sabato 29 aprile 2023

Karmic Juggernaut - Phantasmagloria (2023)


Sorta di incontro tra jam band, psichedelia e progressive rock anni 70, jazz e stralunata avanguardia alla Frank Zappa, il collettivo dei Karmic Juggernaut è attivo addirittura dal 2004, anche se la presente line-up ha preso forma nel 2017. In particolare, ai primi membri James McCaffrey e Randy Preston (entrambi chitarristi), si sono aggiunti nel 2012 il batterista Kevin Grossman, il bassista Cory McCorry (che ora fanno parte dei Thank You Scientist e insieme anche nei We Used to Cut the Grass) ed infine nel 2017 il cantante Daimon Santa Maria e il tastierista Jake Hughes. La natura del progetto, molto aperto ad improvvisazioni, lunghe digressioni strumentali e utilizzo di svariati strumenti, ha permesso alla band di allestire moltissimi concerti prima di arrivare al debutto The Dreams That Stuff Are Made Of nel 2018 (preceduto comunque da qualche EP) il quale ha sublimato il loro stile in un esuberante divertissement psych jazz prog che ogni amante del genere dovrebbe provare.


Phantasmagloria, il suo successore appena pubblicato, è di nuovo un tour de force nei colori e nelle lande delle evoluzioni psichedeliche con taglio moderno, arricchite dalla voce stentorea e dotata di Santa Maria. Anche se con una straripante verve più contenuta rispetto all'esordio, ci sono ancora le polifonie vocali degli Yes abbinate a frenetici e veementi patchwork sonori (Flat Earthlings), ascendenti armonie AOR trasportate nelle arie mediorientali/californiane dei figli dei fiori (Sun Puzzle) e apparenti ballate che improvvisamente si trasformano in caleidoscopici viaggi spaziali (la title-track). Tutto ciò mentre le chitarre si spaccano a metà tra metal e funk jazz e le tastiere passano da registri vintage a passaggi di synth futuristici. In questo senso i Karmic Juggernaut si posizionano musicalmente in una terra di mezzo tra passato e presente.

Il groove speziato che dà l'avvio a Dream Machine è imbevuto di fumi allucinogeni che si plasmano in una jam prog funk con tanto di fiati a cura di Joe Gullace (tromba, sempre dai Thank You Scinetist) e Ian Gray (trombone) e un solo di chitarra space disco che pare uscito dalle terre freak degli Ozric Tentacles. Atomus Camera Obscura nell'insieme è la composizione più variegata e personale del lotto, dove la band si sbizzarrisce nel creare molteplici sottotrame, cercando di utilizzare un ampio raggio di escamotage sonori provenienti dagli stili da loro toccati e posizionarli insieme con armonia. Come detto, Phantasmagloria nella sua esuberanza da jam band rimane su binari più convenzionali in confronto a The Dreams That Stuff Are Made Of, ma per i Karmic Juggernaut rimane un attestato delle notevoli capacità da fantasiosi performer. 

venerdì 28 aprile 2023

Lakes - Elysian Skies (2023)


La cadenza sempre più rallentata con cui le band fanno attendere tra un album e l'altro ci ha abituato a tempistiche dilatate e quando esce un lavoro ad "appena" due anni di distanza ci sembra quasi un miracolo. Addirittura può portare a pensare che, in un lasso di tempo così breve, un gruppo non abbia avuto tempo di maturare rispetto all'album precedente. Andatelo a dire ai gruppi degli anni 70.

Comunque potete pure rivolgervi ai Lakes che, dal post pandemia, hanno sempre tenuto un profilo attivo tra concerti e singoli e, dopo aver atteso meno di due anni da Start Again (2021), il terzo lavoro Elysian Skies è pronto adesso per essere ascoltato. Fin dal primo album i Lakes hanno avuto l'abilità di crearsi un modo distintivo di comporre e arrangiare, rimanendo nei confini che stanno tra il midwest emo e il math rock. Tenendo fede a questa linea, ma evolvendosi a piccoli passi, la sicurezza fissata nella formula ha permesso al sestetto di Watford di proseguire a passi spediti con due incantevoli album. Se quindi già siete familiari con i Lakes e finora non vi hanno mai deluso, difficilmente lo farà Elysian Skies

Il modo energico con cui ammantano le loro ballad malinconiche, condendole di armonie vocali, arpeggi intrecciati, ritmi sincopati, la troviamo ancora in queste tracce, ma con un muro di suono sempre più ricco, la cui premura di registrarlo è andata a Tom Peters (Alpha Male Tea Party, The Fall, Vennart). Su questo fronte la corale Deep End ricorda la gioiosità degli Adjy - con tanto di battiti di mani, percussioni incalzanti e piano in contrappunto con le voci -, oppure il singolo Aces nel suo incontro tra la radiosità dell'indie pop e la malinconia dell'emo. La peculiarità di Elysian Skies è proprio quella di non cadere mai nella trappola di toni melensi e si sforza, riuscendoci, di ammantare anche la più nostalgica delle melodie in qualcosa di solenne e dal gran respiro, come succede con Joker, Leap, TLC e Our Fine Arrangement. Insomma, se siete di umore malinconico l'ascolto di Elysian Skies non contribuirà a crogiolarvi nel vostro stato, ma potrà darvi uno stimolo per ripartire con un sorriso.

mercoledì 26 aprile 2023

Seven Impale - SUMMIT (2023)


Poche scene musicali come quella scandinava sono riuscite a trasportare la magia del prog anni ’70 ai giorni nostri, grazie ad un’adesione stilistica al limite del devozionale verso quei dettami “mellotronici”, evocando impressioni tanto vivide quanto nostalgiche, realizzate con rispettosa fedeltà quasi da non far rimpiangere i tempi andati. Se da questo punto di vista alcuni gruppi sono stati sin troppo scrupolosi nel ricreare tali atmosfere, sacrificando paradossalmente la propria originalità, altri hanno fatto tesoro di quella lezione e si sono proiettati nel presente con audacia. È il caso dei norvegesi Seven Impale, provenienti dalla suggestiva città costiera di Bergen, i quali puntano molto su caratteri massicci e tenebrosi, sapendo anche imporre nell’economia sonora ingenti dosi di jazz per bilanciare le scosse telluriche in modo da rendere i passaggi più pesanti alla stregua di un rock psichedelico con sporadiche digressioni metal dai sapori retro. 

Non è da sottovalutare il fatto che i Seven Impale siano un nucleo di ragazzi relativamente giovane, forgiati da varie esperienze e progetti musicali, che ha avuto modo di assorbire senza preconcetti elementi progressivi moderni meno ortodossi. E così, se anche per loro è innegabile un riferimento a qualche sonorità del passato, si riconoscono diverse peculiarità che li riconducono con i piedi ben piantati nel presente, escludendo facili ammiccamenti al progressive metal o all'art rock sinfonico. La scelta di andare a sondare strade meno battute – come le cupe asperità tipiche di Van der Graaf Generator e King Crimson che riaffiorano specialmente negli impasti tra chitarra, organo e sax – ha permesso ai Seven Impale di avvicinarsi a quell’estetica di heavy prog che si è evoluta sino a sposare groove di chitarra sincopati e complesse poliritmie provenienti dal math rock, definendo in questo modo una tipologia di metal più cerebrale. Per questo motivo il sestetto si cala benissimo nel panorama odierno del rock progressivo, grazie ad una proposta che cerca di essere lungimirante e originale, che da una parte sembra abbia assimilato con eclettismo l’evolversi della moderna scena avant-garde metal che comprende anche alcuni loro conterranei come Shining e Arcturus e dall'altra non nasconde il proprio legame con il proto hard prog degli anni ’70, rappresentato in particolare da gruppi come Black Widow e High Tide

Al di là di tentare paragoni, certamente con le coordinate dettate dal primo EP Beginning/Relieve (2013) e dall'album di esordio City of the Sun (2014) i Seven Impale non hanno mai puntano a tali vette estreme, ma si sono stabilizzati su perfette latitudini di progressive nordico dove, a scandire le atmosfere eteree e funeree allo stesso tempo, sono l'organo ribollente e il versatile sassofono. Stian Økland (voce e chitarra), i fratelli Fredrik (batteria) e Benjamin Mekki Widerøe (sassofono), Tormod Fosso (basso), Erlend Vottvik Olsen (chitarra) e Håkon Vinje (tastiere) provengono da studi musicali classici e jazz e, in questi sette anni che ci dividono da Contrappasso (il loro ultimo album risalente al 2016), hanno continuato la propria vita privata perfezionandosi, ad esempio Økland si è diplomato alla Grieg Academy e porta avanti parallelamente una carriera internazionale come cantante d’opera, mentre Vinje si è unito agli Enslaved nel 2017. 

Assistiti ancora una volta dal fido produttore Iver Sandøy (Enslaved, Krakòw) si svegliano dal lungo letargo discografico con il terzo lavoro SUMMIT. Ed è una sveglia vibrante e impetuosa, divisa in quattro lunghi ed articolati brani che riassumono la cupa violenza sperimentale di Contrappasso e la dirompente forza jazz psichedelica di City of the Sun. Il passo elegiaco e funereo di HUNTER, unito all'interpretazione vocale melodrammaticamente espressiva di Økland e inframezzato da ribollenti riff heavy di sassofono, non potrà lasciare indifferenti gli estimatori delle gotiche suite di Matthew Parmenter e dei suoi Discipline. La bella introduzione da jazz spaziale di HYDRA lascia posto ad un hard rock dal ritmo spedito, ma che diluisce la sua rocciosità in spezie psych prog create da synth e tastiere e, nel suo cammino di dieci minuti, queste fanno da sottostrato ai cambiamenti jazz stoner che si sviluppano tra solennità e caos apocalittico vandergraffiano.

E proprio l'ombra minacciosa del gruppo di Peter Hammill aleggia sulle frenetiche arie di IKAROS, dove anche l'uso della doppia voce aumenta la percezione psicotica del brano. Gli intermezzi strumentali con sax, chitarra e organo in continua oscillazione tra contrappunti e unisono si fanno aspri e abrasivi, fino al maestosamente opprimente finale. Come da manuale SISYPHUS chiude l'album in modo epico e avventuroso col minutaggio più esteso del lotto: nei suoi 13 minuti alterna furia e quiete con scatti improvvisi e con risultati antitetici: tanto sono melodiose e suggestive le sezioni pacate, quanto tendono a spiazzare con impasti sonori avant-garde e free jazz quelle tumultuose. SUMMIT continua nella tradizione dei suoi due predecessori, forse più centrato e ispirato rispetto a Contrappasso, ma nel complesso non arretra dalla linea di eccellenza tracciata dal gruppo.

sabato 22 aprile 2023

The Mars Volta - Que Dios Te Maldiga Mi Corazon (2023)

L'annuncio da parte dei The Mars Volta della pubblicazione di una versione acustica dell'omonimo controverso album uscito pochi mesi fa è forse sintomatico di quanto Omar Rodriguez-Lopez ci tenga a questa nuova direzione del gruppo. Per lui probabilmente costituisce anche un importante legame con la musica della sua terra natia e un modo per approfondire l'influenza latino-americana nel rock moderno. Proprio per questo, come quanto detto per The Mars Volta, Que Dios Te Maldiga Mi Corazon è ancora una volta un'emanazione che pare appartenere alla camaleontica e debordante discografia solista di Rodriguez-Lopez più che al gruppo a cui si appoggia. Tant'è che chi si stupisce per questa insolita incursione nella sfera acustica del chitarrista farebbe bene a ripassarsi i suoi trascorsi e rispolverare la pacatezza unplugged di Ciencia De Los In​ú, pubblicato nel 2010 a nome ​El Tr​í​o De Omar Rodr​í​guez​-​L​ó​pez.

Questo per ricordare che, quando non era impegnato nelle cervellotiche lande prog hardcore dei The Mars Volta, Rodriguez-Lopez si è concesso molti esperimenti al di fuori di quei confini. Ecco quindi che la scelta di rivisitare un album che già di suo aveva delle velleità di fondere il pop con la musica portoricana, appare come un esercizio di solipsismo che amplifica il valore etnomusicologico che Rodriguez-Lopez vagheggia, alla luce anche da quanto lui stesso ha dichiarato a proposito di Que Dios Te Maldiga Mi Corazon: “È stato un processo divertente. E mi ha fatto pensare alla storia della musica discografica negli Stati Uniti. C'era la "musica tradizionale", che divenne "Americana", o musica country. E l'altro genere era la "musica razziale", che era esattamente quello che sembra: musica composta da chiunque fosse un "immigrato", intendendo principalmente persone di colore. Quindi questo significa tutto ciò che non era "country". In altre parole, tutto ciò che era interessante: r&b, blues, rock'n'roll, musica elettronica... La dice lunga su questo paese. È stato super divertente. Sento che i The Mars Volta stanno finalmente prendendo avvio - ecco perché l'ultimo album era omonimo, perché abbiamo finalmente tolto tutto e siamo arrivati a quello che era l'intero concetto all'inizio. E questa versione acustica viene da un luogo profondo, con il suo significato e la sua filosofia, e la sua ragione d'essere.”

Un bell'assortimento di percussioni, contrabbasso (bravissima Eva Gardner) e chitarra classica sono gli strumenti che impostano l'atmosfera e se per qualche brano la soluzione funziona, magari valorizzando maggiormente la sua natura intima (Shore Story, Palm Full of Crux, Equus 3), altri ne soffrono diventando ancora più tediosi (Graveyard Love, Flash Burns from Flashbacks). Oppure si arriva ad una via di mezzo con un risultato neutro che non cambia gli equilibri (Black Condolences, Tourmaline), mentre Vigil anche in questa versione non si distacca dalla sua natura ultra pop e diventa un'esotica ballad per lounge bar da villaggio vacanze. In sintesi Que Dios Te Maldiga Mi Corazon è un'operazione non priva di un certo interesse, che però si esaurisce ad un ascolto finalizzato alla curiosità e che serve più per soddisfare le volontà artistiche dei suoi autori che non la speranza nel trovare nell'album un'interpretazione che dia un impulso per rinvigorire il materiale originale. 


giovedì 20 aprile 2023

The Slaughterhouse 5: ricercati, ufficialmente morti


Si rinnova il raro appuntamento con la rubrica di gruppi meritevoli da segnalare, ma scoperti quando ormai non esistono più. In questo caso parliamo dei danesi The Slaughterhouse 5 (nome ovviamente ispirato all'opera letteraria di Kurt Vonnegut) e del loro primo e unico concept album Alban B. Clay pubblicato nel 2014. E' piuttosto sorprendente notare come di solito delle band provenienti dal Nord Europa finiscano per risultare uniche ed esotiche alle nostre orecchie.

Se, ad esempio, prendiamo i conterranei Mew per ciò che riguarda l'art rock o i Collider per quanto riguarda lo shoegaze, per poi aggiungere gli islandesi Agent Fresco, i norvegesi Twin Pyramid Complex e pure i tedeschi The Season Standard, il minimo comune denominatore alla loro formula è un approccio radicale nell'amplificare alcuni aspetti sperimentali, esasperando (con accezione positiva) a seconda dei casi polifonie vocali, ritmiche convulse, atmosfere frenetiche o impasti armonici e sonori talmente saturi da apparire vertiginosi ed evanescenti allo stesso tempo.

I The Slaughterhouse 5 non fanno eccezione a modo loro e si lanciano, quasi con incoscienza e senza freni, in canzoni dalle melodie definite ma dall'architettura portante che si fonda sulla continua dinamica trascinante tipica del math rock e su sottili arricchimenti nell'arrangiamento che si inseriscono con inaspettato fare disorientante. Il sestetto, nell'interpretazione e nella costruzione della rock opera di Alban B. Clay, non nasconde la sua volontà nel trasmettere un vezzo singolare ed istrionico che aggiunge proprio quell'ingrediente di eccessività, unita alla continua involuzione cervellotica dei brani.

Purtroppo, non solo i The Slaughterhouse 5 hanno lasciato solo questa testimonianza della loro breve esistenza, ma l'anno successivo (2015) si presentarono con il nuovo nome di Doppelgänger (a causa della defezione di un membro) e il singolo #7 Reflectoporn il quale, per quell'alone di intricato puzzle di chitarre e batteria, oltre allo squilibrato andamento da funk jazz elettronico, dava speranza di intravedere una delle band math prog più promettenti degli ultimi anni. Anche questo dei Doppelgänger è rimasto a tutt'oggi un singolo episodio isolato ed è veramente un peccato gigantesco.

 

sabato 15 aprile 2023

HMLTD - The Worm (2023)


Curioso come un tempo qualsiasi cosa si avvicinasse anche lontanamente al progressive rock veniva massacrata e liquidata dalla critica come anacronistica spazzatura per nostalgici privi di gusto musicale. Oggi invece tutto è cambiato: basta che un artista si metta in testa di adornare il proprio retaggio (meglio se post punk) con espedienti barocchi, sperimentali o che, più in generale, lo portino fuori dagli schemi tradizionali ed il coro di consensi è quasi automatico. Questo tipo di "rivalutazione" fa molto piacere e ancor di più notare nelle recensioni il termine "progressive rock" associato a band che riescono ad uscire dai confini del mero culto e utilizzato senza la sua solita accezione negativa. Ma quanto di tutto ciò sia un fenomeno spontaneo o dovuto alla moda del momento è un mistero... o forse no.

Prendete ad esempio il secondo album dei londinesi HMLTD, The Worm: non ha fatto in tempo ad essere pubblicato una settimana fa che immediatamente ha raccolto unanimi giudizi positivi ed entusiasti. La parabola e il filone stilistico della band ricade in modo attiguo alla recente fioritura di quell'avanguardia inglese art rock e post prog già ampiamente documentata da Black Midi, Black Country New Road, Squid a cui piace flirtare con elettronica, math rock, jazz, neo classicismo.

L'ambito e la dinamica sui quali hanno operato gli HMLTD sono simili: partiti con un album d'esordio (West of Eden) che tendeva a sfoggiare un certo eclettismo tra post punk, new wave, glam rock conditi con un pizzico di teatralità e modernismo, adesso con The Worm il gruppo di Henry Spychalsky (frontman e autore) si distanzia considerevolmente da quei parametri e, dopo due anni di lavoro, rivolge la propria ambizione su un livello estetico differente. Gli HMLTD si presentano con un insolito concept album/rock opera riguardo l'allegoria di un verme gigante che imperversa in un medioevo inglese alternativo e distopico, cibandosi di tutto ciò in cui si imbatte. Un simbolismo che Spychalsky utilizza come metafora dei mali che consumano la società moderna, dalla depressione alla struttura politica autoritaria che opprime il popolo.  

Coinvolgendo una sezione archi di 16 elementi, un coro gospel e il piano di Seth Evans (dei Black Midi) entrato nella formazione nel 2021, il gruppo imposta l'atmosfera del racconto con un'interpretazione a metà strada tra la tragedia greca e il musical decadente. Il prologo è veramente promettente, servendosi di una breve introduzione a cappella (Worm's Dream) si è catapultati subito nel caos del free jazz sincopato di Wyrmlands, che ovviamente non può non ricordare i Black Midi, ma anche il David Bowie dark di Outside. Poi si insiste su una visione solenne e corale con il folk neo soul anarchico di The End is Now, ma con la ballad per piano Days l'album prende una piega più intima e autoriale, caratterizzato da velleità aristocratiche come il chamber art rock dei These New Puritans (Liverpool Street) e la sfarzosità operistica che prende il sopravvento sul rock per inseguire una sorta di Gesamtkunstwerk wagneriana (la title-track). 

Il nucleo centrale di The Worm si rivela quindi una narrazione in musica più vicina all'opera teatrale da camera che non ad un lavoro di avant-grade rock, anche nel modo in cui vengono affrontati il crescendo di Saddest Worm Ever, trasfigurato passando dal ritmato crooning ad un collettivo e disperato canto glam rock, e il veloce swing pianistico Past Life (Sinnerman's Song) ispirato a Nina Simone. Non che tutto questo costituisca un male, però riveste un tale aspetto nella messa in scena che la musica talvolta si ripiega nel peso della sua stessa pretenziosità. Dalle premesse mi aspettavo di ascoltare un nuovo capolavoro di prog rock moderno, molto più realisticamente The Worm è un'opera che tende a valorizzare in modo pronunciato tanto gli arrangiamenti che non la composizione in sé. Ma questa sua lodevole ricerca della complessità e dell'artificio, in qualche aspetto si rivela, nella resa finale, un'arma a doppio taglio.

sabato 1 aprile 2023

Altprogcore April discoveries


Dopo i Sullen ecco un altro gruppo prog metal portoghese da segnalare, i Needle. Fall è il loro album d'esordio e, tra gli aggressivi riff djent e sprazzi di atmospheric metal, a prendere le redini è la voce femminile di Soraia Silva. 
 



Primo album per il quintetto canadese Pourpre che, attraverso una verve frizzante, propone un progressive a metà strada tra la jam band e l'hard rock condite con l'irruenza del cabaret che entra in gioco nelle dinamiche insolite dei cambi tematici. A tratti sembrano gli ultimi Gentle Giant pop prog.



Chan the Human è il nome con il quale si presenta Chandler Caron nel suo album di debutto Peace, Hereafter. Coadiuvato nella produzione da Reese Ortenberg degli Enoch Root, Caron compone una serie di canzoni art pop da camera, folk e musical, in uno stile che ricorda sia la ricchezza orchestrale dei Forgive Durden sia l'elegia malinconica di Casey Crescenzo.
 


Matt Dorsey è il pluristrumentista che ha fatto parte dei Sound of Contact di Simon Collins e ha collaborato con Dave Kerzner nei suoi vari progetti musicali, Let Go è il suo primo album da solista.



Anche se avevo già presentato in passato il primo EP del chitarrista Poh Hock, vale la pena segnalare il secondo appena uscito Gallimaufry, un bel mix di prog e fusion che riesce ad essere virtuoso anche nelle inaspettate progressioni armoniche.
 


Gli arne sono un quartetto giapponese di math rock attivo dal 2019, nonostante questo finora hanno pubblicato solo alcuni singoli e nessun album e riuniscono nel loro sound il meglio dei due mondi tra tricot e JYOCHO
 


BLOOMER, secondo EP dei NORTH OF US, contiene semplicemente del sano e ispirato midwest emo/math rock meritevole di essere segnalato.