Non c'è che dire, la ragazza ha coraggio. Invece di trastullarsi con canzoncine sdolcinate e melodie folk come molte colleghe, Rose Kemp si erige a suo modo a nuova sacerdotessa del dark metal e lo fa con un album radicale e coraggioso.
Già in Unholy Majesty si poteva intravedere l'interesse della Kemp per certe atmosfere gotiche e oscure, ma nulla avrebbe potuto preparare a questo. Tra l'altro la stessa Kemp ha anticipato il tenore delle sue scelte presentandosi, negli ultimi tempi, con un look da sibilla druida in perfetta linea con questa sua lenta, ma inesorabile, metamorfosi musicale. Diciamo che Golden Shroud - un panzer sparato dritto al cuore della musica tradizionale e omologata - è un po' una scommessa e quindi si devono accettare pregi e difetti.
Golden Shroud ha solo tre tracce, lunghe, devastanti e contorte, con la Kemp impegnata a dar fondo a tutte le sue magnifiche doti canore. A volte sembra declamare salmodie pagane, altre si fa carico di acuti e falsetti estremi o growl (ma senza esagerare), sempre partendo da un retaggio dei canti blues. Anche i riff cadaverici e funerei intessuti dalla sua Telecaster affondano le loro radici nella tradizione della musica afroamericana, arrivando a trasfigurarla in laceranti stilettate distorte.
Black Medick II (9:26), che inizia con un coro a cappella in stile Queen (!), ha un incedere lento e abbastanza lineare, basato fondamentalmente su scarni riff ripetuti. Ma quello che fa la differenza è la magistrale interpretazione della Kemp ai limiti dell'empatia totale con ciò che lei ha scritto. Il bello è che la sua voce non risulta mai sgraziata o sgradevole, ma anzi è un piacere ascoltarla anche nelle fasi più aggressive.
L'incipit di Blood Run Red (17:07) è uguale a quello di Black Medick, solo che il contrasto, al momento dell'entrata della chitarra elettrica amalgamato con il growl vocale, è ancora più traumatico e pauroso. In seguito la Kemp si getta in una reiterata cantilena che sembra quella di una folle strega che invoca un sortilegio. Il brano è abbastanza statico e forse è quello più estremo e autoindulgente del trittico.
Lead Coffin (16:34) si apre come una messa con la Kemp nelle vesti di gran cerimoniere che declama i versi sopra un "ostinato" tappeto di feedback. I gravi riff sono i veri protagonisti di tutto il brano, una ipnotica marcia funebre che conduce verso lidi ignoti e misteriosi (d'altra parte già il titolo è abbastanza esplicativo).
Anche se a dominare in Golden Shroud è la distorsione, la componente folk rimane comunque nel sottostrato, donando a questo inesorabile doom metal una sorta di gentilezza nascosta. Attenzione quindi a catalogare troppo frettolosamente questo album, perchè non è come sembra. Il principio di contaminazione tra i generi non fa del presente lavoro un prototipo di black metal progressivo, ma è qualcosa di elusivo tra Joanna Newsom e gli Opeth. Qui siamo tra le brume delle foreste nordiche e i rituali esoterici pagani.
www.myspace.com/rosekemp
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