Dispiace che dei musicisti della caratura dei Monobody, arrivati oggi al terzo album in studio, siano ancora per lo più relegati come popolarità ad un seguito di culto. Certo non si pretende che il quintetto dalla insolita formazione, che consta dei due bassisti Al Costis e Steve Marek con Collin Clauson (tastiere), Conor Mackey (chitarra) e Nnamdi Ogbonnaya (batteria), raggiunga chissà quale vetta di successo, ma che almeno arrivi a conseguire un degno numero di sostenitori anche tra le fila degli addetti ai lavori. Sul nuovo lavoro Comma consolidano oltretutto quell'insolito connubio tra jazz, math rock e post rock che la band ha affinato con sempre più abilità da Monobody (2015) e Raytracing (2018), permettendo di offrire a chi non li conoscesse un'ottima introduzione.
Il titolo Comma si riferisce al concept dell'album ispirato al nome tassonomico della farfalla al cui spettro di colori prende spunto anche la cover. E proprio come l'amalgama del dipinto originale ed il volo scoordinato del lepidottero, così la musica dei Monobody assorbe una molteplice quantità di sfumature e si muove in dinamiche costantemente imprevedibili.
In passato i Monobody si sono resi capaci di innovare il linguaggio prog jazz, assimilando stilemi di nuove forme al confine con questi generi, come appunto tra gli altri il math rock. Non dovendo dimostrare più nulla a nessuno, il gruppo adesso utilizza le proprie capacità per includere metodologie compositive e sonore che rimandano al passato e allo stesso tempo omaggiano altri artisti, rimanendo su binari post moderni. In particolare è un piacere poter ritornare con un balzo di memoria alle terre canterburiane con Sylphina, che sembra una complessa magia uscita dalle agili e frizzanti atmosfere National Health, grazie anche al piano elettrico di Clauson, mentre in Mimic il solismo ed il timbro della chitarra di Mackey è un crocevia tra Phil Miller e Allan Holdsworth.
Con le medesime premesse il gruppo si compatta in un insieme strumentale flessibile e armonioso in Eighty Eight e Atala, dove ognuno dei membri quasi interagisce l'uno con l'altro nel completare uno schema sonico che vede da una parte lo spettro sonoro degli strumenti a corda e dall'altra i vari registri di synth e tastiere di Clauson. Cloudless Sulphur e Harvester invece tentano qualcosa di più articolato e sperimentale a livello di prog elettrico, tra impressionismo e post rock. Phaon Crescent, infine, per progressioni e ricchezza armonica sembra quasi un omaggio alla fusion celestiale e cristallina di Pat Metheny e Lyle Mays. Comunque tutto questo rimando ad altri artisti non tragga in inganno per ciò che riguarda l'originalità, i Monobody conoscono benissimo come rendersi sempre un passo avanti nel modo di concepire ed interpretare il genere. Per chi ama il jazz ed il math rock, anche separatamente, non c'è nulla di paragonabile alla competenza strumentale dei Monobody, dei veri fuoriclasse.
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