La curiosità per lo show che i The Mars Volta avrebbero portato sul palco dopo dieci anni di pausa era altrettanto paragonabile a quella per l'ascolto del nuovo album. E così, il 22 e il 23 settembre, Omar Rodríguez-López e Cedric Bixler-Zavala, accompagnati da una inedita e rinnovata line-up si sono presentati a Dallas per le prime due date del tour nordamericano. Contro qualsiasi pronostico la band ha suonato solamente due estratti da The Mars Volta (i singoli Blacklight Shine e Graveyard Love) e ha invece attinto a piene mani da De-Loused in the Comatorium. Date le premesse si aggiunge quindi l'interesse per come il gruppo abbia affrontato il vecchio repertorio dopo che molta acqua è passata sotto i ponti, contando anche la resa e l'apporto della formazione che include Marcel Rodríguez-López (synth, percussioni), Eva Gardner (basso), Linda-Philomène Tsoungui (batteria) e Leo Genovese (tastiere). La scelta dei brani da eseguire probabilmente è stata influenzata e bilanciata anche dal gradito ritorno della Gardner, la quale naturalmente è molto in confidenza con il materiale degli esordi avendo contribuito a forgiarlo strumentalmente nei primi tour. Il resto dei componenti è stato una rivelazione: tanto il nuovo album mi ha lasciato con l'amaro in bocca quanto i filmati delle esibizioni mi hanno entusiasmato.
Cedric sembra in gran forma con la voce (anche se i pezzi sono stati comprensibilmente abbassati di mezzo tono per facilitarlo), forse ancor meglio che durante il periodo della reunion degli At the Drive-In, la Tsoungui alla batteria è una potenza in grado di tenere le fila della complessa architettura ritmica senza nulla da invidiare ai suoi predecessori, l'organo di Genovese si infila con gran gusto nei groove funk come degno sostituto del compianto Ikey Owens e la chitarra di Omar si perde in riverberi e dissonanze crimsoniane come ai vecchi tempi. Ciò che è cambiato è l'attitudine dell'approccio sul palco, i due leader sono cresciuti e limitano al minimo sindacale i balli scapestrati, che in particolare facevano perdere il fiato e le parole a Cedric durante gli indiavolati show del passato Adesso l'esecuzione sembra quella di un gruppo progressive rock che ripercorre i propri classici con la devozione che meritano, concentrandosi nel non sottolineare la parte selvaggia e scatenata dell'esecuzione ma quella complessa e tecnica. Un ritorno in grande spolvero quindi... a questo punto non c'è che da sperare in un tour europeo (forse il prossimo anno).
Setlist 22 settembre:
Vicarious Atonement Roulette Dares (The Haunt Of) Eriatarka Graveyard Love L'Via L'Viaquez Empty Vessels Make the Loudest Sound Cygnus....Vismund Cygnus Drunkship of Lanterns Viscera Eyes The Widow Cicatriz ESP Blacklight Shine Televators Son et Lumière Inertiatic ESP
Nonostante una carriera ventennale i Copeland non hanno mai pubblicato un "Best of" dei loro pezzi migliori e Revolving Doors si propone di ovviare a questa mancanza. Per fortuna non lo fa in modo tradizionale, limitandosi alla riproposta di una comune carrellata di pezzi tratti dai vari album, ma i Copeland tengono fede alla propria natura romantica e malinconica scegliendo dieci pezzi dal proprio catalogo e registrandoli di nuovo con arrangiamenti orchestrali da una differente prospettiva. Sotto questo punto di vista Revolving Doors assume un significato quasi contrario a quello di una normale compilation, che si presuppone dovrebbe avere una funzione introduttiva a del materiale per noi ancora sconosciuto.
Diversamente, Revolving Doors richiede una conoscenza acquisita dell'universo sonoro ed estetico dei Copeland al fine di essere gustato con il giusto spirito. L'art pop del gruppo di Aaron Marsh si è mosso negli ultimi album su territori sempre più impalpabili, eterei e sperimentali fino al recente capolavoro Blushing (dal quale qui ritroviamo la sola Pope) e la scelta di avvalersi ora di un'orchestra sinfonica per reinterpretare una piccola parte della loro opera sembra coerente con il percorso della band.
Revolving Doors, nel preservare solo lo scheletro melodico dei brani e trasportarlo su confini lontani dal rock, infonde un alone sentimentale e quieto ancor più accentuato rispetto agli arrangiamenti originali, di modo che ne deriva un ascolto rilassato che ha qualche probabilità e il rischio di non entrare in sintonia con chiunque. Ed ecco perché avere già un'empatia (più che una conoscenza) con il repertorio dei Copeland facilita l'immersione nel mood che il gruppo vuole trasmettere. Anche in questo caso Marsh e soci si dimostrano arrangiatori di rara sensibilità pronti a valorizzare i dettagli più nascosti per far brillare la natura passionale delle loro canzoni.
Il ritorno sulle scene dei The Mars Volta è stata forse la notizia più clamorosa dell'anno, una reunion attesa e richiesta da tempo, già da quando Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixler-Zavala avevano accontentato un'altra frangia di fan nel 2016, rimettendo assieme gli At the Drive-In e producendo un nuovo album l'anno successivo. Archiviata questa reunion, in molti si aspettavano che i due musicisti tornassero a ripercorrere anche i territori più sperimentali della band che, senza girarci intorno, ha definito i contorni di un nuovo modo di intendere il prog e ha influenzato decine e decine di artisti del nuovo millennio. La speranza di una reunion fu in parte confermata nel 2019 quando Bixler-Zavala accennò pubblicamente che i The Mars Volta stavano lavorando a del nuovo materiale, ma da quel momento non si ebbero più aggiornamenti sui progressi dei lavori, né se effettivamente questa cosa avrebbe preso corpo. Ad ogni modo, dopo il sodalizio di Rodriguez-Lopez con l'etichetta tedesca Clouds Hill di Johann Scheerer e la pubblicazione lo scorso anno del box antologico La Realidad De Los Sueños, il pianeta The Mars Volta si è improvvisamente rimesso in moto e, dopo una singolare presentazione a Los Angeles per il singolo Blacklight Shine, sono tornati con il primo album di inediti da dieci anni a questa parte. Il titolo eponimo, l'aspetto minimale della cover art, il totale ed inatteso accostamento a parametri pop, sono tutti elementi che portano a delineare i contorni di un nuovo capitolo per la band. In effetti la questione si presenta così non solo per ciò che riguarda l'aspetto musicale, ma anche quello concettuale, molto più complesso da raccontare, poiché racchiude nei suoi significati tutte le tribolazioni passate in questi anni.
Quindi partiamo proprio da questo. A livello biografico si può rintracciare un collante tra l'album che ha chiuso il primo capitolo del gruppo - Noctourniquet - e il nuovo The Mars Volta, cioè l'esperienza di Bixler-Zavala con il culto di Scientology, una parabola che ha influenzato umanamente e liricamente l'interruzione e la ripresa del progetto. Per chi conosce le tematiche esposte da Bixler-Zavala in un lavoro come Amputechture è alquanto difficile immaginarlo assoggettato ad una specie di pseudo religione ma, come spesso avviene, è nei momenti in cui ci troviamo più deboli e vulnerabili che siamo disposti ad affidarci a qualsiasi bugia o promessa pur di tornare alla normalità. In pratica Bixler-Zavala intorno al 2010 stava attraversando un periodo di grande crisi personale, non riusciva a fare a meno di fumare una gran quantità di marijuana, più volte al giorno, e a rendere tutto più deprimente contribuì la gravidanza interrotta della moglie Chrissie Carnell. Fu proprio quest'ultima a consigliare al cantante di rivolgersi a Scientology (da cui lei era uscita nel 2004) come ultimo tentativo per un cambiamento. Bixler non negò la consapevolezza della controversa decisione: "La reazione che ho ricevuto dalle persone è stata tipo 'come hai potuto... qualcuno che fa parte della musica d'avanguardia... come hai potuto innamorarti di una cosa così stupida?' Ma ero arrivato a un punto in cui volevo provare qualcosa di diverso e provare qualcosa che la gente mi diceva di non fare. Le affermazioni di Scientology mi avevano davvero incuriosito e volevo scoprire com'era effettivamente." La crisi si protrasse comunque nel 2011, drenando la forza creativa di Bixler, il quale portò a termine con fatica le sue parti per Noctourniquet e contribuendo a minare l'amicizia fraterna che lo legava a Rodriguez-Lopez, sfociando nella dissoluzione dei The Mars Volta nel 2013. Le cronache riportano inoltre che nel precipitare degli eventi ne fece le spese anche il rapporto tra Rodriguez-Lopez e il bassista Juan Alderete, interrompendosi in termini non proprio amichevoli. E forse è per questo che The Mars Volta vede il ritorno di Eva Gardner, la bassista originale della band.
Come sappiamo Rodriguez-Lopez e Bixler-Zavala riallacciarono i rapporti poco tempo dopo, ma l'influenza di Scientology, oltre ad essere presente nelle liriche di Noctourniquet, è rimasta parte integrante anche su The Mars Volta che, come un album specularmente opposto, parla adesso dei traumi lasciati da quell'esperienza e del conseguente effetto di rigenerazione, diventando quasi una metafora di come i due amici sono cambiati nel tempo, umanamente e musicalmente. Bixler-Zavala, fin dai tempi degli At the Drive-In, si è servito di un lessico personale fatto di parole inventate, giustapposizioni e cut up. In Noctourniquet il frontman integrò questa pratica con idiomi appresi dai libri di L. Ron Hubbard che sembravano fatti apposta per lo scopo: “Era piuttosto palese nei miei testi. Stavo usando termini di Scientology che pensavo fossero davvero fighi e interessanti. Hubbard aveva un linguaggio unico, e io ero davvero interessato a quel fraseggio e a quella terminologia. Ero già un fan della fantascienza ed ero davvero incuriosito da espressioni come "comm lag" e "Dev-T". I fan mi criticarono parecchio, ma io li bloccavo o semplicemente non li ascoltavo." Il nuovo album, al contrario, ha fatto tabula rasa di tale espediente e per la prima volta utilizza testi che non fanno ricorso a idiomi surrealisti o vocaboli indecifrabili. Ma i legami con Scientology rimangono metaforicamente nei temi affrontati, come una specie di antitesi a Noctourniquet, accennando anche a dolorosi episodi personali, come ad esempio la scoperta postuma da parte di Bixler-Zavala degli abusi subiti da sua moglie da parte dell'attore ed ex fidanzato Danny Masterson, quando ancora entrambi facevano parte del culto. Il riverbero di questi fatti risuona anche nelle liriche di Blacklight Shine e Vigil, due dei primi singoli ad essere stati resi pubblici in anteprima.
In passato sia Bixler-Zavala sia la Carnell sono stati entrambi molto aperti nel raccontare i dettagli di questi avvenimenti e le conseguenze che hanno generato atti intimidatori, persecuzione e paranoia. Al momento invece, con un processo in corso che vedrà la Carnell insieme ad altre tre donne che testimonieranno contro Masterson, Cedric è molto più cauto con le parole, anche se non fa mistero che i testi parlano proprio di queste vicende come per esorcizzarle: "Quello di cui ho scritto in questo album è guardare mia moglie e le sue sorelle [spirituali] passare attraverso un grande tormento. Per me è un atto di ascolto, un'osservazione del bilancio emotivo e dire: 'Non siete sole'. C'è una visione sui Mars Volta che ci dipinge come persone pazze e bellicose, ma quelle emozioni provengono da un lato violento del cuore umano, qui sto solo agendo in una veste di supporto emotivo."
"Un album pop per due, grazie"
La cosa più curiosa di questo album su cui ci si dovrebbe soffermare, oltre al risultato in termini artistici e qualitativi, è come porsi nei suoi confronti in prospettiva al contesto formale che oggi gli artisti cercano di attribuire ad ogni opera. Detto in parole povere, fa molto strano vedere inserito questo lavoro in continuità col catalogo The Mars Volta, quando il panorama musicale contemporaneo ci ha abituato ad autori che, nel momento in cui sentono l'impulso di una variazione radicale rispetto alla loro poetica, si dedicano ad un nuovo progetto. A maggior ragione quando si parla di un musicista come Rodriguez-Lopez nella cui sterminata discografia si trovano numerose derive e ramificazioni. Questo per dire che qui ci troviamo su coordinate non solo distanti, ma proprio fuori traiettoria rispetto al punto di partenza. Con il senno di poi, tanto per dire, non sarebbe stato inopportuno includere nel filone Mars Volta anche l'unica opera uscita a nome Antemasque. Con ciò non si vuole disapprovare il cambiamento, tutt'altro. Per gli stessi Mars Volta è stata consuetudine esporsi a trasformazioni ed evoluzioni in dieci anni di carriera, tant'è che ogni loro album è diverso dall'altro e quest'ultimo non inaugura certo una prassi inedita per loro. Il punto è semmai un altro, ovvero la totale perdita dell'essenza di ciò che possiamo ricondurre ai The Mars Volta.
Se il cambiamento avviene all'interno di qualcosa di già avviato e consolidato dovrebbe pur sempre mantenere un minimo legame stilistico con esso. Ecco quindi che la cosa più inspiegabile di questo album è perché porti il nome dei The Mars Volta. Nella sua evoluzione e nei mutamenti la band è sempre rimasta fedele a stilemi estetici ben riconoscibili e riconducibili al loro nome, cioè un'idea massimalista e ipercinetica di prog e hardcore, caratteristica di un'identità talmente potente e radicata a livello sonoro che ha costituito le fondamenta della cifra stilistica della band. Ciò che si contesta non è quindi tanto lo spostare l'attenzione verso una legittima esplorazione del pop rock, ma piuttosto non averla realizzata nei termini tracciati facendo uso dello stesso linguaggio, degli stessi parametri coerenti con il retaggio, a suo a suo modo rivoluzionario, lasciato sia in campo post hardcore sia in campo progressive. In partica un procedimento di equilibrio non molto dissimile da ciò che in passato riuscirono a conseguire gli Yes con 90125 o i King Crimson con Discipline, ma anche i Genesis con Duke piuttosto che con Invisble Touch. In effetti Bixler-Zavala ha accennato ad una volontà del genere, citando come esempio David Bowie e Peter Gabriel nella ricerca di quella "zona grigia" che si crea nel mantenere un'etica prog all'interno di confini pop. Al contrario, Rodriguez-Lopez ha giustificato la brusca metamorfosi del gruppo come conseguenza e rigetto ai tre anni di tour con gli At the Drive-In: "Suonavamo tutti i giorni molto più velocemente e in modo più aggressivo che con i Mars Volta. Quando il tour si è concluso volevo fare qualcos'altro, perché ero saturo di quegli strumenti... due chitarre, le percussioni e la voce di Cedric che combattevano sulla stessa frequenza. Per me l'entusiasmo per la nuova direzione è fare ciò che non abbiamo mai fatto: ridurre le cose e produrre la nostra versione del pop.
E infatti, i primi frammenti di canzoni che Rodriguez-Lopez sapeva già che avrebbero fatto parte di The Mars Volta, emersero durante le sessioni di in•ter a•li•a. Una volta terminati i demo il chitarrista ha raggiunto a Los Angeles Bixler-Zavala per registrare le parti vocali utilizzando uno studio portatile in cui la testa del cantante era chiusa ermeticamente con una cerniera lampo all'interno di una scatola mentre registrava, per garantire una performance più intima. Dopodiché si è trasferito a New York dove ha registrato la versione finale dei brani con l'aiuto di Marcel Rodríguez-López (tastiere), Eva Gardner (basso) e Willy Rodriguez Quiñones (batteria).
Ovviamente nessuno pretende che il dinamico duo Rodriguez-Lopez/Bixler-Zavala sforni un album innovativo dopo l'altro, ma The Mars Volta è, su un piano meramente formale, l'esatto opposto di quanto negli anni questo progetto abbia consolidato riguardo l'attitudine di approcciarsi in modo spregiudicato e senza compromessi a vari stilemi. Quindi, dal punto di vista espresso da Rodriguez-Lopez, l'obiettivo è stato pienamente raggiunto, mentre per ciò che riguarda l'ambizione trasversale descritta da Bixler-Zavala il risultato appare più discutibile. Non si crei perciò l'equivoco che il soggetto in questione sia il pregiudizio mascherato da critica per il passaggio da prog a pop, ma riguarda come sempre la bontà e la qualità del songwriting. The Mars Volta ha indubbiamente dei momenti interessanti al suo interno però, considerato nella sua totalità, offre un electro pop oscuro e nebuloso, con un impiego della dinamica sonora appiattito e un senso di approfondimento delle tracce irrisolto, molto spesso queste si concludono in modo brusco e improvviso dando l'impressione che non siano state sviluppate a dovere. Anche se la scelta artistica è indirizzata ad un'esposizione strutturale lineare non avara comunque di dettagli che si svelano dopo alcuni ascolti, la percezione che viene trasmessa è quella di un taglio sbrigativo che in prospettiva soffoca la canzone stessa. Per ciò che riguarda l'aspetto strumentale Rodriuguez-Lopez non solo lavora di sottrazione, ma l'amalgama del sound nel suo insieme e così intimo ed essenziale che il timbro di ogni strumento appare un artefatto generato al computer. Si potrebbe quasi affermare che la coerenza nel perseguire questa estetica segna in modo indelebile l'identità sonora dell'album. L'utilizzo degli strumenti è talmente soft e minimale da sembrare una produzione da bedroom pop ed è la batteria (che in passato rivestiva un ruolo di primo piano) a farne le spese più evidenti, rimanendo talmente sullo sfondo che in alcuni episodi la sua verve non è differente da quella di un'anonima drum machine programmata, pur sapendo che dietro alla ritmica abbiamo il lavoro esperto di Rodríguez Quiñones. Anche la chitarra assume connotati meramente decorativi e si deve piegare alla supremazia di tastiere, synth e varie tipologie di piano elettrico che si accavallano, sposando i groove ritmici funk, dance e R&B o pennellando proprio le fondamenta di un sound design ovattato e viscoso che si muove tra l'ambient astratto/sofisticato e il soft rock adulto con velleità intellettuali.
"La cosa più rivoluzionaria che potevamo fare era realizzare un album pop" Cedric Bixler-Zavala
Comunque, come si diceva, l'album possiede anche qualità positive che si possono rintracciare nel funk caraibico di Blacklight Shine, il migliore tentativo di creare un legame tra passato e presente, preservando una suadente carica ritmica e il magico esotismo latinoamericano dentro un pop esoterico, caldo e avvolgente, che forse avrebbe meritato qualche minuto in più di sviluppo. Una penalità che si estende ai pezzi più interessanti come Que Dios Te Maldiga Mi Corazon il quale, da un'impostazione salsa standard, si sviluppa in un acido rock tribale esaurito purtroppo in meno di due minuti, oppure il beat decadente di No Case Gain, una visione moderna dell'elettronica synth punk dei Suicide. Ma la new wave post punk di fine anni '70, per quell'uso industriale ed estraniante di synth e sequencer, è presente anche nella cupa Graveyard Love che solo in prossimità del finale muta in qualcosa di vagamente vicino al prog psichedelico dei Pink Floyd.In altri casici troviamo di fronte ad episodi nel complesso più trascurabili, come nella litania gotica di Equus 3,pianificata su timbri invasivi e ruvidi, o nella divergente impostazione da electro-pop solare di Collapsible Shoulders, toccando un ambito sonoro nel quale gli School of Seven Bells sono stati ben più incisivi.
Naturalmente anche i The Mars Volta non sono esenti dalle fascinazioni anni '80, ma il loro è un approccio differente, più aristocratico, quasi da bollarlo come "smooth pop" per quell'aura elegante e sofisticata - ma algida - propagata da tracce come il lento da dancefloor Shore Story e il pulsante loop ipnotico di Flash Burns from Flashbacks che ben si adatterebbero alle atmosfere edonistiche di "Miami Vice". Quella dei The Mars Volta è infatti spesso l'equivalente di una narrazione sonora per lente immagini in movimento, adatta più ad un sottofondo soffuso d'atmosfera (ovvero muzak) che ad un ascolto attivo e coinvolgente (vedi Blank Condolences e Cerulea). L'apice di questa patinata evanescenza da videoclip è toccato prima dal singolo Vigil, altro romantico e mellifluo lento danzabile che per il suo incedere garbato è la cosa più lontana rispetto ai Mars Volta di un tempo, e poi da Palm Full of Crux (dedicata all'ex membro e amico Jeremy Michael Ward morto per overdose nel 2003), una ballad nella quale si scorgono sax, mellotron e abbellimenti jazz di piano affogati in un mare soul pop che pare una versione muzak dei King Crimson di Islands. The Requisition in chiusura è l'unica traccia a ricordarci vaghi echi di chi erano i The Mars Volta, il suo coniugare transizioni non ortodosse, arpeggi obliqui e groove minacciosi con melodie sull'orlo della tensione è uno sguardo alle potenzialità di un album che avrebbe potuto osare un po' di più, ma che anche in questo caso rimane intrappolato in una produzione apatica che disinnesca ogni tentativo di alzare l'asticella verso una qualsiasi opportunità di creare emozione.
Insomma i nostri sono cresciuti - uno cerca di essere un padre e marito responsabile e l'altro esegeta delle proprie radici portoricane con velleità storico-documentaristiche (come si evince dai video promozionali dei singoli) - e The Mars Volta avrebbe l'ambizione di inaugurare il periodo "maturo" del gruppo, affrontato quasi come una metafora di purificazione per esorcizzare le varie vicende che hanno minato la stabilità della band. Ora, facendo della facile ironia, si potrebbe insinuare che manca quel quid che ha contribuito a plasmare i primi capolavori dei The Mars Volta, De-Loused in the Comatorium su tutti, ovvero il co-autore non dichiarato di molte opere memorabili che costellano la storia del rock: la droga. Ma il problema di fondo rimane essenzialmente il medesimo che a suo tempo rintracciai su Notourniquet: la produzione di Rodriuguez-Lopez. Il chitarrista non deve più dimostrare di essere un autore ispirato e geniale, ma quando si tratta di scendere nei dettagli per valorizzare il proprio materiale rimane su un piano neutro ed asettico che non dona un adeguato carattere alla sua musica. Tornando al discorso sui progetti paralleli invece, al di là del risultato, non c'era bisogno di scomodare la sigla prestigiosa The Mars Volta, ma l'album avrebbe potuto benissimo fare da apripista ad una nuova avventura musicale. Evidentemente la prospettiva è cambiata a come riporta Bixler-Zavala: "Ci abbiamo lavorato in segreto per molto tempo ormai. Omar ha detto che i Mars Volta possono essere qualunque cosa vogliamo che siano, il che è stato rigenerante in quanto stabilisce i parametri sul non essere una band attaccata al passato e che si affida a vecchie canzoni. Possiamo ridefinire ciò che siamo e andare avanti. La nostra sensazione primaria era che tutto fosse possibile e ora, ancora una volta, lo è." In ogni caso, bentornati.
Tra i numerosi interpreti dello shoegaze e delle sue differenti declinazioni morbide e pesanti, comprese tra blackgaze e dreamgaze senza contare il naturale connubio con elementi di stili prossimi come post rock, prog, space e noise rock, gli Holy Fawn si sono dimostrati tra gli interpreti più efficaci nell'attraversare ognuno di essi con la stessa intensità. Il primo album del gruppo, Death Spells, ne è stato un grande affresco, marchiato a fuoco da atmosfere sinistre, siderali e sognanti allo stesso tempo. Tanto era compatto e potente quel lavoro, tanto è altalenante nei vari umori, a poli estremi ed opposti, questo suo successore Dimensional Bleed.
La depressione che trasuda dai rallentati ed inesorabili muri di chitarra elettrica resta ancora il minimo comune denominatore per la poetica degli Holy Fawn, ma in questo caso la contrapposizione tra umori contrastanti si fa ancora più marcata a causa dell'uso maggiormente frequente dello scream e di minacciosi droni elettronici. Titoli espliciti come Death is a Relief, Void of Light e la title-track indulgono proprio su tali schemi che però vengono logorati molto presto dalla ripetitività. Difatti, nonostante i dislivelli di atmosfere, in questo secondo album la band riconduce tutto ad un'aura ancora più gotica, impalpabile e primitiva (nel senso di tribale, tipo la marcia in crescendo Empty Vials) che talvolta rende la materia paradossalmente più uniforme nel suo incedere senza molte variazioni.
L'immagine calzante dell'essere un attimo prima librato in praterie paradisiache e in quello successivo nel più oscuro degli inferi è la costante, ma non mancano momenti talmente evanescenti in cui si sfiora l'ambient, tra cui Hexsewn e Amaranthine, sempre rielaborato in continuità con il genere di riferimento degli Holy Fawn. Sightless è forse il brano più compiuto nel portare a termine il compito di agganciare insieme in modo coerente le varie sfumature di cui è impregnato il loro sound. Anche se Dimensional Bleed non riesce a mantenere quel livello di suggestione ultraterrena perfettamente conseguito dal suo predecessore, non cambia il fatto che gli Holy Fawn rimangano comunque tra gli esponenti più autorevoli del nuovo shoegaze contemporaneo.
I MoeTar sono stati un interessante meteora nel panorama prog, durati lo spazio di dieci anni e responsabili di due album in studio caratterizzati da avant rock barocco ai confini col math pop. I due principali responsabili della sigla sono stati la coppia, sia artistica che nel privato, del polistrumentista Tarik Ragab (basso, tastiere, chitarra) e della cantante Moorea Dickason,i qualihanno proseguito il sodalizio sotto il nome di Raze the Maze e pubblicando un primo album omonimo nel 2019, di cui ora esce il seguito dal titolo 7am Dream. In questo nuovo progetto il duo ha preservato l'approccio avventuroso e stimolante alla materia pop, affrontando la composizione con lo stesso piglio tortuoso e imprevedibile, la direzione però stavolta è più diretta e diluita, come a cercare applicare una sintesi alla stessa formula.
7am Dream presenta così dieci tracce molto coerenti e dalla costruzione simile, sia dal punto di vista stilistico sia da quello della breve durata (tant'è che per il minutaggio totale sarebbe più corretto parlare di mini album): gusto costante per ritmiche elaborate, tastiere che riprendono il concetto di minimalismo e lo applicano ad una cornice elaborata e la voce dotata della Dickason che gioca con polifonie e armonie stratificate in un rimando ai vertiginosi ricchi artifici dei Queen. Le canzoni si esauriscono in modo conciso, ma ciò non impedisce di trovare tanti spunti e dettagli al loro interno per quanto l'architettura risulta densa. I Raze the Maze producono quel tipo di pop rock bizzarro e ricercato abbastanza fuori dagli schemi da proseguire la tradizione di band come XTC e Jellyfish che hanno sempre elevato il pop grazie ad arrangiamenti e soluzioni mai scontate.
In pochi si sono accorti del trio norvegese Dim Gray due anni fa all'uscita del primo album Flown, ma adesso di sicuro con Firmament le cose cambieranno per Håkon Høiberg (chitarra, voce), Oskar Holldorff (tastiere, voce) e Tom Ian Klungland (batteria, voce). Questo grazie principalmente all'interessamento di Gregory Spawton e dei Big Big Train che, non solo li hanno voluti come gruppo spalla per il loro tour, oltre ad accogliere nella propria line-up come ospite il tastieristaHolldorff, ma si sono anche prodigati nel pubblicare questo secondo sforzo discografico tramite la label ufficiale dei BBT, la English Electric Recordings. Un'occasione che sicuramente darà la possibilità ai Dim Gray di farsi conoscere ad un pubblico più vasto.
Flown, realizzato in modo indipendente, dava l'idea di una band molto determinata a perseguire un tipo di art rock con precise caratteristiche, elegante e romantico, a tratti con velleità orchestrali. Pur essendo apprezzabile in questa sua ricerca, Flown risultava un po' troppo omogeneo e statico nelle sue atmosfere sentimentali, ma con Firmament sono riusciti a liberarsi molto bene da quelle pastoie. Fatte le dovute proporzioni, i Dim Gray operano su un piano simile a quello di David Sylvian: il loro intento è quello di elevare il rock a musica raffinata ed intellettuale, utilizzando arrangiamenti sontuosi ma allo stesso tempo minimali al fine di trasmettere dei sentimenti tra il malinconico e il maestoso. Se per Sylvian questa trasfigurazione trasversale del pop rock avveniva attraverso il jazz e l'ambient, i Dim Gray fanno ricorso al sottile legame tra folk e classica, anche se in questo caso non sarebbe corretto parlare propriamente di chamber rock, in quanto la sensazione trasmessa è quella di una musica a più ampio respiro.
Firmament aggiusta il tiro con composizioni più efficaci e arrangiamenti ancor più ricercati, facendone una prova che supera in maturità e ambizione la precoce opera d'esordio. C'è da aggiungere, a voler essere pignoli, che la prima metà dell'album funziona meglio e regala un pugno di composizioni veramente notevole. I vasti paesaggi sonori evocati da Mare, con ariosi tappeti di tastiere e la chitarra solista di Høiberg a tessere luminose note, sono già esplicativi nell'indicare l'estetica che si libra tra slanci solenni e parentesi atmosferiche. Ashes e Undertow sono semplicemente magnifiche nel coniugare elettronica, archi e abbellimenti di piano in un continuo saliscendi di crescendo che nell'insieme ricordano un approccio nell'arrangiamento alla Ryūichi Sakamoto. Da qui in avanti si procede con queste coordinate, aumentando il legame con echi di folk nordico condito da pop sofisticato nello stile dei tardi Clannad che si fonde con le suggestioni ambient degli Anathema. Avalon | The Tide e l'evocativa 52~ fanno convivere moderno elettronico e classico orchestrale, sempre nell'ottica di modulare l'emotività e il pathos in base al giusto dosaggio di ciascuno di questi elementi.
La seconda parte, che si apre con la ballata pianistica Long Ago, appare più legata ad un'esplorazione della tradizione folk, attenuando le intuizioni migliori in favore di un percorso maggiormente omologato verso tale indirizzo, come appare dal canto quasi da derivazione celtica My Barren Road e dalla melensa danza di Cannons. Ed qui che si hanno gli accenni più vicini alla musica da camera, quando il piano acustico di Holldorff prende il sopravvento per guidare le arie intime e sommesse di Iron Henry e della "cinematica" title-track, della quale viene ampliata la componente post rock nella successiva e conclusiva Meridian. In conclusione, posto che per molti ascoltatori Firmament sarà il primo impatto con i Dim Gray, per le ragioni di cui abbiamo già detto, il suo ammaliante ibrido di stili non mancherà di colpire molti estimatori di quell'art rock sempre al confine con il prog.
Una paio di mesi fa veniva recensito tra queste pagine l'esordio della band olandese INHALO che a sua volta proveniva dalle ceneri dei disciolti A Liquid Landscape. Dalla vicina Danimarca arrivano invece i Feather Mountain, i quali non si discostano molto dallo stile dei loro colleghi, e cioè un prog metal introspettivo e molto basato sulla messa a punto di atmosfere malinconiche, ma anche capace di improvvise impennate aggressive. Volendo ricorrere ai soliti paragoni, ci troviamo pure dalle parti dei Riverside e Porcupine Tree con qualcosa dei Tool, ma vale la pena comunque intraprendere questo viaggio nel Maelstrom dei Feather Mountain se apprezzate queste band.
Esattamente tre anni fa i Feather Mountain avevano esordito con Nidus, un lavoro che non aveva ancora la forza necessaria per imporsi a causa di quel suo girovagare insicuro nelle possibilità del prog metal, senza sapere ancora che strada intraprendere. To Exit A Maelstrom ovvia a questa insicurezza e lo fa attraverso l'espediente di un quasi concept che per la sua drammaticità ha rinvigorito l'ispirazione del quartetto. Si fa riferimento al fatto che i fratelli Andreas (basso) e Christian Dahl-Blumenberg (batteria) abbiano scelto di trasporre in musica la triste esperienza del proprio padre malato di Alzheimer, il che rende il lavoro ancora più personale e coinvolgente da parte loro.
La prima traccia August Mantra corrisponde ai parametri stilistici prima indicati ed è un buon viatico per riassumere l'universo sonoro nel quale operano i Feather Mountain. Un'atmosfera ipnotica fatta di psichedelici arpeggi elettroacustici che nascondono un'aggressività latente, fatta esplodere puntualmente nel chorus per costruire tutto in funzione del vorticoso finale. Durante l'album questi due aspetti tendono anche a dividersi in modo netto come nelle tracce Beneath Your Pale Face e Sincere, tendenzialmente più rivolte alla convenzione quieta da ballad evanescente, ma non esenti da improvvise ed inaspettate esplosioni post rock e black metal. Dall'altro lato abbiamo Pariah,oscura e minacciosa fin da subito e che si mantiene su livelli di rabbia crescente per tutta la sua durata, sottolineata dall'uso di growl e harsh vocals. Una violenza che viene preservata anche senza l'uso della voce nello scontro di riff post metal della strumentale Air Hunger.
Il meglio dell'album però è toccato da Bliss e Cloud-Headed, soprattutto quest'ultima, che nelle loro dinamiche prog mettono in atto finalmente un efficace mix di tutti gli ingredienti utilizzati portati al massimo della potenzialità di cui il gruppo è capace. E anche se la melodrammaticità dell'epic conclusiva Maelstrom nei sui quasi dieci minuti cerca di raggiungere l'apice emotivo come sorta di liberazione finale - declinata in un crescendo prima oppressivo e poi solenne -, ritorna comunque sul piano stilistico abbastanza sicuro e collaudato del resto dell'album. Questo per concludere che To Exit A Maelstrom mostra sicuramente una crescita rispetto a Nidus, però nel suo insieme è un'opera che apre degli spiragli che fanno intravedere margini di ulteriore miglioramenti per i Feather Mountain.
Dopo l'addio del cantante Daniel Tompkins, con il quale nel 2009 i First Signs of Frost produssero il seminale Atlantic, la band è stata in letargo fino al 2017 quando riemersero con l'EP The Shape of Things to Come presentandosi con il nuovo frontman Daniel Lawrence. Da allora sono passati altri cinque anni nei quali il duo di chitarristi composto da Owen Hughes-Holland e Adam Mason, unici sopravvissuti della formazione originale, hanno preparato il ritorno con un album (in pratica il secondo in carriera) che vede ancora un cambio di guardia al microfono, questa volta impugnato da Ronan Villiers.
La scelta di Villiers, che nella sua vocalità somiglia alquanto a Tompkins, risuona come una ricerca di legame indissolubile col passato in linea con una continuità che fa di Anthropocene più che un successore che segna la distanza temporale dal primo album, un sequel in cerca di preservare intatta la magia di quell'esordio. Quindi si potrà intuire che, essendo trascorsi tredici anni, l'effetto sorpresa di quella freschezza che segnava un originale connubio tra post hardcore, djent e metal è andata inevitabilmente perduta, ma Anthropocene rilancia tali elementi da un punto di vista ancor più accessibile di quanto non fossero già su Atlantic.
Ad esempio il singolo Relics ha lo stesso tiro ed incedere di Through the Exterior,ma con l'ausilio di melodie e limpidezza di suono maggiormente accentuati, dove la chitarra di Hughes-Holland in particolare risplende di quel peculiare e riconoscibile sound scintillante, sia nel registro distorto che in quello pulito. Rispetto invece al precedente EP (dal quale comunque rispolvera e aggiorna le due tracce White Flag e Sharks), l'album riprende con maggior convinzione ed incisività anche il lato post hardcore sull'interpretazione selvaggia di Viking Blood ad esempio, che mette bene in contrasto riff metal, harsh vocals post hardcore e solenni chorus.
In alcuni momenti più di altri Villeirs si dimostra un degno erede di Topkins nel disegno di linee melodiche vocali, tanto che pare proprio di ascoltare delle outtakes da Atlantic (Paradigm Ritual). L'attitudine di risaltare la parte accessibile e malinconica della band, dal lato compositivo viene sviscerata su Þingvellir, l'episodio elettroacustico più atmosferico e soft realizzato finora dai First Signs of Frost. Anthropocene, basato su un'epica nordica che riprende le intenzioni invernali e gelide proprie di quelle terre, da un lato estetico rispecchia la potenza e la solennità di un prog metal con tendenze molto aperte a sonorità atmosferiche ed eteree in linea con l'evoluzione del djent di ultima generazione rappresentato da Skyharbor e TesseracT, anche se i First Signs Of Frost in passato hanno avuto il merito di arrivarci prima.
Formati da musicisti che hanno già militato nelle band Dashboard Confessional, Shai Hulud, As Friends Rust, The Rocking Horse Winner e Slap Of Reality, i The Darling Fire avevano debuttato nel 2019 col discreto Dark Celebration. Adesso invece il secondo album Distortions, in uscita il 16 di questo mese, si lancia verso territori più definiti e convincenti. Nel plasmare un'atmosfera da soffice melodia metal, il gruppo congiunge lo shoegaze spaziale degli Hum con un dream rock dalle tinte dark ed eteree.
Davvero un peccato che nel 2019 With or Without, secondo album degli Overslept, sia passato praticamente inosservato. Reduci da un primo lavoro altrettanto pregevole (I've Been Keeping To Myself, 2015) il quartetto di Denver concepito inizialmente come progetto solista pop acustico del frontman Elias Armao, si è evoluto in un più composito midwest emo tecnicamente articolato che incorpora break e dinamiche math rock, ma restando fedele ad un'estetica accessibile. Un gran disco da recuperare e che meriterebbe maggior attenzione.
Drifter è l'esordio dei concrete concrete, trio post rock giapponese trapiantato a New York. La particolarità dell'album è quella di sostituire i crescendo e le dinamiche in tensione tipiche del genere con progressioni fusion e un uso molto pertinente di un'intera sezione d'archi. L'album è stato registrato da Mino Takaaki dei toe, altro gruppo molto in vista all'interno del math rock.
I Freak Motel sono un quartetto sardo che esordisce con Freakenstein, un EP di quattro tracce impostate su un jazz che non ha paura di confrontarsi con elettronica, post rock e psichedelia mischiati insieme in digressioni sotto forma di jam. Per fan di Sky Window, Three Trapped Tigers e Ozric Tentacles.
Dopo un esordio abbastanza incerto e non proprio a fuoco, i Moon Letters con il secondo album Thank You From the Future operano un bel salto qualitativo e producono un frizzante prog psichedelico con qualche appiglio al passato, tipo guardando all'aspetto hard rock dei Queen, ma sostanzialmente con i piedi ben saldi nel presente.
Ancora di psichedelia si parla con gli Out of the Beardspace, ma declinata in versione fusion e jam band. Il terzo album Like Moths To A Flame è per lo più strumentale, ma nella decennale carriera del collettivo dalla line-up variabile e aperta è solo una della tante incarnazioni che può prendere la loro musica, sempre ovviamente rimanendo fedeli a parametri prog.
Partendo da premesse post punk e hardcore il trio dei General Admin si sposta su terreni math rock e prog in questo secondo EP che sembra un buon biglietto da visita come aggiunta nella già folta schiera di gruppi inglesi che vagano negli stessi paraggi stilistici.
Curioso progetto di Antonio Mazza, musicista canadese che nel suo esordio Luana Moth produce e suona tutto da solo, con l'ausilio alla voce della sorella Giovanna Mazza, per un album di frenetica elettronica lo-fi sospesa tra gli esperimenti glitch di Max Tundra, il prog e il krautrock.