domenica 15 settembre 2019
Perché "Clairvoyant" è l'album più rilevante del decennio
Eleggere un album a simbolo di un decennio significa implicitamente fare un bilancio di tale periodo. Gli anni dieci, per ciò che riguarda la parte più interessante e originale dell’evoluzione del progressive rock, sono stati da un lato la continuazione di quanto tramandato al prog hardcore dai The Mars Volta e Coheed and Cambria, i fondatori di questa corrente agli inizi del nuovo secolo, dall’altro una fonte straripante di art rock e avant-garde che ha generato esperimenti ibridi musicali piuttosto notevoli. Su entrambi i fronti sono stati pubblicati album di alto livello, ma il problema che scatta nell’individuare un’opera che abbia i requisiti per primeggiare sopra altre, comunque validissime, proposte è attribuirgli quel grado di eccellenza in più, giustificandolo. Ecco perché non si dovrebbe parlare solo di qualità, ma anche di quanto un artista o una band abbia saputo spingersi oltre e allo stesso tempo aver creato o conseguito una nuova prospettiva.
Sotto questo aspetto, tornando ai generi prima menzionati, possiamo nominare delle band come Thank You Scientist, The Knells o Bent Knee e addirittura Astronoid, che si sono distinti per aver plasmato un sound riconoscibile generato dall’ibridazione di generi tra loro distanti, la dissoluzione dei confini tra stili è un po' la cifra di questo decennio. Ognuno nei rispettivi ambiti ha conseguito qualcosa di eccellente in termini di qualità, ma se vogliamo scavare più a fondo al loro percorso, ad esso non può essere attribuita una forza tale da aver anche traghettato il genere in un nuovo territorio. Prova ne è che lo stilema adottato è rimasto circoscritto alla band in sé. La singolarità va premiata indubbiamente, ma nella visione più ampia, quando in molti imboccano la medesima estetica sonora e solo uno riesce a cogliere l’essenza di quel linguaggio, si staglia la reale singola eccezione di merito.
Se c’è quindi un termine simbolo per il decennio in via di conclusione questo è: ibrido. Gli anni ’10 sono stati all’insegna dell’ibridazione che ad oggi, non inventando più nulla di nuovo in musica, pare l’unica soluzione per aggiungere freschezza a proposte altrimenti già sentite. Chi ancora si rivolge al purismo non ha interesse nel cercare nuovi stimoli nella musica, ma preferisce cullarsi nei sicuri confini del prevedibile e dell'ordinario. Piccola puntualizzazione: non vorrei confondere "contaminazione" e "ibrido", tra cui vedo una certa differenza. La prima è più abusata e viene utilizzata saltuariamente quando lo richiede il contesto, l'ibrido, come sua conseguenza, è un aspetto costante e primario che si è installato in modo permanente nel sound di una band. Prima si è partiti con l’unire la progenie del punk – il post hardcore – con il progressive rock, e nel presente si è arrivati a capire che nessuna contaminazione è più un tabù: il math rock ha trovato un suo completamento molto naturale nel jazz e la fusion strumentale ha inglobato elementi di djent metal. Ma se tutte queste “sottocontaminazioni” si sono un po’ incartate in loro stesse, l'evoluzione più rilevante l'ha compiuta il djent fatto e finito.
Tra i pionieri di questo filone si segnalano gli statunitensi Periphery e gli inglesi TesseracT, che nel tempo sono divenuti i nomi più conosciuti e rappresentativi, anche se sono stati i secondi a impegnarsi in una seria rivisitazione del genere prog metal, facendolo evolvere verso una nuova concezione insieme a Skyharbor e Disperse. La prerogativa del djent così inteso sembra essere quella di spingere il progressive metal a latitudini sempre pesanti, ma attenuate però da un costante sottostrato new age. Il trucco consiste nel giustapporre estetiche musicali all’apparenza contrastanti, come la calma meditativa dell’ambient e la tecnica aggressiva e virtuosa del metal. Nei tre capitoli chiave utili per capirne l’essenza – Living Mirrors dei Disperse (2013), Guiding Light degli Skyharbor (2014) e Polaris dei TesseracT (2015) – si assiste a una versione psichedelica e ascetica del prog metal, non esente da intermezzi fusion, molteplici cambi formali, poliritmie al limite del macchinoso e ogni sorta di virtuosismo.
Ed è a questo punto che si staglia l'opera che mette la freccia e supera tutti a destra, puntando a distaccarsi nella distanza con la scelta di esaltare in modalità overdrive, ma alla rovescia, i canoni appena descritti. I The Contortionist si erano già accostati ai dettami del nuovo volto del djent con Language (2014), facendo storcere il naso (eufemismo) ai fan più ortodossi per il suo cambio repentino rispetto ai primi due lavori, impostati su un deathcore molto tecnico, sottolineato dall’arrivo del nuovo cantante Michael Lessard. Sul fronte opposto c'è stato però chi ha riconosciuto ai The Contortionist il coraggio di cambiare, incassando plausi per la visione senza compromessi di un progressive metal che fin dalle sue tematiche, liriche e musicali, si presentava come uno strumento spirituale per allontanarsi dall’immaginario metal che mette in primo piano l’aggressività.
Per questo Clairvoyant è apparso come un’ulteriore svolta contraria, un'inversione opposta a quell’estetica brutale e proprio per tale ragione ha creato così tanti giudizi contrastanti e divisivi. La questione non riguarda solo l’avversità dei fan che rimpiangono i The Contortionist prima maniera, ma anche il contenuto di Clairvoyant che possiede una fascinazione così peculiare e soggettiva ugualmente ostica per chi non è a loro avvezzo. In questo contesto è anche un album difficile da inquadrare poiché non segue in pieno i dettami degli stili a cui dovrebbe far riferimento anzi, li smonta uno ad uno: non fa sfoggio di virtuosismi progressive rock e fusion, non si serve della potenza motrice del metal, né propriamente della dinamica elegiaca del post rock. Se proprio vogliamo imporre un'etichetta, la più adatta a descriverlo sarebbe quella di "atmospheric metal" dato che rende l'idea dell'ossimoro stilistico a cui la band ambisce. Un prog metal drenato da ogni elemento principale, fino a risultare il suo perfetto contrario.
Il percorso estetico è risaltato dalla direzione musicale intrapresa: c'è da parte dei The Contortionist la scelta audace di non ostentare l'abilità dei solisti, in favore della costruzione sistematica di atmosfere ultraterrene e nebulose plasmate della somma delle parti. In tale contesto le tastiere, di cui in genere fanno a meno i gruppi djent, assumono una presenza discreta ma rilevante per completare un sound impregnato di suggestioni oniriche. Tornando al concetto di "ibrido", per fare un esempio, siamo in grado di sezionare e riconoscere nei pezzi dei Thank You Scientist cosa è funk, cosa è fusion o cosa è etnico. In Clayrvoiant gli stili si muovono in una simbiosi che camuffa qualsiasi velleità di ricondurli ad un chiaro genere di appartenenza. Tutto l'album vive in una zona di penombra monocromatica (parafrasando il titolo della prima e ultima traccia) che fluttua in un universo sonoro a sé stante, in piena sintonia con la composizione fotografica color cenere della cover. Ed è per questo che non è facile apprezzare Clairvoyant, ma se si riesce a penetrare la spessa coltre di tenebra, la visione che ci accoglie è totalmente appagante.
Per approfondire qui trovate anche la mia recensione.
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