al minimale nel breve concerto “per voce preparata” 715 – CR∑∑KS ed è in questo estratto che compare per la prima volta un nuovo strumento, ideato da Justin Vernon e realizzato dallo studio manager e collaboratore Chris Messina, battezzato per l’appunto “the Messina”, che è in pratica un plug in sviluppato in modo da permettere la modifica di un’armonia in tempo reale.

Arrivando a quello che è il cuore dell’album, impostato come un incontro tra tradizione e progresso, spetta a 33 “GOD” la palma del pezzo più composito, dove si intersecano piano e banjo da una parte e percussioni programmate, sintetizzatori e un minuscolo sample di Iron Sky di Paolo Nutini dall’altra. 29 #Strafford APTS spezza inaspettatamente il riflusso di modernità tornando per un attimo ad un normalissimo country, infarcito riccamente di sax e archi, non resistendo però alla tentazione di intervenire con qualche solito trattamento vocale. Altro pezzo di punta è  666 ʇ che si poggia su una cellula di drone elettronico a cui si sovrappone un agile riff semiacustico di chitarra, ma la meraviglia è l’inserimento di una pacata ritmica swing valorizzata dal contrabbasso ad opera di James Buckley e la corale sezione di fiati. Quella che potremmo definire la coda finale dell’album, che ci viene introdotta dagli echi di world music e ambient che percorrono 21 M◊◊N WATER, è formata da un trittico che ha l’aria di una preghiera raccolta e suona come un ritorno al traditional americano. Una rivisitazione che passa attraverso il rilassato R&B trasfigurato alla maniera di Peter Gabriel 8 (circle), lo spiritual futurista ____45_____ per sax manipolati (ancora grazie al Messina) e omelia gospel, chiudendo con il soul ecclesiastico di 00000 Million.

Nella sua peculiare veste rimane quindi anche un senso generale di eterogeneità nel materiale qui raccolto che per alcuni potrà essere un punto positivo, mentre per altri potrebbe rappresentare un elemento di indefinitezza, incidendo sul giudizio finale. Forse, per la sua spigolosità, sarà un album destinato a dividere il pubblico, ma ascoltandolo in raccoglimento e solitudine (come suggerito dallo stesso Vernon) scorre molto bene e tutto acquista un senso. Alla fine l’unica cosa importante da sapere è che 22, A Million è nato per celebrare la musica come rinascita e salvezza e, se avete qualche ferita interiore che tarda a rimarginarsi, provate a dedicargli la dovuta attenzione. "Potrebbe finire presto".



martedì 20 agosto 2013

VOLCANO CHOIR - Repave (2013)


Forse il successo ottenuto con il gruppo/pseudonimo Bon Iver deve aver già stancato Justin Vernon, pronto a chiudere quel capitolo della sua carriera, se non per sempre, per un bel po' di tempo. Sperando che sia solamente un pensiero fugace e di passaggio, in compenso, tra collaborazioni e apparizioni in album di altri artisti, Vernon è rimasto molto attivo musicalmente. Fino al ritorno verso i lidi del progetto che più si avvicina alla sua indole musicale, cioè questi Volcano Choir, una collaborazione nata e sviluppata insieme alla band di Milwaukee Collections of Colonies of Bees.

Repave, in uscita il 2 settembre, è il secondo capitolo di questa avventura che vede la luce a quattro anni di distanza da Unmap. Questo Repave, più di quanto non fosse stato Unmap, è un sorso d'acqua nel deserto per tutti coloro che temono di non ascoltare più in futuro qualcosa dei Bon Iver. Anche se Vernon si è occupato più che altro della stesura dei testi, le musiche dei Collections of Colonies of Bees fanno di tutto per riprendere e riprodurre quella estetica eterea, bucolica, con l'aggiunta di impalpabile elettronica, che ha caratterizzato il bellissimo Bon Iver, Bon Iver. Elementi di post rock e folktronica si fondono in delle composizioni che riportano battiti umani fusi con beat e loop elettronici, con in più l'ausilio del solito auto-tune che, utilizzato da Vernon in modo più invasivo del solito, talvolta è proprio seccante.


L'organo liturgico che apre l'album potrebbe fare da metafora per la specificità del rito laico con cui si deve affrontare l'ascolto di Repave. Questo album non andrebbe ascoltato nel chiuso di una stanza, ma va liberato, fatto respirare come un buon vino e assaporato all'aria aperta. Oltre all'udito si dovrebbe poi coinvolgere anche la vista. Repave, come suggerisce la copertina, si gusta meglio a contatto con la natura, necessita di alte vette montane o infinite praterie. La natura anthemica di questa musica, molto cinematografica e visuale, sembra fatta apposta per descrivere la bellezza che ci circonda.

Peccato che l'album si perda per strada nella seconda parte: delle otto tracce presenti le ultime quattro faticano a trovare l'intensità delle altre. I crescendo che portano a compimento pezzi memorabili come Tiderays, Comrade o Byegone sono compensati da scarni esperimenti non proprio riusciti (Keel), ballate lamentose (Dancepack) e altri che si salvano solo parzialmente (Alaskans e Almanac). Nel senso che i Volcano Choir vorrebbero spingere verso sperimentazioni minimaliste e vuote dissonanze, andandosi però a scontrare nella stagnazione dell'ovvietà. Un lavoro dal sapore ambivalente quindi, un dolceamaro che però trova la propria forza vitale nella potenza visuale e sinestetica evocata dalla musica. Vernon in questo si conferma un ammaliatore e uno dei migliori pittori di paesaggi sonori.





http://volcanochoir.com/

giovedì 25 agosto 2011

Bon Iver - "Holocene" video



Colgo l'occasione dell'uscita del video di Holocene per tornare a parlare di Bon Iver alias Justin Vernon. Ho letto molte cose su questo secondo lavoro di Vernon e quasi tutte sono scritte non come recensioni, ma come un confronto con il suo predecessore For Emma, Forever Ago dal quale ne esce clamorosamente sconfitto. Per me un confronto tra le due opere è quasi impossibile per quanto risultano differenti e distanti, sia a livello artistico che qualitativo, tanto da sembrare il frutto di due artisti diversi.

Bon Iver, Bon Iver è un capolavoro emozionante. Esso opera su un piano superiore rispetto ai classici sentimenti umani e si libra verso una dimensione ultraterrena, dove esiste solo un'unica sensazione di pace e serenità. "Musica che arriva direttamente dal paradiso" come ha scritto con cognizione un fan su Twitter, con una sentenza breve, ma che non potrebbe essere più azzeccata. Quelle di Vernon non sono composizioni malinconiche da sfruttare come viatico per deprimersi o immergersi nella nostalgia. Tutt'altro. Personalmente, ascoltandole, mi trasmettono felicità, ma non la stessa, ad esempio, che ti fa meditare romanticamente sulle vicissitudini quotidiane della vita, è qualcosa di più, di "altro". La loro natura eterea ti riconcilia con la gioia di vivere.

Forse avrò associato a questo album un'iperbole che a molti può apparire esagerata, ma ogni volta che lo ascolto rimango indifeso di fronte ad uno sconosciuto e indefinito sentimento universale. Mi verrebbe da espormi ancora di più e dire che se Dio esiste ascolta Bon Iver.

La poesia per immagini del video di Holocene non fa che confermare quello che già ho esposto. Ho avuto la fortuna di visitare e vedere con i miei occhi tutti i paesaggi islandesi ripresi da questo video, così che, ammirandolo, le emozioni e la sorpresa sono state ancora più grandi.

Bon Iver, Bon Iver non è di certo un album di progressive rock, ma per ora è saldamente in testa alla mia personale classifica di fine anno.

giovedì 16 giugno 2011

Bon Iver - Bon Iver, Bon Iver (2011)


 Questo album non entra propriamente nella categoria progressive, ma i suoi arrangiamenti stratificati, delicati e non sempre formalmente ortodossi mi fanno ricordare che esistono band alternative come i The Unwinding Hours che giocano più sulle emozioni che sui virtuosismi. Ma mi voglio soffermare sui Bon Iver, o meglio Justin Vernon che è colui che si cela dietro al nome, perché l'esperienza d'ascolto di Bon Iver, Bon Iver è stata simile a quella di una persona che si avvicina ad un album progressive per la prima volta, ignaro di cosa lo attende. All'inizio, dedicandogli poca attenzione mentre fluiva dalle casse del mio computer, l'ho trovato un po' noioso (tranne Perth che mi ha colpito immediatamente). In un secondo momento, ascoltandolo con più impegno, munito di cuffie e con un paesaggio bucolico di fronte ai miei occhi, più di una volta sono stato colto da brividi. 
 
In particolare immergermi completamente nell'atmosfera di una canzone come Holocene mi ha suscitato delle emozioni che non provavo da tanto tempo ascoltando un brano musicale. Con i suoi soffici artifizi sonori, il falsetto sovrainciso che suona come una "voce a 12 corde" e gli arrangiamenti eterei ma quasi barocchi, fanno di Bon Iver, Bon Iver un lavoro che si apre a spazi infiniti e a ricordi latenti. Voglio dire che, per chi sa ascoltare, risveglia dei sentimenti profondi che si riconciliano con le piccole cose della vita e che ne fanno assaporare ogni minimo istante, anche il più insignificante. E quando trovi un'opera che ti fa provare queste cose vale la pena condividerla. 

Ho letto molte cose su questo secondo lavoro di Vernon e quasi tutte sono scritte non come recensioni, ma come un confronto con il suo predecessore For Emma, Forever Ago dal quale ne esce clamorosamente sconfitto. Per me un confronto tra le due opere è quasi impossibile per quanto risultano differenti e distanti, sia a livello artistico che qualitativo, tanto da sembrare il frutto di due artisti diversi. 

Bon Iver, Bon Iver è un capolavoro emozionante, un'opera su un piano superiore rispetto ai classici sentimenti umani e si libra verso una dimensione ultraterrena, dove esiste solo un'unica sensazione di pace e serenità. "Musica che arriva direttamente dal paradiso" come ha scritto con cognizione un fan su Twitter, con una sentenza breve, ma che non potrebbe essere più azzeccata. 

Quelle di Vernon non sono composizioni malinconiche da sfruttare come viatico per deprimersi o immergersi nella nostalgia. Tutt'altro. Personalmente, ascoltandole, mi trasmettono felicità, ma non la stessa, ad esempio, che ti fa meditare romanticamente sulle vicissitudini quotidiane della vita, è qualcosa di più, di "altro". La loro natura eterea ti riconcilia con la gioia di vivere. Forse avrò associato a questo album un'iperbole che a molti può apparire esagerata, ma ogni volta che lo ascolto rimango indifeso di fronte ad uno sconosciuto e indefinito sentimento universale. Mi verrebbe da espormi ancora di più e dire che se Dio esiste ascolta Bon Iver. 

La poesia per immagini del video di Holocene non fa che confermare quello che già ho esposto. Ho avuto la fortuna di visitare e vedere con i miei occhi tutti i paesaggi islandesi ripresi da questo video, così che, ammirandolo, le emozioni e la sorpresa sono state ancora più grandi. Bon Iver, Bon Iver non è di certo un album di progressive rock, ma per ora è saldamente in testa alla mia personale classifica di fine anno. 

PS. La stima per Justin Vernon è aumentata ancora di più quando ho saputo che il nome del suo progetto "Bon Iver" è preso dal titolo di una puntata di Northern Exposure, la sua serie TV preferita (e pure la mia), confessando che dopo la visione dell'ultima puntata si mise a piangere. In effetti la musica di Bon Iver, Bon Iver sarebbe stata perfetta per accompagnare le storie di Northern Exposure