I The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid To Die (abbreviato per comodità in TWIABP) sono una tra quelle band che, a partire dal primo album Whenever, If Ever (2013), nella prima metà degli anni '10 hanno contribuito in modo considerevole al consolidamento ed espansione del cosiddetto "emo revival", movimento culminato nel 2014. Adesso che tutta quell'ondata è stata metabolizzata, oltre che maturata e progredita ulteriormente, sembra arrivato il momento per il genere di fare un salto ulteriore ed interrogarsi sulle proprie possibilità e sviluppi.
Illusory Walls, quarto album in studio del gruppo di Philadelphia, è un nuovo tassello per comprendere come all'emo non bastino più gli schemi ai quali è abitualmente confinato, ed è interessante notare come la riduzione della line-up dei TWIABP - dai nove membri originari passata adesso a cinque - sia inversamente proporzionale alle ambizioni messe sul piatto da queste undici tracce. Restando nei confini limitrofi del sottogenere, proprio come di recente hanno provato a spingersi oltre anche gli Adjy, i TWIABP evidentemente si sono sentiti investire dallo stesso bisogno di espandere i propri limiti, scrivendo in maniera più elaborata, flirtando con il prog, il post rock e decidendo di mettere in coda all'album due lunghissime ponderazioni sonore che da sole vanno ad occupare la metà del disco.
Per l'altra metà Illusory Walls si divide idealmente tra tradizione e sperimentazione, dando la possibilità ai TWIABP di operare liberamente su entrambi i livelli. Se su Queen Sophie for President il gruppo mantiene la spigliata leggerezza dell'art pop, in seguito diventa inesorabile alfiere di math metal nel sound saturo e oppressivo di Invading the World of the Guilty as a Spirit of Vengeance. Prendiamo l'apertura di Afraid to Die ad esempio, la quale sintetizza metaforicamente questa transizione dal passato al presente utilizzando una netta spaccatura che prende le mosse da una placida ninnananna indie rock e deflagra improvvisamente in un'imponente ed epica ouverture prog.
La natura multipartita di Died in the Prison of the Holy Office, frenetica cavalcata post rock e finale in sontuoso crescendo orchestrale, fa sembrare la successiva (e collegata) Your Brain is a Rubbermaid quasi un suo prolungamento speculare e apocalittico, una parentesi costituita di suoni astratti e "cinematici", fino a che non irrompe in un poema post metal. Quello che sembrerebbe già un lavoro compiuto con l'arrivo di Trouble, che è un ritorno alle origini della loro ispirazione, pagando tributo tanto all'emocore dei Sunny Day Real Estate quanto allo space hardcore degli Hum, come anticipato nella seconda parte si permette un lungo finale dilatato e di grande ambizione grazie alle ultime due tracce.
I quindici minuti di Infinite Josh e i quasi venti di Fewer Afraid si assomigliano nella forma, ma non nella sostanza. La forma cioè, invece che giocare su sezioni che cambiano e si accavallano come ci si potrebbe aspettare da brani così estesi, preferisce concentrarsi sul costruire reiterazioni tematiche che edificano tensioni e crescendo come nel post rock. Quest'ultimo aspetto è particolarmente sottolineato su Fewer Afraid che utilizza archi e tapping chitarristici per aumentare il pathos. Infinite Josh invece è maggiormente epica ed efficace nel creare, oltre che un solido crescendo, anche una reale atmosfera onirica e sognante da principio, per poi proseguire in un trip electro-orchestral-emo suggestivo e corale. Entrambe forse eccedono in autoindulgenza, però nel contesto generale appaiono come un'appendice verbosa, ma necessaria e non fuori luogo, che serve nel completare l'essenza finale dell'album, non nascondendo così la sua brama di grandiosità.
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