mercoledì 25 aprile 2012

STORM CORROSION - Storm Corrosion (2012)


Credo sia innegabile che il concretizzarsi del progetto Storm Corrosion è stato, per molto tempo, il sogno di molti. Dietro ad esso due delle menti più eccelse e osannate del progressive mondiale che si uniscono per la prima volta in un lavoro sotto lo stesso nome, notizia di cui si parla da più di un anno. Naturale che tutto ciò abbia comportato tra i fan grande eccitazione e grandi attese.

L’album è stato presentato come la terza parte, o il tassello mancante, tra il secondo album solista di Steven Wilson Grace for Drowning e l’ultimo degli Opeth Heritage. Ma, svelando lentamente i particolari dell’ultima parte di questa trilogia in divenire, alcune cose hanno fatto insospettire. Wilson si è subito affrettato a dichiarare che i Storm Corrosion non si sarebbero imbarcati in un tour di promozione, un po’ per gli impegni precedenti dei due musicisti, un po’ per la natura stessa della musica. Insomma un trattamento da terzogenito trascurato, come se fosse un esperimento venuto male. Ed è proprio l’indirizzo musicale intrapreso dal duo a essere stato pesantemente avvolto nel mistero.

In più, nel mantenere il materiale più segreto possibile, sono comparsi su YouTube dei clamorosi fake (e non parlo dei trailer finto-kitsch anni ’80) spacciati per brani dell’album che, seppur palesemente falsi, hanno comunque tratto in inganno qualcuno (a proposito, è possibile scaricare gratuitamente il finto album Storm Corrosion (of Love and Emotion) che credo sia opera di quel burlone di Åkerfeldt). I sospetti sono aumentati quando anche i 20 secondi di preview - in genere caricati da Amazon qualche settimana prima della release ufficiale - poco dopo che erano online sono stati revocati (per la cronaca, ora sono accessibili). E qui si dirà che non c’è nulla di strano e si fa tutto questo per aumentare l’hype attorno all’album. Invece alcuni hanno intravisto in tutto ciò un certo nervosismo, iniziando a chiedersi se Storm Corrosion fosse effettivamente quel capolavoro annunciato sulla carta o una prova minore. In un certo senso, anche le confidenziali dichiarazioni di Wilson tendevano con cautela a ridimensionare la portata del lavoro, forse proprio per non creare false aspettative.

Cioè, provate a immaginarvi Wilson e Åkerfeldt alla fine delle registrazioni, album alla mano, quando ormai è troppo tardi per tornare indietro, gli annunci sono stati fatti, il lavoro deve essere consegnato e i due musicisti, non proprio soddisfatti del risultato finale, discutono: “Steven…e adesso cosa facciamo?”. “Niente, lasciamo tutto così e creiamo un’aura di mistero intorno al progetto, tanto la gente si aspetta questo”. Teoria esagerata forse. Sicuramente, ma ascoltando Storm Corrosion il sospetto s’inspessisce. Il fatto è che si ha quasi l'impressione che esso sia il frutto di una forzatura e che abbia colto i due in un momento di calo creativo, quando entrambi avevano già speso molte energie per i rispettivi album.

Questo per dire che tipo di mitologia si può creare ancora oggi, nonostante tutto, intorno ad un album lungamente atteso. E tutto ciò non può che fare bene alla musica, la rende viva e pulsante e non certo un mero accessorio come la vorrebbe ridurre l’mp3. Ma non divaghiamo.


Storm Corrosion si adatta sicuramente a quella estetica settantiana che i due autori, separatamente, hanno voluto imprimere al dittico Grace for Drowning - Heritage, dei quali, si diceva, questo dovrebbe essere il naturale completamento. Anche se, comunque, tale caratteristica è l’unica che può accomunare la trilogia, poiché, se ascoltata finalmente nella sua totalità, il percorso da essa tracciato non potrebbe essere più eterogeneo. Ma va bene così, ognuno dei tre tasselli rappresenta la visione di una musica d’altri tempi: Wilson l’ha interpretata con un’adesione quasi scolastica, ma con piglio moderno; Åkerfeldt è stato più radicalmente vintage e allo stesso tempo coraggioso ad applicare tale cambiamento alla sua band, allontanandosi dai toni più marcatamente metal (tanto da aver subìto nel privato delle minacce di morte dai fan, diciamo così, più intransigenti).

Di sicuro i primi a sconcertarsi saranno proprio i fan degli Opeth, che qui non scorgeranno neanche lontanamente un’ombra di metal. Per trovare la cosa più vicina ai Storm Corrosion prodotta dagli Opeth si deve risalire alla calma di Damnation. Poi ci sono coloro cresciuti a pane e In Absentia, che troveranno qui invece il Wilson più progressivo e sperimentale, il lato cioè che forse sarà più apprezzato dai fan della prima ora dei Porcupine Tree.

In defintiva la sorpresa c’è. Storm Corrosion non è quell’album di prog spettacolare che in tanti si sarebbero aspettati. Tutt’altro. Storm Corrosion è un’opera bucolica, acustica, pacata e quasi avant-garde. Il duo lavora per sottrazione, consegnandoci un pugno di ballate pagane dai colori tenui e pastello, gli stessi che tratteggiano l’inquietante cover che descrive bene anche il contenuto. Gli strumenti che prevalgono sono chitarre acustiche, tastiere e percussioni, l’assenza di batteria è quasi totale e le orchestrazioni non sono barocche o sinfoniche, ma minimali.

Ora, Wilson e Åkerfeldt si sono conquistati nel tempo una tale popolarità di culto che il solo tentare di muovere qualche critica ad una loro collaborazione sembra da snob. Il fatto è che basta avere una minima cognizione di storia del progressive rock moderno per capire che Storm Corrosion è pieno zeppo di richiami a cose che molti altri gruppi hanno già fatto, e pure meglio. Prendete ad esempio Landberk, White Willow e, se proprio vogliamo, gli ultimi Ulver, allora avrete una vaga idea sul tipo di atmosfera che aleggia su tutto il lavoro. A differenza dei suoi due predecessori complementari, Storm Corrosion non pesca direttamente dal prog degli anni ’70 per attualizzarlo ai nostri giorni, ma bensì passa attraverso il checkpoint degli anni ’90 e lì si ferma.

Storm Corrosion affonda come un macigno nella malinconia autunnale (tanto che farlo uscire a maggio sembra quasi un controsenso), in tristi madrigali dall’impostazione crepuscolare, a tratti soporiferi, tipici dell’estetica progressive scandinava. In più riesce a far sviscerare compiutamente l’amore di Åkerfeldt per i Comus, oltre ad esprimere quello per il cinema di Wilson, attraverso una generale sensazione da rituale pagano alla The Wicker Man.

Drag Ropes è un lungo e tortuoso requiem che, posto in apertura, più che creare curiosità lascia perplessi, generando un anti-climax continuo. Si inizia con dei cupi bordoni di tastiere che mano a mano si sommano a melloton e orchestrazioni sintetiche non solenni ma misteriose. In questo clima oppressivo si aspetta una liberazione o esplosione che non arriva mai.



La title-track si apre con un flauto e un arpeggio di chitarra pastorali che non avrebbero sfigurato su un album dei White Willow. Quando entra la flebile voce di Wilson si raggiunge forse il picco espressivo dell’album, essendo questo anche il brano migliore dell’intera collezione. Questo è puro folk psichedelico, arricchito dagli intarsi elettrici della chitarra, poi all’improvviso arriva un breve intermezzo strumentale dissonante, pretestuoso e inconsistente, che poi va a chiudersi fortunatamente con la stessa impostazione della premessa.

Hag è una cantilena mortifera di una monotonia unica che ha solamente un sussulto crimsoniano verso il finale, ma è troppo poco per una ballata deprimente. Un umore che sembra proseguire nella successiva Happy. Ascoltando i delicati arpeggi acustici in tonalità minore, i sospiri di Wilson che possiedono la stessa vitalità di un corteo funebre, il titolo pare puro sarcasmo.

Se uno riesce a sopravvivere a questi due brani letali, si arriva alla strumentale Lock Howl che almeno è ravvivata da un ritmo costante, determinato dalle note gravi della chitarra. Ma è davvero tutto qui, il resto è pura aria fritta.

L’intro di Ljudet Innan è quasi romantico con piano elettrico e falsetto di Åkerfeldt che trasmettono un che di soul. Poi il brano si astrae in un lungo tappeto etereo di tastiere ambient, fino a stagliarsi delicatamente su territori post rock molto simili ai Bark Psychosis. Forse i Storm Corrosion hanno voluto omaggiare i Talk Talk, aggiungendoci un pizzico di psichedelia spaziale, ma Ljudet Innan rimane un brano debole e senza un briciolo di sentimento. Ecco, il sentimento, è questo che forse manca in tutto l’album e si arriva alla fine pensando “Tutto qui?”.

Storm Corrosion avrebbe potuto prendere tante direzioni, Wilson e Åkerfeldt hanno scelto di intraprendere quella meno scontata e sicuramente più coraggiosa, ma fondamentalmente rimane un esperimento non riuscito. Lo avesse prodotto un qualsiasi gruppo prog scandinavo sarebbe passato inosservato o, al limite, come un lavoro minore, ma qui si parla di Steven Wilson e Mikael Åkerfeldt…

http://stormcorrosion.com/

1 commento:

Giuseppe Piccinni ha detto...

Complimenti per la ottima recensione, davvero ben fatta ed esaustiva anche se in certi punti accessibile solo a coloro che il prog lo cercano negli anni 70. Ma è giusto che sia così. Concordo pienamente con la tua visione dell'album, sento che il sentimento affiora a tratti, come se buona parte del lavoro fosse stato fatto sotto forzatura e non sotto pura ispirazione, come se fosse stato fatto strano per essere strano. Mi aspettavo qualcosa di più, onestamente, ma se proprio devo accontentarmi allora devo ammettere che questa è una chicca che (secondo me) quasi nessuno riuscirebbe a tirar fuori al momento.