I chitarristi Joshua De La Victoria e Joseph Anidjar hanno iniziato a collaborare ad un progetto congiunto nell'agosto 2021, lavorando separatamente a distanza. Dopo due anni il risultato sono le nove tracce di raffinato rock progressivo strumentale (e non) che compongono l'album Buy High a nome Portraits, confezionate in un involucro compatto, esse riescono a miscelare math rock, fusion, new age, djent e prog. Con l'aiuto della sezione ritmica degli Intervals, Jacob Umansky (basso) e Troy Wright (batteria), i due musicisti scrivono un piccolo capolavoro di equilibrio e dinamica con delle tracce in cui fanno convivere delicate suggestioni e complicati rompicapo poliritmici soft metal, senza mai sfociare negli aspetti più brutali e aggressivi del djent. Le uniche due canzoni con ospiti vocali, la title-track e Sell Low (con Michael Lessard dei The Contortionist), rispettano piuttosto bene la suddetta dicotomia di cui vive Buy High.
Poi ci sono loro, gli Arch Echo, ormai un nome di garanzia abbastanza noto nel panorama prog fusion, tanto che, arrivati al terzo album con Final Pitch,si sono concessi le ospitate di Jordan Rudess, Adrián Terrazas-González e l'artwork di copertina realizzato da Hugh Syme (noto per il suo connubio con i Rush). Final Pitch però nulla aggiunge o toglie a quanto già fatto dal quintetto, riproponendo il solito mappazzone prog, fusion, synthwave pompatissimo, se possibile in modo meno brillante dei suoi due predecessori. Resta comunque una giostra di virtuosismo ed evoluzioni che molti si sognano.
Il chitarrista filippino Gabba Santiago proviene invece da un background differente. Attivo in coppia fin dal 2010 con il batterista Christer de Guia nel duo Degs and Gabba, conosciuto anche come Tom's Story, è stato influenzato da Taking Back Sunday e Circa Survive ed esordisce ora come solista con il disco Recollections. Nella sua musica strumentale non c'è quindi un'accentuata impronta fusion ma, date le premesse, uno spiccato senso per la tecnica math rock e atmosfere emo. Anche in questo caso l'insolito mix crea un lavoro ispirato e ben allestito.
Michael Astley-Brown è un altro chitarrista, questa volta inglese, che con il suo progetto Maebe pubblica il secondo album Rebirth. Relive. Repeat. Anche Maebe si muove in territori di confine, pur avendo nel suo DNA delle tracce di prog fusion la direzione si inclina maggiormente verso post rock, math rock e emo, a tratti in stile Strawberry Girls.
Omhouse è una piccola band canadese che alcuni anni fa avevo segnalato grazie ad un gran bel disco di art pop dal titolo Eye to Eye risalente al 2018, stilisticamente vicino allo spirito non conformista degli XTC e di Andy Partridge. Il suo successore Time in Dreaming è un lavoro dal carattere ancora più gentile e pastorale, nella stessa lunghezza d'onda dei The Blue Nile, con canzoni all'apparenza semplici ma mai banali, le quali, pur mantenendo una connotazione pop rock, si possono gustare meglio dedicandogli la giusta attenzione.
Mentre siamo in attesa solo di un nuovo album di cui ufficialmente ancora non c'è traccia (e sinceramente ho perso le speranze di una sua pubblicazione), i The Contortionist sembra vogliano procrastinarne il più possibile l'uscita con contentini come questo, comunque graditi.
Il live Retrospective: Live From Atlanta, realizzato all'inizio dell'anno esclusivamente come box set contenente sei dischi in vinile ad edizione limitata, è una mega retrospettiva del repertorio della band suonata live in streaming nel 2021, quando ancora soffrivamo per le restrizioni della pandemia. Da oggi questa imponente raccolta è disponibile da ascoltare o acquistare in tutte le piattaforme digitali nel formato che preferite.
Tracklist Set I - Our Bones Set 1) Early Grave 2) Reimagined 3) Follow 4) Geocentric Confusion 5) Flourish 6) 1979 7) Integration 8) Thrive 9) Solipsis 10) Language I: Intuition 11) Language II: Conspire
Tracklist Set II - Clairvoyant Full Album Set 1) Monochrome 2) Godspeed 3) Reimagined 4) Clairvoyant 5) The Center 6) Absolve 7) Relapse 8) Return to Earth 9) Monochrome (Pensive)
Il nome degli australiani Kodiak Empire penso sia sconosciuto ai più, ma non ai lettori di altprogcore. Il quintetto di Brisbane aveva già dimostrato il suo potenziale suSilent Bodies, mini album d'esordio risalente addirittura al 2016. Purtroppo in questi sette anni il gruppo è rimasto inattivo a livello discografico e quindi il loro nome non ha avuto modo di circolare ulteriormente. Per il secondo album si è dovuto attendere il 2023: The Great Acceleration, previsto inizialmente per lo scorso ottobre, è stato rinviato e finalmente è giunto ora alla sua pubblicazione ufficiale tramite l'etichetta Bird’s Robe Records che nel 2021 si era anche occupata di distribuire a livello internazionale Silent Bodies.
Nonostante il lungo periodo di gestazione The Great Acceleration ripropone il formato da mini album del suo predecessore, sfiorando la mezz'ora di durata, ma con un'intensità e densità nel suo contenuto da essere sufficienti a soddisfare molteplici ascolti. The Great Acceleration non è infatti il tipo di album sul quale ci si può soffermare distrattamente, poiché i suoi pezzi non sono costruiti nel modo convenzionale per essere immediatamente assimilati ed è per questo che penso che un amante del progressive rock abituato all'attenzione e alla pazienza potrà apprezzarlo.
I Kodiak Empire fanno di tutto per sfuggire alle catalogazioni, il loro è un experimental rock che si serve degli espedienti contorti di generi come math rock e post rock per farli interagire in un flusso di coscienza musicale imprevedibile, ma il risultato è talmente trasversale e personale da ricadere in una linea di confine ambigua. Anche nei brani scelti come singoli - The Difference e Animist - non troverete margini per appigli orecchiabili o facili melodie da essere ricordate, dentro The Great Acceleration tutto ciò che troverete è una tensione continua rivolta a solennità ed epicità... e scusate se è poco. Sì, perché le composizioni dei Kodiak Empire non appaiono comunque ermetiche o inaccessibili, tutt'altro. Al netto dei gusti individuali, per ciò che mi riguarda raggiungere questo traguardo con successo è altrettanto difficoltoso che trovare una melodia efficace, se non addirittura più insidioso.
I movimenti nella struttura di The Difference descrivono un cammino free form che, una volta risolto nel climax, riparte per un'altra sezione tra allentamenti e tensioni, suggerendo uno sviluppo dinamico potenzialmente infinito. Al contrario Animist ci trascina dentro un vortice centrifugo punteggiato da ampi power chords e da ariosi arpeggi di piano sottotraccia, focalizzati nel preparare la scena all'imponente finale con ouverture di synth e la ritmica che varia da frenetica a cadenzata, in modo da aumentare il senso di melodrammaticità.
Proprio per queste caratteristiche è intuibile che le canzoni dei Kodiak Empire scaturiscano da improvvisazioni e jam session, poi rielaborate e connesse per costituire una forma di senso compiuto che abbia un inizio e una fine. Questa tecnica è presentata sia in piccolo con la tavolozza impressionista di Maralinga, sia ad ampio respiro nei pezzi più dilatati e articolati dell'album Whitin the Comfort e Marcel. La ritmica in costante movimento, i riff di chitarra che si susseguono in un gioco contrapposto tra accordi ambient che sfumano e articolati fraseggi di spigoloso math rock, le tastiere dosate come una luminosa atmosfera di sottofondo, contribuiscono a creare un tappeto dove la voce si appoggia e si indirizza in una narrazione, coinvolgente ed emozionale invece che orecchiabile.
Quando si parla di progressive rock ancora oggi, purtroppo, gli esempi contemporanei che vengono in mente sono limitati al metal o al sinfonico. Ciò che fanno i Kodiak Empire ha molto più diritto di chiamarsi "progressive" rispetto ad altri, dato che si prendono alcuni rischi, non assomigliano a nulla di preciso e a nessuno, non sono ascrivibili ad un genere preciso, ma seguono l'istinto creativo. The Great Acceleration non dovrebbe mancare in nessuna lista dei migliori album di fine anno, ma ahimè penso che verrà data la precedenza sempre ai soliti nomi.
Ecco una cosa che non facevo da qualche tempo, la classifica di metà anno. Generalmente avevo rinunciato poiché la trovo una pratica pleonastica, visto che probabilmente alcuni album qui presenti li ritroveremo a fine anno (ovviamente mescolati), ma dato che quasi tutti i siti musicali la propongono, perché non riprovarci? Quindi, per chi fosse ancora sintonizzato su queste pagine, ecco una breve lista di cosa mi ha colpito di più nella prima metà del 2023. Vi chiederei come ogni volta di citare anche le vostre scelte, ma tanto so già che non avrò alcun feedback. Quindi beccatevi questa sterile lista senza commenti e ne riparliamo a fine anno.
Per un artista la visibilità e la promozione della propria persona
rappresentano tutto, delle condizioni obbligate per sopravvivere nel mondo
discografico ed essere conosciuti da un più ampio pubblico possibile. Guardando
alla carriera di David Sylvian queste certezze vengono meno, dato che da sempre
l’esoterico misantropo musicista inglese si è comportato in modo opposto a
qualsiasi regola di mercato, quasi ad allontanarsi volutamente dalla popolarità.
La sua più recente incarnazione artistica impostata sulla linea di album
sperimentali come BLEMISH (2003), MANAFON (2009) e DIED IN THE WOOL | MANAFON
VARIATIONS (2011), che saranno racchiusi insieme ad altro materiale nel sontuoso box set DO YOU KNOW ME NOW? in uscita il 4 agosto, ci presentano un Sylvian immerso in territori musicali molto
elitari e difficoltosi da seguire, come a voler restringere ancora di più il
perimetro dei suoi sostenitori.
Ma questo impulso di distacco dalla fama, a ben vedere, lo ha accompagnato
sin dai tempi dei gloriosi Japan, la band di cui era frontman e principale
compositore costituita nel 1974 insieme al fratello Steve Jansen (batteria),
Mick Karn (basso), Richard Barbieri (tastiere) e Rob Dean (chitarra). Il gruppo
si sciolse alla fine del 1982 quando stava per raggiungere l’apice del
successo, al termine del tour che seguì la pubblicazione dell’ultimo album in
studio TIN DRUM (1981). Tra le varie motivazioni, oltre ai dissidi interni,
c’era proprio il disinteresse totale di Sylvian da quel tipo di new wave
sofisticata che lo avrebbe potuto trasformare in una celebrità del movimento
new romantics, in questo agevolato anche dal suo bell’aspetto dai lineamenti
delicati, androgino ed efebico, che gli valsero l’appellativo di “uomo più
bello del pop”.
Sylvian si sentiva a disagio sia per la crescente attenzione mediatica sia
per la stressante vita in tournée, in più stava maturando in lui l’idea che i
Japan stessero limitando la sua creatività, come fossero una specie di barriera
che impediva la maturazione della propria arte: “Scoprii che c’era una
specie di vuoto emozionale alla base del lavoro dei Japan, che poi era
responsabilità mia in quanto autore e avevo davvero bisogno di prendere
coscienza di me stesso, del mondo che mi circondava, delle ragioni per cui
facevo ciò che facevo e la funzione ed il senso della musica nella società.”
Forse nessuno si aspettava cosa sarebbe accaduto dopo ma, tra collaborazioni
prestigiose, contaminazioni tra i generi e composizioni dalla natura
intellettuale, nell’arco di soli tre album Sylvian non solo ottenne il successo
tanto evitato, ma fu uno dei più rilevanti artisti degli anni ’80, per certi
aspetti anche pioniere di nuovi linguaggi musicali.
I tre album in questione sono BRILLIANT TREES (1984), GONE TO EARTH (1986)
e SECRETS OF THE BEEHIVE (1987), oggetto di una serie di ristampe in vinile
(insieme ad altri suoi lavori) che la Virgin Universal ha pubblicato nel
febbraio 2019. Una delle prove del valore artistico della trilogia ottantiana
di Sylvian è che, se riascoltati oggi, questi lavori non hanno perso un
briciolo di modernità, come invece la maggioranza delle pubblicazioni coeve,
nate in un decennio dalle forti connotazioni estetiche che le ha rese
immediatamente ed indissolubilmente legate a quel periodo. Ciò che stupisce nei
tre album è la qualità e l’ispirazione che rimangono pressoché costanti, tutti
e tre raggiungono lo status di capolavoro, mostrando aspetti differenti e
tuttavia consonanti all’evoluzione di Sylvian come compositore.
1. Alberi brillanti, chitarre rosse e colori proibiti
Anche se Sylvian, una volta chiusa l’esperienza con i Japan, preferiva
dimenticare quanto prodotto da quella band, ci furono due eventi chiave
risalenti proprio a quel periodo che lo illuminarono a livello creativo e che
servirono da preludio per BRILLIANT TREES. Il primo fu la composizione del brano
Ghosts, contenuto in TIN DRUM, creato con il supporto di Jansen e Ryuichi
Sakamoto. Sylvian: “Scrivere Ghosts è stato per me una svolta decisiva. Molto
di quello che abbiamo realizzato con i Japan era costruito con artificio. Con
quella canzone sentivo di aver scoperto una nuova strada, che avevo toccato
qualcosa di vero per me stesso, capivo che avevo trovato una mia propria “voce”
e volevo allacciare diverse relazioni con altri musicisti.” Nonostante la sua
natura dark di minimalismo elettronico quasi respingente, Ghosts divenne il
singolo di maggior successo dei Japan, riuscendo a scalare la top 10 inglese
fino al quinto posto.
Il secondo evento è rappresentato da quello che fu il sodalizio artistico
con Sakamoto. I due musicisti avevano già iniziato a collaborare per il singolo
Bamboo Houses/Bamboo Music (1982) quando entrambi ancora facevano parte dei
rispettivi gruppi (Japan e Yellow Magic Orchestra), poi Sakamoto invitò Sylvian
a Tokyo al fine di scrivere il testo per il pezzo strumentale della colonna
sonora del film “Merry Christmas Mr. Lawrence” (in Italia uscito come “Furyo”)
e ne venne fuori l’immortale Forbidden Colours. Sylvian: “Ciò aprì una porta.
Pensai: Ok, sono pronto. E ho iniziato a scrivere BRILLIANT TREES.”
Le sessioni di registrazione dell’album si tennero prima a Berlino (agosto
’83) ed in seguito a Londra a cavallo tra l’83 e l’84 per essere poi pubblicato il 25 giugno 1984. Impressionante lo stuolo di musicisti ospiti che Sylvian
riuscì a radunare al fine di dare forma alla sua idea di musica. Oltre ai
sodali Barbieri, Jansen e a Sakamoto, che lo seguirono anche nell’avventura
solista, Sylvian si circondò di esponenti di primo piano provenienti dal jazz e
dall’avanguardia tra cui i trombettisti Mark Isham, Kenny Wheeler e Jon Hassell,
i chitarristi Ronny Drayton e Phil Palmer, i bassisti Danny Thompson e Wayne
Braithwaite ed infine il co-produttore Steve Nye e Holger Czukay, storico
fondatore dei CAN e allievo di Karlheinz Stockhausen. Czukay rappresentò per
Sylvian quasi un mentore nel decennio ottantiano, un’ammirazione e
collaborazione che diede i suoi frutti nel dittico di opere ambient PLIGHT
& PREMONITION (registrato nel 1986 e pubblicato nel 1988) e FLUX + MUTABILITY
(1989). Sylvian: “Lavorare con Holger è sempre stata per me un’esperienza
affascinante e di crescita. Ci siamo presi bene immediatamente, aveva un
meraviglioso senso dell’umorismo e una totale affinità con l’uso della
tecnologia e la composizione. Portò davvero delle splendide idee e accese
scintille creative che hanno condotto ad altre grandi cose.”
Sylvian fu particolarmente soddisfatto delle sessioni berlinesi, poiché
nella sua concezione i musicisti, forestieri nella capitale tedesca, avrebbero
tratto ispirazione dal contesto europeo: “Musicalmente non c’era un atteggiamento
di riferimento, quello che avevo in mente è che i musicisti sarebbero venuti e
avrebbero suonato veramente quello che provavano. Volevo creare per loro un
ambiente rilassato, di modo che si potessero sentire a loro agio nel fare
quello che volevano sulle tracce. L’idea era di avere delle vere e proprie
performance da parte della gente che avevo ingaggiato.”
La disposizione delle tracce seguiva uno schema ben preciso: sul primo lato
erano raccolte quattro canzoni dalla struttura convenzionale, nel secondo si
trovavano tre brani dall’impostazione più libera, svincolata dalla logica pop e
maggiormente vicina all’avant-garde. Anche se le ultime opere discografiche di
David Sylvian appaiono così estreme nella loro ricerca completamente votata
all’improvvisazione, questo processo creativo fu in realtà adottato dal
musicista sin dal primo album fuso insieme ad elementi di jazz e ambient che
caratterizzarono il lato B di BRILLIANT TREES. La principale caratterizzazione
sulla quale i tre brani si fondano è il peculiare amalgama scaturito dalla
tromba ultraterrena di Hassell e i sintetizzatori di Sakamoto. L’apporto di
Hassell su Weatheerd Wall e sulla title-track fu talmente importante da essere
riconosciuto come co-autore. Il trombettista era in effetti noto per aver
creato un peculiare timbro manipolato elettronicamente - già popolarizzato
nell’album in collaborazione con Brian Eno FOURTH WORLD (1980) - che si sposava
in modo perfetto con il vagheggiato connubio di new age e world music proposto
da BRILLIANT TREES. Il lato A rappresentava invece l’evoluzione dell’anima art
pop di Sylvian: adesso il cantante si presentava come un aristocratico
interprete rock di ballate pop jazz notturne (The Ink in the Well) condite con
qualche tocco di funk (Pulling Punches, Red Guitar). Il ruolo nel quale il
soffice e caldo baritono di Sylvian si trovava più a suo agio erano le
malinconiche e stagnanti arie di Nostalgia, quasi un manifesto di intenzioni e
aspirazioni, punto di congiunzione tra i canoni estetici delle due facciate.
Sotto questa ottica BRILLIANT TREES non solo tracciava la dicotomia tra i
contorni stilistici che Sylvian abbraccerà da qui in poi (cantautorato e
ambient music), ma può essere considerato come primo prototipo dell’ancora non
brevettato post rock, riconosciuto più avanti grazie ai tardi Talk Talk e Bark
Psychosis.
Trovata la sua nuova identità musicale, Sylvian si liberò definitivamente
anche dell’immagine da giovane dandy androgino e decadente collegata ai Japan,
per mostrarsi nelle vesti di crooner elegante e sofisticato come nella foto di
copertina ad opera della fidanzata di allora Yuka Fujii. Gli elementi
iconografici e lirici per Sylvian rivestivano una aspetto altrettanto
importante quanto la musica, attraverso continui riferimenti a poeti ed
esponenti di arti visive.
2.Lontano dalla Terra
Da qui iniziò anche un rapporto conflittuale con la casa discografica
Virgin che preferiva Sylvian nelle vesti di autore di potenziali successi pop
remunerativi dal punto di vista economico, piuttosto che un misantropo
sperimentatore di suoni new age. Sotto un certo aspetto la Virgin lasciò buona
libertà artistica al musicista quando gli permise di pubblicare ALCHEMY: AN
INDEX OF POSSIBILITIES (1985), una raccolta di brani strumentali scritti per
vari progetti che musicalmente rappresentavano, nelle parole di Sylvian, “una
combinazione di temi che erano stati esplorati in BRILLIANT TREES e desideravo
sviluppare.” In una di queste composizioni, Steel Cathedrals, faceva il suo
ingresso nell’universo sonoro di Sylvian la chitarra di Robert Fripp che,
insieme a quella di Bill Nelson dei Be-Bop Deluxe, avrà un ruolo preponderante
nell’album successivo. “Stavo lavorando sul materiale di GONE TO EARTH e ho
capito di voler fare un album ricco di chitarra e Bill è stato una delle prime
persone a venirmi in mente. C’era un contrasto tra gli stili di Robert e Bill
con il quale pensavo sarebbe stato interessante giocare nell’album.”
GONE TO EARTH, pubblicato nel 1986 come doppio album, allargò ancora di più
la scissione degli stili a cui Sylvian si stava dedicando, mettendo quasi un
ordine nella visione di due distinte dichiarazioni d’intenti. Il primo disco
era dedicato a canzoni d’autore estese, tra il prog e l’avant-garde, mentre il
secondo era occupato da paesaggi sonori ambient totalmente strumentali,
composti per loops e chitarra. Un aspetto quest’ultimo che fece riemergere le
perplessità della Virgin la quale, pur rifiutando di stanziare i fondi per
delle composizioni che facevano a meno della voce di Sylvian, arrivò ad un
compromesso: “Il patto era che il budget dell’album non avrebbe incluso il
lavoro strumentale e che se avessi voluto produrlo, lo avrei dovuto fare a mie
spese e nel mio tempo libero. Quindi è quello che ho fatto.”
Oltre a Nelson e Fripp, tra i nuovi musicisti di cui Sylvian si servì
comparivano Ian Maidamn (basso), John Taylor (piano), Mel Collins (sax) B.J.
Cole (chitarra) che, come per l’album precedente, furono lasciati liberi di
esprimere la loro creatività. GONE TO EARTH è un lavoro che rispecchia in
musica un momento particolare della vita di Sylvian, intriso di spiritualità e
misticismo, teso alla ricerca interiore attraverso gli insegnamenti di
Gurdjieff, il sufismo, il buddismo e il cristianesimo, liricamente ispirato
alle opere di Max Ernst (Taking the Veil), Milan Kundera (Laughter and
Forgetting) e del filosofo moderno J.G. Bennett la cui voce campionata appare
nella complessa e atonale title-track su suggerimento di Fripp co-autore del
brano. Sylvian: “Nella mia mente volevo fare due versioni, una con Bill e una
con Robert, ma alla fine ho avuto tempo di fare solo quella con Robert. Quando
ci siamo seduti nello studio lui ha iniziato a suonare qualcosa di molto
aggressivo, ho registrato la traccia ritmica seduta stante e lui ha realizzato molto
velocemente due o tre takes. È stata una canzone creata in modo molto spontaneo
e con poche sovraincisioni.” La parte centrale del primo album è comunque
dominata dalle lunghe Before the Bullfight e Wave, due colonne di impalpabili
ed eteree sonorità provenienti da una dimensione ultraterrena, che hanno come
tema l’amore umano che sconfina nel divino. Nonostante Wave sia considerato da
molti uno degli episodi migliori di GONE TO EARTH, Sylvian non è stato mai
soddisfatto del risultato finale ritenendolo, insieme all’altro brano Riverman,
una grande delusione e un fallimento dal punto di vista della sezione ritmica:
“Abbiamo provato a suonare con diversi ritmi e abbiamo scelto quello che si
sente, ma non mi ha mai convinto, era troppo rigido ed era difficile
lavorarci.” Il brano che chiudeva la parte vocale dell’album, Silver Moon, fu
il tanto agognato singolo che la Virgin pretendeva da Sylvian e dal quale fu
tratto anche un video promozionale.
3.Lo sguardo nell’abisso
Le preoccupazioni della casa discografica furono ridimensionate dall’album
successivo SECRETS OF THE BEEHIVE, il disco a tutt’oggi più accessibile e
commerciale del suo catalogo, costituito esclusivamente da canzoni e dove trovò
spazio come bonus track il singolo di successo Forbidden Colours. Le
composizioni presero forma durante il tour promozionale per GONE TO EARTH e lo
stesso Sylvian fu stupito dalla velocità con cui i nuovi pezzi prendevano
forma. La cosa che fu chiara fin da subito è che questa volta la direzione
stilistica intrapresa avrebbe privilegiato l’aspetto strumentale acustico e
cantautorale dell’artista. Sylvian: “C’era più enfasi sul contenuto dei testi
rispetto agli album precedenti. Siccome il materiale mi è venuto molto
facilmente, dato che possedeva una certa forza nella sua semplicità, mi
sembrava che non avesse bisogno di miglioramenti per quanto riguardasse le
atmosfere di studio e gli effetti.”
Le sessioni di registrazione di SECRETS OF THE BEEHIVE si tennero presso
Chateau Miraval nel sud della Francia, dove Sylvian riunì molti dei musicisti
con cui aveva già lavorato e la new entry di maggior rilievo questa volta era
il chitarrista jazz sperimentale David Torn. In più in quel periodo la Fujii,
sempre al fianco di Sylvian nei suoi spostamenti, lo stava avvicinando al catalogo
dell’etichetta ECM che sicuramente aiutò a preservare gli influssi jazz negli
arrangiamenti, dei quali si occupò ancora una volta Sakamoto, grazie
all’aggiunta di raffinate e soffuse partiture orchestrali. Due mondi di musica
colta, quello classico e quello jazz, che diluiti nella ritrovata estetica da
cantautore di Sylvian fondavano l’essenza di quello che chiamiamo oggi
comunemente chamber pop. Da una parte avevamo i requiem Let the Happiness In,
The Devil’s Own, l’andamento minimale di Waterfront e il gorgo
elettro-aleatorio Maria che amplificavano la parte oscura ed elegiaca
dell’opera. Dall'altra, un tenue raggio di sole era filtrato attraverso le ballate per
chitarra acustica The Boy with the Gun, Orpheus e When Poets Dreamed of Angels,
ma l’atmosfera che prevaleva era quella di un calmo e stagnante riflusso
meditativo, una crepuscolare premonizione dell’inevitabile termine di una fase
artistica. Pubblicato nel novembre 1987, SECRETS OF THE BEEHIVE sarà infatti il
suggello del primo capitolo della carriera di Sylvian dopo il quale si prenderà
una lunga pausa e, come ultimo tassello di una trilogia, mostrava il suo lato
meno sperimentale ma più vulnerabile in termini di essere umano.
L’album era introdotto dalla breve sonata per piano e voce September: proprio
come il mese preludio dell’autunno e la desolata copertina in bianco e nero
riflettevano un’atmosfera nostalgica e di pessimismo, allo stesso modo potevano
essere interpretati come una metafora del periodo di depressione che si stava
aprendo per Sylvian. Non solo come artista, ma anche come persona Sylvian era
immerso in una continua ricerca spirituale e religiosa che si rispecchiava nel
suo lavoro, facendo emergere un’introspezione cupa e malinconica nelle liriche.
Questo aspetto deprimente dell’album fu oggetto di molte critiche negative,
tuttavia SECRETS OF THE BEEHIVE trovò la sua genesi in una spinta creativa
positiva che contrastava con il contenuto. Sylvian: “E’ stato molto facile
completarlo, scrivevo un brano a seduta il che per me era una novità dato che
di solito impiegavo molto tempo a scrivere. È stato quindi entusiasmante che
questo mi sia accaduto in quel periodo. Immagino che fosse la mia reazione
personale dopo essere stato coinvolto da poco nella musica strumentale, che mi
aveva fatto desiderare di tornare a scrivere canzoni in modo più semplice.” Il
tour e il periodo successivo a SECRETS OF THE BEEHIVE palesarono tutta l’afflizione e lo stato di turbamento nel quale era sprofondato Sylvian: “Ho
scritto canzoni sulla sofferenza nelle quali il mio scopo era di creare una
sensazione di sconforto. Perché lo sconforto c’è, è in me. Sto sicuramente
attraversando un periodo di cambiamenti. Questi ultimi due anni sono stati
molto difficili, sono stati un periodo di transizione.” Fatto sta che il sempre
schivo Sylvian si richiuse ancora di più in se stesso, prendendosi una lunga
pausa e per molti anni dedicandosi solo a collaborazioni, abbinando il suo nome
a quello di altri come il già citato sodalizio nei due album con Czukay, il
ritorno con i vecchi compagni dei Japan per un solo omonimo album nel 1991
sotto il nome Rain Tree Crow e un lavoro condiviso con Robert Fripp che portò
al brillante THE FIRST DAY (1993). Solo nel 1999 Sylvian fu pronto per tornare
al pubblico con un intero album a suo nome, DEAD BEES ON A CAKE (anch’esso
ristampato in doppio vinile), la raccolta più ricca di materiale della sua
carriera, quasi a certificare la rinascita artistica e la ritrovata pace
interiore.
Bonus Track
JAPAN: seducente non-pop
I Japan rimangono la band più anomala nella scena new wave/post punk sorta
e proliferata tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni’80. Capaci di
racchiudere nello stesso involucro la cura meticolosa per l’aspetto vanesio e
patinato del glam rock e la competenza e preparazione di abili strumentisti
alla ricerca di soluzioni sofisticate e non convenzionali per il synth pop.
Inizialmente la popolarità fu ostacolata anche perché i primi due album
ADOLESCENT SEX e OBSCURE ALTERNATIVES, entrambi pubblicati nel 1978 in piena
esplosione punk, sembrarono dei manifesti glam fuori tempo massimo, ignorati in
Inghilterra ma accolti benissimo in Giappone. I Japan si presentavano come
quattro bellissimi dandy truccati ed androgini, figure da pop aristocratico
nati già con l’idea di nascondere la propria identità dietro una maschera. I
fratelli Steve e David Batt cambiarono i loro cognomi in onore di Syl Sylvain e
David Johansen dei New York Dolls, band da cui Sylvian e Jansen erano rimasti
folgorati. I Japan erano così immersi in quella disco funk che persino Sylvian
cantava in modo totalmente differente dal suo distintivo tono baritonale e
languido per il quale è riconosciuto. Incarnando praticamente una versione meno
trasgressiva di David Bowie e Marc Bolan, i Japan trovarono la loro dimensione
tra i due album successivi, curando più la musica che la propria immagine. Le
prime avvisaglie di una acquisita consapevolezza arrivarono con il singolo
synth disco Life in Tokyo (1979), prodotto e co-scritto con il produttore
Giorgio Moroder che trascinava i Japan in un pop retro futurista poi sviscerato
su QUIET LIFE (1979), pieno di sintetizzatori e seducenti atmosfere alla Roxy
Music dai quali presero in prestito anche il produttore John Punter.
Passato il
ciclone punk, con l’avvento dei new romantics che riportavano in auge aspetti
glam nella cultura pop, i Japan si trovarono all’improvviso all’ultima moda e
da questo momento iniziarono ad avere un crescente successo anche in patria.
GENTLEMEN TAKE POLAROIDS (1980) fu il primo album per la Virgin e il primo dove
il gruppo esprimeva in pieno il proprio potenziale. La voce di Sylvian aveva
trovato quell’impostazione seducente a lui congeniale e l’elegante funk
elettronico poteva contare su una sezione ritmica in stato di grazia: Mick Karn
con le sue ragnatele di basso fretless si certificava come il miglior bassista
della sua generazione, mentre le sinuose pulsazioni non-rock di Jansen donavano
quell’atmosfera esotica, accentuata dai sintetizzatori di Richard Barbieri che
soffocavano sempre di più la chitarra di Rob Dean, che infatti si separò dal
gruppo dopo questo lavoro. La sofisticazione stilistica raggiunse il culmine su
TIN DRUM (1981) un lavoro talmente ricercato per i canoni new romantics da far
considerare i Japan un satellite isolato e fuori orbita. Raggiunto il vertice
dell’art pop decadente, flessuoso e mutevole come il basso di Karn, il gruppo
ottenne finalmente il consenso di critica e pubblico, anche se ciò non fu
sufficiente a placare le tensioni sorte tra Sylvian e Karn che portarono allo
scioglimento definitivo dei Japan. Suggello di quell’esperienza fu il sublime
documento live postumo OIL ON CANVAS (1983).