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La parabola musicale del chitarrista inglese
Matt Stevens ci spiega cosa vuol dire essere un artigiano musicale al giorno d’oggi. La sua storia parla infatti di un’ascesa lenta e inesorabile che ha come perno
naturalmente internet e i
social media ad esso collegati come
Twitter,
Facebook, vari forum, ma anche il file
sharing, usato come mezzo di promozione autorizzato dallo stesso autore, che anzi incoraggia i fan a prendere parte a questo moderno passaparola. La cosa sembra aver funzionato, tanto che
il chitarrista è arrivato adesso al suo terzo album in studio dopo l’osannato
Ghost.
Stevens propone musica strumentale dove al centro è posta la sua chitarra acustica alla quale egli aggiunge loop e ritmiche
elettroniche. In studio, si dirà, può essere aiutato dalle
sovraincisioni, ma il bello è che
Stevens presenta il proprio materiale dal vivo, esibendosi in solitaria coadiuvato da pedaliere e batterie programmate. Se
Ghost era un fulgido esempio di questa tecnica,
Relic, per certi versi, se ne allontana, privilegiando sonorità più aspre e dark e incentivando l'apporto della sezione ritmica.
Il risultato di questo
Relic è
interessante poiché importa la chitarra acustica in territori elettronici tra post rock e minimalismo, talvolta
applicandole suoni filtrati, altre usandola come una chitarra elettrica. Il retaggio
chitarristico di
Stevens appartiene difatti in maggior misura al mondo elettrico piuttosto che a quello acustico. In tal senso Relic è molto affine alla poetica del suo gruppo
The Fierce and the Dead, tanto da
rappresentarne quasi un’appendice. Non a caso l’album, oltre ad ospitare il batterista Stuart
Marshall, vede il
bassista Kevin Feazey in veste di produttore. Su
Relic non sentirete candidi arpeggi alla
Bert Jansch (a proposito R.I.P.), ma
solismi melodici e riff aggressivi applicati a frammenti di fraseggi “
loopati”.
L’intento di
Stevens sembra quello di abbattere i generi, facendo convivere nello stesso pezzo umori altalenanti. Un'esempio per tutti può essere il quasi metal di
Frost, che frena su un ronzante inciso "
tripedelico" che si intromette all'improvviso. La
title-
track appare come un
prog-folk-post-punk (lo so, questa definizione è troppo ardita), l'ammaliante
Scapegoat, che è forse l'esperimento più riuscito, fonde l'elettronica dei primi
Bass Communion al minimalismo di Steve Reich e
Sand (Part2) che, attraverso le sue leggere pennellate sintetiche, pare scaturita da un
Pat Metheny in
versione spettrale.
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