venerdì 7 settembre 2018

Skyharbor - Sunshine Dust (2018)


Quando hai alle spalle un album gigantesco come Guiding Lights che è praticamente un monumento verso l'evoluzione atmosferica del djent, le aspettative per nuovo materiale che possa conservare la medesima forza espressiva e che abbia le capacità di spiegare al meglio cosa significhi quella brutta parola, sono tanto alte quanto facili da deludere. Questa pressione la devono aver vissuta in prima persona anche gli Skyharbor, dato che la lavorazione di Sunshine Dust, terzo lavoro in studio del gruppo, è stata alquanto lunga e travagliata.

Il primo duro colpo, a dire il vero, non è dipeso dalla volontà degli Skyharbor, ma lo hanno dovuto subire, cioè il pesante abbandono congiunto del batterista Anup Sastry (sostituito da Aditya Ashok) e soprattutto del frontman Daniel Tompkins, che se ne è tornato in pianta stabile con i TesseracT. Al suo posto è arrivato il carneade debuttante Eric Emery con un registro vocale simile ma più ruvido, tecnicamente meno misurato e più sguaiato e logicamente dotato di minor carisma, ma tant'è, il vero cuore musicale degli Skyharbor è rimasto saldamente nelle mani del chitarrista Keshav Dhar, il che dovrebbe garantire continuità di intenti.

In questi quattro anni di gap temporale, per amore di cronaca, è successo però ben altro: tra il 2015 e il 2016 gli Skyharbor pubblicano i primi tre singoli con la nuova formazione Blind Side, Chemical Hands e Out of Time, annunciando in seguito l'uscita di Sunshine Dust entro il 2017. Ma dopo un preoccupante silenzio e nessun aggiornamento ufficiale, alla fine di quell'anno la band fa sapere che sarebbe volata in Australia per registrare l'album daccapo sotto la guida del rinomato produttore Forrester Savell (Dead Letter Circus, Karnivool, The Butterfly Effect). Evidentemente l'insoddisfazione della prima stesura aveva preso il sopravvento.



Quindi mettiamola così: nell'ipotesi prevedibile che sarebbe servito uno sforzo sovrumano per superare e competere con Guiding Lights, Sunshine Dust nella sua versione definitiva è proprio l'album di media intensità che ci si poteva aspettare dopo quella perla di rara bellezza. Chiariamo poi che la responsabilità di tutto ciò non è da attribuire dalla prova di Emery (anche se Ethos con Tompkins sarebbe stata un'altra cosa), ma piuttosto è da imputare a composizioni buone, talvolta ottime, però non sempre eccellenti o indimenticabili. E la pecca maggiore di Sunshine Dust va forse proprio rintracciata nel patire il confronto con il suo predecessore e il fatto di non smuoversi in nessuna direzione di crescita. Preso singolarmente altrimenti il lavoro offre spunti interessanti come i tre singoli prima citati e potenziati, uno addirittura rimodellato (Synthetic Hands ex Chemical Hands nella quale sopravvive il riconoscibile chorus).

Per il resto il rimodellamento generale in corso d'opera che ha subito Sunshine Dust non è sembrato distanziarsi molto da quelle coordinate, neanche alla luce della comparsa dei primi antipasti che hanno anticipato il lavoro rappresentati da Dim e dalla title-track. Dissent invece aveva fatto preoccupare per quella sua piattezza nu metal che fortunatamente è rimasta solo un episodio isolato. Ma i problemi dell'album sono altri: quelli che dovrebbero servire da pezzi cardine con i loro potenti melodismi djent, come Ugly Heart, Ethos e Menace, scivolano via come esercizi di stile studiati a tavolino; pezzi più lunghi come Disengage/Evacuate e la strumentale The Reckoning fanno invece fatica a trovare un punto focale che serva da valvola di sfogo ad un cambiamento che non arriva mai. Sunshine Dust vive di questi saliscendi che lo indeboliscono nella lunga distanza e lo rendono inevitabilmente un'opera di transizione, buona nel complesso, ma con poca identità.


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