Benché ormai esistano da sette anni, i canadesi Fox Lake presentano una esigua discografia alle spalle ed esordiscono adesso, dopo qualche EP, con l'album Repose, che praticamente è il risultato di sessioni di scrittura non consecutive, spezzate temporalmente per ovvie ragioni dalla pandemia. Comunque il gruppo si era già messo in moto per questa produzione nell'ormai lontano 2017, ma quando il materiale stava prendendo una piega troppo simile a quanto già fatto in passato e non presentava grandi margini di evoluzione, i Fox Lake si sono rimessi al lavoro partendo da zero.
Repose in effetti consegue un gran balzo in avanti a livello di maturità e consapovolezza nella direzione intrapresa, certificando i Fox Lake maestri del math rock/emo che si spende in coinvolgenti evoluzioni strumentali e memorabili linee vocali che, in termini di polifonie, ricalcano il modello midwest emo dove talvolta la seconda voce sfiora lo scream. L'interplay tra chitarre è altrettanto efficace nel controbilanciare la dolcezza degli arpeggi e la ruvidità dei riff, così come la sezione ritmica appare solida nello spezzare e cambiare le dinamiche. Per i Fox Lake l'immersione nel genere è così ben orchestrata che, se non sapessimo la loro provenienza, li si potrebbe pensare originari dell'Illinois.
Ecco un doveroso recupero per un album non troppo fortunato poiché ancora non molto conosciuto, forse anche a causa della sua pubblicazione, in piena pandemia, il primo maggio 2020. I Tigerwine sono arrivati a questa seconda opera beneficiando del salto ad un'etichetta indipendente importante e autorevole come la Tooth & Nail, dopo l'esordio con Die With Your Tongue Out del 2017, realizzando un lavoro maturo nella direzione intrapresa e ben rifinito nei suoi dettagli. Diciamo che nei tre anni intercorsi dalla prima prova, che presentava un post hardcore aggressivo e a tratti melodico, comunque ancora abbastanza fedele ai suoi classici parametri, i Tigerwine si sono presi il tempo per sperimentare con i suoni e le stratificazioni, focalizzare una zona chiaroscura nella quale farli fermentare e crescere, per poi cucirci intorno brani apocalittici, talvolta oppressivi e oscuri, altre volte saturi di riverberi abbaglianti.
Ne è uscito quindi un album molto più personale, dove rimangono nello sfondo le irrequietezze post hardcore ed emo, ma il tutto viene avvolto da ondate elettriche memorabili, che echeggiano e costeggiano, non tanto poi da lontano, lidi blackgaze e post rock, quasi vicini alle parti di Holy Fawn e Gates, fino ad arrivare ai Thrice. Il trittico di apertura con Anteroom, Technicolor Yawn e Scarecrow è talmente efficace nel tracciare una linea sicura che affonda la sua lama su inesorabili cavalcate lisergico/metalliche che pare quasi improbabile aspettarsi dai Tigerwine un incremento di intensità.
Invece, come se non bastasse, la seconda parte dell'album - a partire dal brano Wigwam per intenderci - è forse quella che emoziona di più, nella quale si sussegue l'impeto della marea di stratificazioni elettriche, mentre si erigono e si accavallano complesse ramificazioni, portate a compimento tra le spire di Word Hoard e Hiss at the Sun. Ovviamente in questa catarsi sonica anche la psichedelia è parte integrante del calderone sonoro e va ad avvilupparsi alla componente post hardcore creando un suggestivo tunnel su cui sprofondare, fatto di atmosfere malinconiche dal respiro cosmico concluse in modo pertinente da Complete. Nothing is for You è quindi un album che sarebbe un peccato dimenticare o lasciare da parte fino a che i Tigerwine non torneranno magari con un disco ancor più potente.
Quando ho scoperto gli A Notion of Silence, qualche mese fa, sono rimasto piuttosto stupito della carenza di informazioni promozionali o recensioni riguardo al loro primo album Dynamo del 2018, fino ad oggi unica testimonianza in studio del quartetto guidato dal chitarrista Austin Klinger. Lo stupore si è palesato una volta terminato l'ascolto di Dynamo, un solido album di prog metal in possesso di tutte le qualità per essere apprezzato da una vasta platea di fruitori che conoscono e gravitano attorno al genere.
Speriamo che ora il passaparola si rafforzi con questo secondo sforzo discografico Nomad. Klinger nel suo progetto è accompagnato dai membri dei Lines in the Sky - Jesse Brock alla voce, Bowman Brock alla batteria e Benjamin
McAnelly al basso - che fanno parte a tutti gli effetti della formazione ufficiale. Partendo da tale premessa, possiamo tracciare un parallelismo stilistico tra gli altrettanto ancora poco noti Lines in the Sky e gli A Notion of Silence, nonostante qui Klinger rivesta il ruolo di principale compositore e quindi la totalità del materiale scaturisca dalla sua penna. Ad ogni modo si tratta di un prog metal ad alto tasso melodico con qualche ammiccamento al djent e, a differenza dei Lines in the Sky, un inaspettato quanto brutale utilizzo di parti estreme di growl, questa volta più accentuate rispetto all'esordio, che vanno ad infrangersi come un'onda anomala nell'equilibrio delle buone intuizioni melodiche.
Un'altra influenza da rilevare è quella del prog hardcore alternativo dei Coheed and Cambria, dai quali gli A Notion of Silence prendono spunto probabilmente anche per la loro storia raccontata nei testi. Nomad infatti prosegue come concept album a carattere sci-fi la saga iniziata con Dynamo e si preoccupa di dare spazio a molteplici umori nel suo dipanarsi.
La voce cristallina di Jesse Brock si sposa perfettamente con brani come Journey's End o Raven, pronta ad elevare ballad dai connotati spaziali verso il climax epico che arriva puntualmente nei chorus. Ma Nomad non si lascia incasellare su parametri prog metal omogenei, anzi, è interessante notare comecontenga nella stessa tracklist episodi che spaziano in varie aree di questo genere, andando dai riff in odore di power metal di Reclaimed a quelli oppressivi alternati a paesaggi sonori rilassati di Stellar Waltz, fino quasi ad abbracciare senza remore il grindcore su Epicenter e Stormbringer. Infine gli A Notion of Silence spremono e comprimono tutto questo nella conclusiva title-track, una piccola prog-suite di dieci minuti che ricapitola il tutto in una struttura costituita da paragrafi stilemici musicali.
La band norvegese Knekklectric pubblica oggi il terzo album in studio Alt blir verre, che segue l'EP acusticoMaskinelt Utbeinapubblicato ormai tre anni fa, e lo fa in piena continuità con quanto prodotto con i due ottimi precedenti capitoli. Quello dei Knekklectric è un progressive rock gentile che si muove tra suggestioni jazz e soffici atmosfere pop, come una sorta di rinnovato e moderno linguaggio canterburiano. I brani, cantanti sempre e rigorosamente in norvegese, aggiungono quel pizzico di esotico che non stona, ma a brillare sono le ingegnose parti strumentali basate su imprevedibili sviluppi armonici che fondano le loro progressioni sugli intarsi di chitarre e tastiere e una brillante sezione ritmica a fare da collante.
Alt blir verre si impegna e riesce così a mantenere alto il livello di eccellenza, freschezza e inventiva strumentale del quintetto, che proprio come i gruppi canterburiani dell'ala più accessibile (vedi Caravan e Hatfield and the North) calibra benissimo quel precario equilibrio tra esperimenti virtuosistici e melodie delicate con fluire naturale, quasi a camuffare la complessità prog, caratteristica tipica di quel genere che si rende riconoscibile anche tra queste tracce. Si può trovare pure una spruzzata di prog sinfonico, ma nell'insieme rimane utilizzata al minimo sindacale. Con i Knekklectric siamo più dalle parti dei Sanguine Hum, se proprio volessimo trovare una band contemporanea affine alla loro sensibilità, che non da quelle dei barocchismi sfarzosi.
Ci sono voluti due anni di lavoro ai Meare, givane band della Florida, per terminare e pubblicare il loro EP d'esordio Invisible Strings. Il quartetto guidato dal cantante e chitarrista Austin Allison è entrato nei miei radar in quanto ha accompagnato gli Adjy in alcuni concerti di marzo tenuti proprio in Florida e si inserisce in quell'alternative rock sognante ed etereo, con echi emo, imbevuto di
suggestioni dream prog che possono ricordare band affini come Copeland, Narco Debut, HRVRD e Circa Survive. Se quindi in passato avete conosciuto e apprezzato almeno uno di questi nomi, i Meare sono un ascolto consigliato.
Avevamo lasciato i Prehistoric Animals reduci da un secondo album che ne decretava una consistente crescita dal lato compositivo e stilistico, nonché l'inizio di un concept che si estendeva oltre la durata di un solo album. Eccoci arrivati quindi all'annunciato secondo capitolo di The Magical Mystery Machine, dove ritroviamo i due protagonisti Cora e Jareth proseguire la loro avventura spaziale nell'intento di racchiudere in un macchinario tutte le abilità del genere umano per trasportarle in un nuovo mondo. In questa seconda parte scoprono essere pedine di un piano intergalattico più grande di loro, oltre che inconsapevoli prigionieri di una specie di Truman Show universale.
Non è una sorpresa quindi scoprire che l'atmosfera e la qualità musicale proseguono in modo saldo e sicuro sulle coordinate impostate nel primo capitolo, contando poi anche sul fatto che ormai la line-up guidata da Stefan Altzar (voce, chitarra, tastiere) e Samuel Granath (batteria, tastiere) è rimasta invariata ed ormai rodata con Daniel Magdic (chitarra) e Noah Magnusson (basso). We Harvest the Souls of the Brave è il brano che apre e racchiude un raccordo ideale tra i due album. Una canzone dalla struttura ortodossa introdotta da un pesante riff metal e sintetizzatori quasi industriali che poi si stempera in un chorus orecchiabile.
Da I Am the Chosen One (and I like it) iniziano a profilarsi le prime lievi differenze con il predecessore: se dal lato melodico la band rimane su costanti livelli accessibili, da quello strumentale questa volta offre una sferzata metal più accentuata, puntando su brani carichi di epici passaggi elettrici e fusion, come anche accade negli interludi di Ghostfires, oppure pervasi di melodrammaticità quasi teatrale in Cora's New Secret, ancora puntando su effetti spaziali e psichedelici, tra riverberi chitarristici e synth, senza abbandonare le suggestioni monolitiche, caratteristiche che prendono piena forma nella successiva solenne The Protectors of the Universe. Anche in questo caso i groove congiunti di chitarra e synth donano un senso di dinamicità che guida verso paesaggi metal più aspri.
2100 (new Years eve) è l'ennesimo momento in cui i PreHistoric Animals si dimostrano abili manipolatori nel calibrare il prog con attitudini art rock e pop, pilotati da ritmiche sostenute, modulazioni inaspettate ma dall'immediato appeal e chitarre pronte a reggere la cadenza con i loro riff. Se tutto ciò non bastasse la conclusiva It's a Start, Not the End nei suoi nove minuti di durata ha tutto il tempo di riassumere le varie caratteristiche menzionate e toccate nelle tracce precedenti. Per questo alla fine, nella sua totalità, The Magical Mystery Machine (Chapter 2) è una cavalcata senza sosta che ci immerge in un viaggio costantemente teso a trasmetterci la sua idea di grandiosità, utilizzando la memorabilità del prog metal come colonna sonora di un mitico racconto cosmico.
La più recente notizia riguardante l'attività dei Lines in the Sky risale al singolo "stand-alone" Thalassophobia, uscito ormai tre anni fa, nel 2019 (qui potete trovare un breve estratto del mio articolo pubblicato su Prog Italia in occasione dell'uscita del loro terzo album Beacon nel 2018). Dopo di ciò, l'imprevisto stop imposto dalla pandemia ha costretto anche un gruppo attivo come i Lines in the Sky ad un forzato silenzio, che si è interrotto solo di recente con la pubblicazione dei singoli Synchronicity I e Taciturnity, preludio all'EP di quattro tracce Insight appena uscito.
Per il ritorno sulle scene post pandemia i Lines in the Sky hanno scelto di reintepretare due brani dei Police, ovvero le due parti di Synchronicity, dandone una lettura piuttosto personale, molto orientata ad un rock melodico e quasi AOR, mentre con i due brani originali il gruppo prova a progredire verso territori djent e prog hardcore. La title-track in particolare è forse il pezzo più massiccio scritto dal trio, ma rimane sempre costante l'elemento melodico che si confronta con i riff massicci, una caratteristica accentuata nel secondo inedito Taciturnity che si avvicina ai territori dei Coheed and Cambria, gruppo al quale i Lines in the Sky hanno sempre guardato come ispirazione.
Il duo russo formato dal polistrumentista Aleksandr Smirnov e dalla cantante Ri Vinogradova aveva esordito nel 2019 con l'EP Ring and Linger, ospitando tra l'altro due strumentisti d'eccezione come Thomas Pridgen (The Mars Volta) alla batteria e Nick Sollecito (The Dear Hunter) al basso. Adesso sono tornanati con il full length Leave No Trace sotto il nome di Pristine Kids. La sostanza comunque non cambia, alla batteria questa volta troviamo Baard Kolstad dei Leprous, il disco è un concentrato di melodrammaticità, veicolata anche dalla voce teatrale della Vinogradova.
Christian Nesmith, figlio d'arte del recentemente scomparso Michael dei
The Monkees, è da molto tempo anch'esso coinvolto nel mondo della
musica, spesso in coppia con la moglie Circe Link alla voce. Christian
ha sempre mostrato un apprezzamento per il prog (tanto da aver
realizzato anche qualche cover di Kevin Gilbert). Il duo si è quindi
cimentato nel produrre un
sorprendente album prog ispirandosi ai mostri sacri degli anni 70. Ma Cosmologica
non assume quella pedante aria di riproposizione sterile e appare come
un caleidoscopico e multicolorato viaggio nella nostalgia alla maniera
costruttiva dei Jellyfish, un po' come se gli Yes incontrassero gli
ABBA.
Al secondo album con Olympian Gossip i texani To Whom It May dimostrano una grande crescita che riesce a calibrare e organizzare meglio le idee esposte un po' genericamente nell'esordio The Great Filter del 2018. Facendo ricorso a ruvidi riff alla Tool esposti con la potenza incisiva del math rock degli Shiner.
Always Be There è il primo album dei Vast Conduit, band creata dal tastierista Bill Jenkins che in passato ha lavorato con Enchant e Thought Chamber. Da questi ultimi provengono anche altri due membri del gruppo: il chitarrista Michael Harris e il bassista Jeff Plant. Lo stile del gruppo pesca tra neo prog, fusion e AOR.
L'omonimo esordio dei Green Asphalt è guidato da Dan Bornemark, grande fan nonché archivista di nastri e collaboratore dei Gentle Giant, per i quali in passato ha curato raccolte di rarità. Coadiuvato da diversi musicisti, Bornemark pubblica ora un album ovviamente influenzato dai GG, ma con un senso dell'accessibilità e della melodia più spiccato.
Gli olandesi INHALO debutteranno il 24 giugno con l'album "Sever", da cui il primo singolo "Sisyphean" è tratto. Echi di Karnivool, fusion prog metal e TesseracT ultima maniera.
Gli stargaze shelter sono un duo giapponese di nu dreampop che finora ha pubblicato due EP impregnati da atmosfere spaziali e colorate melodie mutuate dagli Anime. Non prog, ma molto stimolanti.