lunedì 24 ottobre 2011

MATT STEVENS - Relic (2011)


La parabola musicale del chitarrista inglese Matt Stevens ci spiega cosa vuol dire essere un artigiano musicale al giorno d’oggi. La sua storia parla infatti di un’ascesa lenta e inesorabile che ha come perno naturalmente internet e i social media ad esso collegati come Twitter, Facebook, vari forum, ma anche il file sharing, usato come mezzo di promozione autorizzato dallo stesso autore, che anzi incoraggia i fan a prendere parte a questo moderno passaparola. La cosa sembra aver funzionato, tanto che il chitarrista è arrivato adesso al suo terzo album in studio dopo l’osannato Ghost.

Stevens propone musica strumentale dove al centro è posta la sua chitarra acustica alla quale egli aggiunge loop e ritmiche elettroniche. In studio, si dirà, può essere aiutato dalle sovraincisioni, ma il bello è che Stevens presenta il proprio materiale dal vivo, esibendosi in solitaria coadiuvato da pedaliere e batterie programmate. Se Ghost era un fulgido esempio di questa tecnica, Relic, per certi versi, se ne allontana, privilegiando sonorità più aspre e dark e incentivando l'apporto della sezione ritmica.

Il risultato di questo Relic è interessante poiché importa la chitarra acustica in territori elettronici tra post rock e minimalismo, talvolta applicandole suoni filtrati, altre usandola come una chitarra elettrica. Il retaggio chitarristico di Stevens appartiene difatti in maggior misura al mondo elettrico piuttosto che a quello acustico. In tal senso Relic è molto affine alla poetica del suo gruppo The Fierce and the Dead, tanto da rappresentarne quasi un’appendice. Non a caso l’album, oltre ad ospitare il batterista Stuart Marshall, vede il bassista Kevin Feazey in veste di produttore. Su Relic non sentirete candidi arpeggi alla Bert Jansch (a proposito R.I.P.), ma solismi melodici e riff aggressivi applicati a frammenti di fraseggi “loopati”.

L’intento di Stevens sembra quello di abbattere i generi, facendo convivere nello stesso pezzo umori altalenanti. Un'esempio per tutti può essere il quasi metal di Frost, che frena su un ronzante inciso "tripedelico" che si intromette all'improvviso. La title-track appare come un prog-folk-post-punk (lo so, questa definizione è troppo ardita), l'ammaliante Scapegoat, che è forse l'esperimento più riuscito, fonde l'elettronica dei primi Bass Communion al minimalismo di Steve Reich e Sand (Part2) che, attraverso le sue leggere pennellate sintetiche, pare scaturita da un Pat Metheny in versione spettrale.


www.mattstevensguitar.com

http://mattstevensguitar.blogspot.com/

2 commenti:

red ha detto...

Approfitto per unirmi al ricordo di Bert Jansch. Benchè stia cercando (e per fortuna trovando) nuovi stimoli nei nuovi protagonisti musicali, ogni volta che un "vecchio" musicista ci lascia non posso fare a meno di pensare al tempo che fugge e a come eravamo giovani quando questi grandi erano nel pieno della creatività.
A Bert dobbiamo lo "sdoganamento" del folk e le basi per quella stagione che ha visto i grandi Fairport Convention come protagonisti.
Nello stesso periodo ci ha lasciato anche David Bedford, forse sconosciuto ai più, ma che è stato l'uomo dietro al Mike Oldfield dei primi dischi (e scusate se è poco...)

Lorenzo Barbagli ha detto...

Come nota a margine vorrei ricordare ai più giovani, che idolatrano mostri sacri dell'hard rock come ad esempio i Led Zeppelin, che senza Jansch probabilmente non avremo avuto neanche Jimmy Page che in pratica ha saccheggiato a piene mani dal maestro del folk.