Anche per i Black Midi successe la stessa cosa ancor prima che pubblicassero il loro primo album due anni fa. In effetti, le loro apparizioni live giustificavano una certa attesa, cosa che poi è stata leggermente ridimensionata all'uscita di Schlagenheim, generalmente lodato dalla stampa, ma non all'altezza di tutto il clamore sollevato in partenza. Adesso, alla lunga distanza e alla luce del secondo album Cavalcade, quell'hype sembra pienamente giustificato. Come già i vari singoli anticipavano, il nuovo sforzo discografico dei Black Midi segna un imprevedibile e, a suo modo, radicale cambio di rotta, virando lo sguardo della loro sperimentazione post punk/noise rock verso un altro linguaggio o stilema musicale. Così facendo, i Black Midi dimostrano grande acutezza nel non ripetere gli schemi del debutto ma, in particolare, manifestano un'ambizione che li ha trasportati in territori ancor più elaborati e vicini al progressive rock, ripagandoli di tale scelta.
Cavalcade vede l'originale line-up privata temporaneamente del chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin, assente durante le registrazioni per prendersi cura della propria salute mentale. Al suo posto comunque il gruppo si è stabilmente espanso con il sassofonista Kaidi Akinnibi e il tastierista Seth Evans, dettaglio non secondario visto la piega che hanno preso le nuove composizioni. Per una band già imprevedibile di suo, Cavalcade ha il pregio di essere una continua scoperta, nella quale i Black Midi mettono sul piatto molteplici aspetti sonori, a differenza del primo album che appariva più coerente nell'offrire una visione disordinata di math rock viscerale e punk.
Ad esempio l'esaltazione dell'improvvisazione e del continuo accavallarsi di ritmiche e progressioni caotiche che erano prerogativa di Schlagenheim, qui lasciano lo spazio anche a squarci di composizione, per così dire, più lineare, mettendo alla prova il gruppo su un versante soft e melodico, quasi del tutto inedito per loro. E anche per questo Cavalcade si rivela un album pieno di piacevoli sorprese. Quando il cantante e chitarrista Geordie Greep non si lascia andare al suo peculiare e idiosincratico vezzo vocale declamatorio da espressionismo tedesco, sembra quasi assumere le sembianze di un consumato crooner, come avviene nei due brani Marlene Dietrich e Ascending Forth, che maggiormente rappresentano le caratteristiche appena citate. Entrambe caratterizzate da un approccio acustico con un vago sapore di chamber folk, la prima è una rilassatissima ballad che si tinge di un arrangiamento tra il vintage e il moderno, cogliendo sia le malinconiche arie del pop orchestrale del cinema anni '60, sia la spaziosa psichedelia di quel periodo. La seconda, che è forse la traccia meno convenzionale per i Black Midi, si regge inizialmente su una progressione di accordi di chitarra pizzicati, quasi bossa nova, e all'accenno delle sue prime variazioni il brano prende le sembianze di una sinfonia per gruppo rock simil Genesis. Non per quanto riguarda l'aspetto orchestrale, ma per quello formale ed esecutivo, un pezzo che pare estrapolato da una pièce più ampia, nell'ottica della concezione di popular music, tra colto e popolare, tramandata fino a noi dai fratelli Gershwin (fatte le dovute proporzioni ovviamente).
Discorso totalmente differente per la sperimentale Diamond Stuff, anch'essa che si stacca sostanzialmente dall'estetica dell'esordio, imbastendo un piccolo concerto per cordofoni e percussioni, incentrato su una cellula percussiva martellante alla quale si sommano in crescendo gli altri strumenti, fino sfociare su un ritmo fluido ed a creare un finale catartico e psichedelico. Quell'attitudine post punk presente su Schlagenheim, in questa sede viene convogliata piuttosto verso le zone del free jazzcore bombardante dei The Mars Volta, come accade nei nevrotici arcipelaghi di-staccati di John L, frazionati da stop improvvisi con ripartenze ogni volta sempre più fragorose. Una vera e propria "cavalcata" di strumenti al loro massimo di tensione, che accelerano in modo propulsivo e schizofrenico durante il loro percorso, tra ostinati di violini, chitarre psicotiche, sassofoni sguaiati e pianoforte apocalittico.
Questa attitudine prosegue su Chondromalacia Patella: il sound è rauco, secco e il brano viene montato sopra tasselli e frammenti tematici di math jazz che oscillano dal quieto al rumoroso, allo stesso modo in cui la ritmica conduce dallo swing al punk. Slow la segue a ruota in questa ricerca dinamica di equilibrio di frenetica geometria irregolare e fusion post moderna, mentre Dethroned è una scusa per mettere in vetrina l'abilità di ciò che possono inventarsi i Black Midi attorno ad un groove avvolgente e costantemente in divenire. Hogwash and Balderdash si spinge ancora più a fondo nella sua idea di patchwork strutturale e sonoro, stipando in due minuti e mezzo ogni aspetto dell'album: è come fosse il trailer di Cavalcade.
Come sempre nelle tracce più pirotecniche il drumming di Morgan Simpson è il vero perno del quale si servono i Black Midi per avviluppare complesse e cervellotiche dinamiche. Ma si deve ammettere che la direzione dell'album mette in risalto le abili doti di ognuno di loro come hanno dato prova nell'incredibile sessione dal vivo per KEXP. Quindi, chiudendo il cerchio sull'argomento di apertura, Cavalcade forse non ha generato lo stesso hype dei gruppi citati in precedenza, ma anche se lo avesse fatto sarebbe stato sicuramente più giustificato. Detto questo, anche per Cavalcade non è legittimo spendere vocaboli maestosi come "capolavoro", "coraggioso" o "rivoluzionario", poiché non rientra in queste categorie. Il giudizio rimane però positivo, è un notevole progresso in avanti rispetto al primo album, è un ascolto complesso e stimolante, ma soprattutto è l'ambiziosa fotografia di una band che ha saputo rinnovarsi in grande stile.