sabato 29 luglio 2023

Notes from the Edge of the Week #8


  • I chitarristi Joshua De La Victoria e Joseph Anidjar hanno iniziato a collaborare ad un progetto congiunto nell'agosto 2021, lavorando separatamente a distanza. Dopo due anni il risultato sono le nove tracce di raffinato rock progressivo strumentale (e non) che compongono l'album Buy High a nome Portraits, confezionate in un involucro compatto, esse riescono a miscelare math rock, fusion, new age, djent e prog. Con l'aiuto della sezione ritmica degli IntervalsJacob Umansky (basso) e Troy Wright (batteria), i due musicisti scrivono un piccolo capolavoro di equilibrio e dinamica con delle tracce in cui fanno convivere delicate suggestioni e complicati rompicapo poliritmici soft metal, senza mai sfociare negli aspetti più brutali e aggressivi del djent. Le uniche due canzoni con ospiti vocali, la title-track e Sell Low (con Michael Lessard dei The Contortionist), rispettano piuttosto bene la suddetta dicotomia di cui vive Buy High. 


  • Poi ci sono loro, gli Arch Echo, ormai un nome di garanzia abbastanza noto nel panorama prog fusion, tanto che, arrivati al terzo album con Final Pitch, si sono concessi le ospitate di Jordan Rudess, Adrián Terrazas​-​Gonz​á​lez e l'artwork di copertina realizzato da Hugh Syme (noto per il suo connubio con i Rush). Final Pitch però nulla aggiunge o toglie a quanto già fatto dal quintetto, riproponendo il solito mappazzone prog, fusion, synthwave pompatissimo, se possibile in modo meno brillante dei suoi due predecessori. Resta comunque una giostra di virtuosismo ed evoluzioni che molti si sognano. 


  • Il chitarrista filippino Gabba Santiago proviene invece da un background differente. Attivo in coppia fin dal 2010 con il batterista Christer de Guia nel duo Degs and Gabba, conosciuto anche come Tom's Story, è stato influenzato da Taking Back Sunday e Circa Survive ed esordisce ora come solista con il disco Recollections. Nella sua musica strumentale non c'è quindi un'accentuata impronta fusion ma, date le premesse, uno spiccato senso per la tecnica math rock e atmosfere emo. Anche in questo caso l'insolito mix crea un lavoro ispirato e ben allestito.


  • Michael Astley-Brown è un altro chitarrista, questa volta inglese, che con il suo progetto Maebe pubblica il secondo album Rebirth. Relive. Repeat. Anche Maebe si muove in territori di confine, pur avendo nel suo DNA delle tracce di prog fusion la direzione si inclina maggiormente verso post rock, math rock e emo, a tratti in stile Strawberry Girls.


  • Omhouse è una piccola band canadese che alcuni anni fa avevo segnalato grazie ad un gran bel disco di art pop dal titolo Eye to Eye risalente al 2018, stilisticamente vicino allo spirito non conformista degli XTC e di Andy Partridge. Il suo successore Time in Dreaming è un lavoro dal carattere ancora più gentile e pastorale, nella stessa lunghezza d'onda dei The Blue Nile, con canzoni all'apparenza semplici ma mai banali, le quali, pur mantenendo una connotazione pop rock, si possono gustare meglio dedicandogli la giusta attenzione. 

venerdì 21 luglio 2023

The Contortionist - Retrospective: Live From Atlanta (2023)


Mentre siamo in attesa solo di un nuovo album di cui ufficialmente ancora non c'è traccia (e sinceramente ho perso le speranze di una sua pubblicazione), i The Contortionist sembra vogliano procrastinarne il più possibile l'uscita con contentini come questo, comunque graditi. 

Il live Retrospective: Live From Atlanta, realizzato all'inizio dell'anno esclusivamente come box set contenente sei dischi in vinile ad edizione limitata, è una mega retrospettiva del repertorio della band suonata live in streaming nel 2021, quando ancora soffrivamo per le restrizioni della pandemia. Da oggi questa imponente raccolta è disponibile da ascoltare o acquistare in tutte le piattaforme digitali nel formato che preferite.



Tracklist Set I - Our Bones Set
1) Early Grave
2) Reimagined
3) Follow
4) Geocentric Confusion
5) Flourish
6) 1979
7) Integration
8) Thrive
9) Solipsis 
10) Language I: Intuition
11) Language II: Conspire 

Tracklist Set II - Clairvoyant Full Album Set
1) Monochrome
2) Godspeed
3) Reimagined
4) Clairvoyant
5) The Center
6) Absolve
7) Relapse
8) Return to Earth
9) Monochrome (Pensive) 

Tracklist Set III - Exoplanet + Intrinsic Set 
1) Primal Directive
2) Oscillator
3) Flourish
4) Geocentric Confusion
5) Causality 
6) Vessel
7) Solipsis
8) Axiom
9) Exoplanet I: Egress
10) Exoplanet II: Void
11) Exoplanet III: Light 





domenica 16 luglio 2023

Kodiak Empire - The Great Acceleration (2023)


Il nome degli australiani Kodiak Empire penso sia sconosciuto ai più, ma non ai lettori di altprogcore. Il quintetto di Brisbane aveva già dimostrato il suo potenziale su Silent Bodies, mini album d'esordio risalente addirittura al 2016. Purtroppo in questi sette anni il gruppo è rimasto inattivo a livello discografico e quindi il loro nome non ha avuto modo di circolare ulteriormente. Per il secondo album si è dovuto attendere il 2023: The Great Acceleration, previsto inizialmente per lo scorso ottobre, è stato rinviato e finalmente è giunto ora alla sua pubblicazione ufficiale tramite l'etichetta Bird’s Robe Records che nel 2021 si era anche occupata di distribuire a livello internazionale Silent Bodies

Nonostante il lungo periodo di gestazione The Great Acceleration ripropone il formato da mini album del suo predecessore, sfiorando la mezz'ora di durata, ma con un'intensità e densità nel suo contenuto da essere sufficienti a soddisfare molteplici ascolti. The Great Acceleration non è infatti il tipo di album sul quale ci si può soffermare distrattamente, poiché i suoi pezzi non sono costruiti nel modo convenzionale per essere immediatamente assimilati ed è per questo che penso che un amante del progressive rock abituato all'attenzione e alla pazienza potrà apprezzarlo. 

I Kodiak Empire fanno di tutto per sfuggire alle catalogazioni, il loro è un experimental rock che si serve degli espedienti contorti di generi come math rock e post rock per farli interagire in un flusso di coscienza musicale imprevedibile, ma il risultato è talmente trasversale e personale da ricadere in una linea di confine ambigua. Anche nei brani scelti come singoli - The Difference e Animist - non troverete margini per appigli orecchiabili o facili melodie da essere ricordate, dentro The Great Acceleration tutto ciò che troverete è una tensione continua rivolta a solennità ed epicità... e scusate se è poco. Sì, perché le composizioni dei Kodiak Empire non appaiono comunque ermetiche o inaccessibili, tutt'altro. Al netto dei gusti individuali, per ciò che mi riguarda raggiungere questo traguardo con successo è altrettanto difficoltoso che trovare una melodia efficace, se non addirittura più insidioso. 

I movimenti nella struttura di The Difference descrivono un cammino free form che, una volta risolto nel climax, riparte per un'altra sezione tra allentamenti e tensioni, suggerendo uno sviluppo dinamico potenzialmente infinito. Al contrario Animist ci trascina dentro un vortice centrifugo punteggiato da ampi power chords e da ariosi arpeggi di piano sottotraccia, focalizzati nel preparare la scena all'imponente finale con ouverture di synth e la ritmica che varia da frenetica a cadenzata, in modo da aumentare il senso di melodrammaticità.    

Proprio per queste caratteristiche è intuibile che le canzoni dei Kodiak Empire scaturiscano da improvvisazioni e jam session, poi rielaborate e connesse per costituire una forma di senso compiuto che abbia un inizio e una fine. Questa tecnica è presentata sia in piccolo con la tavolozza impressionista di Maralinga, sia ad ampio respiro nei pezzi più dilatati e articolati dell'album Whitin the Comfort e Marcel. La ritmica in costante movimento, i riff di chitarra che si susseguono in un gioco contrapposto tra accordi ambient che sfumano e articolati fraseggi di spigoloso math rock, le tastiere dosate come una luminosa atmosfera di sottofondo, contribuiscono a creare un tappeto dove la voce si appoggia e si indirizza in una narrazione, coinvolgente ed emozionale invece che orecchiabile.

Quando si parla di progressive rock ancora oggi, purtroppo, gli esempi contemporanei che vengono in mente sono limitati al metal o al sinfonico. Ciò che fanno i Kodiak Empire ha molto più diritto di chiamarsi "progressive" rispetto ad altri, dato che si prendono alcuni rischi, non assomigliano a nulla di preciso e a nessuno, non sono ascrivibili ad un genere preciso, ma seguono l'istinto creativo. The Great Acceleration non dovrebbe mancare in nessuna lista dei migliori album di fine anno, ma ahimè penso che verrà data la precedenza sempre ai soliti nomi.


martedì 4 luglio 2023

Altprogcore Best Albums of 2023 So Far


Ecco una cosa che non facevo da qualche tempo, la classifica di metà anno. Generalmente avevo rinunciato poiché la trovo una pratica pleonastica, visto che probabilmente alcuni album qui presenti li ritroveremo a fine anno (ovviamente mescolati), ma dato che quasi tutti i siti musicali la propongono, perché non riprovarci? Quindi, per chi fosse ancora sintonizzato su queste pagine, ecco una breve lista di cosa mi ha colpito di più nella prima metà del 2023. Vi chiederei come ogni volta di citare anche le vostre scelte, ma tanto so già che non avrò alcun feedback. Quindi beccatevi questa sterile lista senza commenti e ne riparliamo a fine anno.





25.The Intersphere 
Wanderer 
(alternative rock)




24.Seven Impale 
Summit
(progressive rock)



23.Earthquake Lights 
Desert Bloom 
(orchestral pop)



22.Lakes 
Elysian Skies
(midwest emo)



21.Periphery 
Periphery V: Djent Is Not a Genre
(djent) 





20.Palette Knife 
New Game+
(midwest emo, pop punk)



19.Origami Angel 
The Brightest Days
(midwest emo, pop punk)



18.Needle 
Fall
(progressive metal)


17.Lars Fredrik Frøislie 
Fire fortellinger
(progressive rock)



16.The Aces 
I've Loved You for So Long
(pop rock) 
 


15.The Resonance Project 
Ad Astra
(prog fusion)



14.Oiapok 
Oisolün
(progressive rock, Canterbury scene)



13.Big Lava 
Big Lava
(alternative rock)



12.Superlove 
follow:noise
(hyperpop)



11.Sunwell 
Sunwell
(progressive rock)



10.Semaphore 
I Need a Reason to Stay
(post hardcore, shoegaze)



9.Ok Goodnight 
The Fox and The Bird
(progressive rock)



8.Eyeless Owl 
Murmurations
(progressive rock, Canterbury scene)



5.East of the Wall 
A Neutral Second
(post metal, progressive rock)



4.Dispirited Spirits 
The Redshift Blues
(prog emo psych jazz rock)



3.Enoch Root 
Delusion
(progressive rock)




2.Jakub Żytecki 
Remind Me
(ambient prog metal)




1.Phoxjaw 
notverynicecream
(hyper post hardcore)



Qualche EP per concludere...


5.North of Us - Bloomer
(midwest emo)


4.Poh Hock 
Gallimaufry
(prog fusion)


3.Sea in the Sky 
Fall in Place
(prog fusion)


2.Adjy 
June Songs Vol.1
(midwest emo)


1.Overgrow 
This All Will End
(indie emo)

lunedì 3 luglio 2023

David Sylvian - La trilogia degli anni Ottanta (1984-1987)


Per un artista la visibilità e la promozione della propria persona rappresentano tutto, delle condizioni obbligate per sopravvivere nel mondo discografico ed essere conosciuti da un più ampio pubblico possibile. Guardando alla carriera di David Sylvian queste certezze vengono meno, dato che da sempre l’esoterico misantropo musicista inglese si è comportato in modo opposto a qualsiasi regola di mercato, quasi ad allontanarsi volutamente dalla popolarità. La sua più recente incarnazione artistica impostata sulla linea di album sperimentali come BLEMISH (2003), MANAFON (2009) e DIED IN THE WOOL | MANAFON VARIATIONS (2011), che saranno racchiusi insieme ad altro materiale nel sontuoso box set DO YOU KNOW ME NOW? in uscita il 4 agosto, ci presentano un Sylvian immerso in territori musicali molto elitari e difficoltosi da seguire, come a voler restringere ancora di più il perimetro dei suoi sostenitori.

Ma questo impulso di distacco dalla fama, a ben vedere, lo ha accompagnato sin dai tempi dei gloriosi Japan, la band di cui era frontman e principale compositore costituita nel 1974 insieme al fratello Steve Jansen (batteria), Mick Karn (basso), Richard Barbieri (tastiere) e Rob Dean (chitarra). Il gruppo si sciolse alla fine del 1982 quando stava per raggiungere l’apice del successo, al termine del tour che seguì la pubblicazione dell’ultimo album in studio TIN DRUM (1981). Tra le varie motivazioni, oltre ai dissidi interni, c’era proprio il disinteresse totale di Sylvian da quel tipo di new wave sofisticata che lo avrebbe potuto trasformare in una celebrità del movimento new romantics, in questo agevolato anche dal suo bell’aspetto dai lineamenti delicati, androgino ed efebico, che gli valsero l’appellativo di “uomo più bello del pop”.

Sylvian si sentiva a disagio sia per la crescente attenzione mediatica sia per la stressante vita in tournée, in più stava maturando in lui l’idea che i Japan stessero limitando la sua creatività, come fossero una specie di barriera che impediva la maturazione della propria arte: “Scoprii che c’era una specie di vuoto emozionale alla base del lavoro dei Japan, che poi era responsabilità mia in quanto autore e avevo davvero bisogno di prendere coscienza di me stesso, del mondo che mi circondava, delle ragioni per cui facevo ciò che facevo e la funzione ed il senso della musica nella società.” Forse nessuno si aspettava cosa sarebbe accaduto dopo ma, tra collaborazioni prestigiose, contaminazioni tra i generi e composizioni dalla natura intellettuale, nell’arco di soli tre album Sylvian non solo ottenne il successo tanto evitato, ma fu uno dei più rilevanti artisti degli anni ’80, per certi aspetti anche pioniere di nuovi linguaggi musicali.

I tre album in questione sono BRILLIANT TREES (1984), GONE TO EARTH (1986) e SECRETS OF THE BEEHIVE (1987), oggetto di una serie di ristampe in vinile (insieme ad altri suoi lavori) che la Virgin Universal ha pubblicato nel febbraio 2019. Una delle prove del valore artistico della trilogia ottantiana di Sylvian è che, se riascoltati oggi, questi lavori non hanno perso un briciolo di modernità, come invece la maggioranza delle pubblicazioni coeve, nate in un decennio dalle forti connotazioni estetiche che le ha rese immediatamente ed indissolubilmente legate a quel periodo. Ciò che stupisce nei tre album è la qualità e l’ispirazione che rimangono pressoché costanti, tutti e tre raggiungono lo status di capolavoro, mostrando aspetti differenti e tuttavia consonanti all’evoluzione di Sylvian come compositore.



1. Alberi brillanti, chitarre rosse e colori proibiti

Anche se Sylvian, una volta chiusa l’esperienza con i Japan, preferiva dimenticare quanto prodotto da quella band, ci furono due eventi chiave risalenti proprio a quel periodo che lo illuminarono a livello creativo e che servirono da preludio per BRILLIANT TREES. Il primo fu la composizione del brano Ghosts, contenuto in TIN DRUM, creato con il supporto di Jansen e Ryuichi Sakamoto. Sylvian: “Scrivere Ghosts è stato per me una svolta decisiva. Molto di quello che abbiamo realizzato con i Japan era costruito con artificio. Con quella canzone sentivo di aver scoperto una nuova strada, che avevo toccato qualcosa di vero per me stesso, capivo che avevo trovato una mia propria “voce” e volevo allacciare diverse relazioni con altri musicisti.” Nonostante la sua natura dark di minimalismo elettronico quasi respingente, Ghosts divenne il singolo di maggior successo dei Japan, riuscendo a scalare la top 10 inglese fino al quinto posto.

Il secondo evento è rappresentato da quello che fu il sodalizio artistico con Sakamoto. I due musicisti avevano già iniziato a collaborare per il singolo Bamboo Houses/Bamboo Music (1982) quando entrambi ancora facevano parte dei rispettivi gruppi (Japan e Yellow Magic Orchestra), poi Sakamoto invitò Sylvian a Tokyo al fine di scrivere il testo per il pezzo strumentale della colonna sonora del film “Merry Christmas Mr. Lawrence” (in Italia uscito come “Furyo”) e ne venne fuori l’immortale Forbidden Colours. Sylvian: “Ciò aprì una porta. Pensai: Ok, sono pronto. E ho iniziato a scrivere BRILLIANT TREES.”

Le sessioni di registrazione dell’album si tennero prima a Berlino (agosto ’83) ed in seguito a Londra a cavallo tra l’83 e l’84 per essere poi pubblicato il 25 giugno 1984. Impressionante lo stuolo di musicisti ospiti che Sylvian riuscì a radunare al fine di dare forma alla sua idea di musica. Oltre ai sodali Barbieri, Jansen e a Sakamoto, che lo seguirono anche nell’avventura solista, Sylvian si circondò di esponenti di primo piano provenienti dal jazz e dall’avanguardia tra cui i trombettisti Mark Isham, Kenny Wheeler e Jon Hassell, i chitarristi Ronny Drayton e Phil Palmer, i bassisti Danny Thompson e Wayne Braithwaite ed infine il co-produttore Steve Nye e Holger Czukay, storico fondatore dei CAN e allievo di Karlheinz Stockhausen. Czukay rappresentò per Sylvian quasi un mentore nel decennio ottantiano, un’ammirazione e collaborazione che diede i suoi frutti nel dittico di opere ambient PLIGHT & PREMONITION (registrato nel 1986 e pubblicato nel 1988) e FLUX + MUTABILITY (1989). Sylvian: “Lavorare con Holger è sempre stata per me un’esperienza affascinante e di crescita. Ci siamo presi bene immediatamente, aveva un meraviglioso senso dell’umorismo e una totale affinità con l’uso della tecnologia e la composizione. Portò davvero delle splendide idee e accese scintille creative che hanno condotto ad altre grandi cose.”

Sylvian fu particolarmente soddisfatto delle sessioni berlinesi, poiché nella sua concezione i musicisti, forestieri nella capitale tedesca, avrebbero tratto ispirazione dal contesto europeo: “Musicalmente non c’era un atteggiamento di riferimento, quello che avevo in mente è che i musicisti sarebbero venuti e avrebbero suonato veramente quello che provavano. Volevo creare per loro un ambiente rilassato, di modo che si potessero sentire a loro agio nel fare quello che volevano sulle tracce. L’idea era di avere delle vere e proprie performance da parte della gente che avevo ingaggiato.”

La disposizione delle tracce seguiva uno schema ben preciso: sul primo lato erano raccolte quattro canzoni dalla struttura convenzionale, nel secondo si trovavano tre brani dall’impostazione più libera, svincolata dalla logica pop e maggiormente vicina all’avant-garde. Anche se le ultime opere discografiche di David Sylvian appaiono così estreme nella loro ricerca completamente votata all’improvvisazione, questo processo creativo fu in realtà adottato dal musicista sin dal primo album fuso insieme ad elementi di jazz e ambient che caratterizzarono il lato B di BRILLIANT TREES. La principale caratterizzazione sulla quale i tre brani si fondano è il peculiare amalgama scaturito dalla tromba ultraterrena di Hassell e i sintetizzatori di Sakamoto. L’apporto di Hassell su Weatheerd Wall e sulla title-track fu talmente importante da essere riconosciuto come co-autore. Il trombettista era in effetti noto per aver creato un peculiare timbro manipolato elettronicamente - già popolarizzato nell’album in collaborazione con Brian Eno FOURTH WORLD (1980) - che si sposava in modo perfetto con il vagheggiato connubio di new age e world music proposto da BRILLIANT TREES. Il lato A rappresentava invece l’evoluzione dell’anima art pop di Sylvian: adesso il cantante si presentava come un aristocratico interprete rock di ballate pop jazz notturne (The Ink in the Well) condite con qualche tocco di funk (Pulling Punches, Red Guitar). Il ruolo nel quale il soffice e caldo baritono di Sylvian si trovava più a suo agio erano le malinconiche e stagnanti arie di Nostalgia, quasi un manifesto di intenzioni e aspirazioni, punto di congiunzione tra i canoni estetici delle due facciate. Sotto questa ottica BRILLIANT TREES non solo tracciava la dicotomia tra i contorni stilistici che Sylvian abbraccerà da qui in poi (cantautorato e ambient music), ma può essere considerato come primo prototipo dell’ancora non brevettato post rock, riconosciuto più avanti grazie ai tardi Talk Talk e Bark Psychosis.

Trovata la sua nuova identità musicale, Sylvian si liberò definitivamente anche dell’immagine da giovane dandy androgino e decadente collegata ai Japan, per mostrarsi nelle vesti di crooner elegante e sofisticato come nella foto di copertina ad opera della fidanzata di allora Yuka Fujii. Gli elementi iconografici e lirici per Sylvian rivestivano una aspetto altrettanto importante quanto la musica, attraverso continui riferimenti a poeti ed esponenti di arti visive.


 


2.Lontano dalla Terra

Da qui iniziò anche un rapporto conflittuale con la casa discografica Virgin che preferiva Sylvian nelle vesti di autore di potenziali successi pop remunerativi dal punto di vista economico, piuttosto che un misantropo sperimentatore di suoni new age. Sotto un certo aspetto la Virgin lasciò buona libertà artistica al musicista quando gli permise di pubblicare ALCHEMY: AN INDEX OF POSSIBILITIES (1985), una raccolta di brani strumentali scritti per vari progetti che musicalmente rappresentavano, nelle parole di Sylvian, “una combinazione di temi che erano stati esplorati in BRILLIANT TREES e desideravo sviluppare.” In una di queste composizioni, Steel Cathedrals, faceva il suo ingresso nell’universo sonoro di Sylvian la chitarra di Robert Fripp che, insieme a quella di Bill Nelson dei Be-Bop Deluxe, avrà un ruolo preponderante nell’album successivo. “Stavo lavorando sul materiale di GONE TO EARTH e ho capito di voler fare un album ricco di chitarra e Bill è stato una delle prime persone a venirmi in mente. C’era un contrasto tra gli stili di Robert e Bill con il quale pensavo sarebbe stato interessante giocare nell’album.”

GONE TO EARTH, pubblicato nel 1986 come doppio album, allargò ancora di più la scissione degli stili a cui Sylvian si stava dedicando, mettendo quasi un ordine nella visione di due distinte dichiarazioni d’intenti. Il primo disco era dedicato a canzoni d’autore estese, tra il prog e l’avant-garde, mentre il secondo era occupato da paesaggi sonori ambient totalmente strumentali, composti per loops e chitarra. Un aspetto quest’ultimo che fece riemergere le perplessità della Virgin la quale, pur rifiutando di stanziare i fondi per delle composizioni che facevano a meno della voce di Sylvian, arrivò ad un compromesso: “Il patto era che il budget dell’album non avrebbe incluso il lavoro strumentale e che se avessi voluto produrlo, lo avrei dovuto fare a mie spese e nel mio tempo libero. Quindi è quello che ho fatto.”

Oltre a Nelson e Fripp, tra i nuovi musicisti di cui Sylvian si servì comparivano Ian Maidamn (basso), John Taylor (piano), Mel Collins (sax) B.J. Cole (chitarra) che, come per l’album precedente, furono lasciati liberi di esprimere la loro creatività. GONE TO EARTH è un lavoro che rispecchia in musica un momento particolare della vita di Sylvian, intriso di spiritualità e misticismo, teso alla ricerca interiore attraverso gli insegnamenti di Gurdjieff, il sufismo, il buddismo e il cristianesimo, liricamente ispirato alle opere di Max Ernst (Taking the Veil), Milan Kundera (Laughter and Forgetting) e del filosofo moderno J.G. Bennett la cui voce campionata appare nella complessa e atonale title-track su suggerimento di Fripp co-autore del brano. Sylvian: “Nella mia mente volevo fare due versioni, una con Bill e una con Robert, ma alla fine ho avuto tempo di fare solo quella con Robert. Quando ci siamo seduti nello studio lui ha iniziato a suonare qualcosa di molto aggressivo, ho registrato la traccia ritmica seduta stante e lui ha realizzato molto velocemente due o tre takes. È stata una canzone creata in modo molto spontaneo e con poche sovraincisioni.” La parte centrale del primo album è comunque dominata dalle lunghe Before the Bullfight e Wave, due colonne di impalpabili ed eteree sonorità provenienti da una dimensione ultraterrena, che hanno come tema l’amore umano che sconfina nel divino. Nonostante Wave sia considerato da molti uno degli episodi migliori di GONE TO EARTH, Sylvian non è stato mai soddisfatto del risultato finale ritenendolo, insieme all’altro brano Riverman, una grande delusione e un fallimento dal punto di vista della sezione ritmica: “Abbiamo provato a suonare con diversi ritmi e abbiamo scelto quello che si sente, ma non mi ha mai convinto, era troppo rigido ed era difficile lavorarci.” Il brano che chiudeva la parte vocale dell’album, Silver Moon, fu il tanto agognato singolo che la Virgin pretendeva da Sylvian e dal quale fu tratto anche un video promozionale.

 



3.Lo sguardo nell’abisso

Le preoccupazioni della casa discografica furono ridimensionate dall’album successivo SECRETS OF THE BEEHIVE, il disco a tutt’oggi più accessibile e commerciale del suo catalogo, costituito esclusivamente da canzoni e dove trovò spazio come bonus track il singolo di successo Forbidden Colours. Le composizioni presero forma durante il tour promozionale per GONE TO EARTH e lo stesso Sylvian fu stupito dalla velocità con cui i nuovi pezzi prendevano forma. La cosa che fu chiara fin da subito è che questa volta la direzione stilistica intrapresa avrebbe privilegiato l’aspetto strumentale acustico e cantautorale dell’artista. Sylvian: “C’era più enfasi sul contenuto dei testi rispetto agli album precedenti. Siccome il materiale mi è venuto molto facilmente, dato che possedeva una certa forza nella sua semplicità, mi sembrava che non avesse bisogno di miglioramenti per quanto riguardasse le atmosfere di studio e gli effetti.”

Le sessioni di registrazione di SECRETS OF THE BEEHIVE si tennero presso Chateau Miraval nel sud della Francia, dove Sylvian riunì molti dei musicisti con cui aveva già lavorato e la new entry di maggior rilievo questa volta era il chitarrista jazz sperimentale David Torn. In più in quel periodo la Fujii, sempre al fianco di Sylvian nei suoi spostamenti, lo stava avvicinando al catalogo dell’etichetta ECM che sicuramente aiutò a preservare gli influssi jazz negli arrangiamenti, dei quali si occupò ancora una volta Sakamoto, grazie all’aggiunta di raffinate e soffuse partiture orchestrali. Due mondi di musica colta, quello classico e quello jazz, che diluiti nella ritrovata estetica da cantautore di Sylvian fondavano l’essenza di quello che chiamiamo oggi comunemente chamber pop. Da una parte avevamo i requiem Let the Happiness In, The Devil’s Own, l’andamento minimale di Waterfront e il gorgo elettro-aleatorio Maria che amplificavano la parte oscura ed elegiaca dell’opera. Dall'altra, un tenue raggio di sole era filtrato attraverso le ballate per chitarra acustica The Boy with the Gun, Orpheus e When Poets Dreamed of Angels, ma l’atmosfera che prevaleva era quella di un calmo e stagnante riflusso meditativo, una crepuscolare premonizione dell’inevitabile termine di una fase artistica. Pubblicato nel novembre 1987, SECRETS OF THE BEEHIVE sarà infatti il suggello del primo capitolo della carriera di Sylvian dopo il quale si prenderà una lunga pausa e, come ultimo tassello di una trilogia, mostrava il suo lato meno sperimentale ma più vulnerabile in termini di essere umano.

L’album era introdotto dalla breve sonata per piano e voce September: proprio come il mese preludio dell’autunno e la desolata copertina in bianco e nero riflettevano un’atmosfera nostalgica e di pessimismo, allo stesso modo potevano essere interpretati come una metafora del periodo di depressione che si stava aprendo per Sylvian. Non solo come artista, ma anche come persona Sylvian era immerso in una continua ricerca spirituale e religiosa che si rispecchiava nel suo lavoro, facendo emergere un’introspezione cupa e malinconica nelle liriche. Questo aspetto deprimente dell’album fu oggetto di molte critiche negative, tuttavia SECRETS OF THE BEEHIVE trovò la sua genesi in una spinta creativa positiva che contrastava con il contenuto. Sylvian: “E’ stato molto facile completarlo, scrivevo un brano a seduta il che per me era una novità dato che di solito impiegavo molto tempo a scrivere. È stato quindi entusiasmante che questo mi sia accaduto in quel periodo. Immagino che fosse la mia reazione personale dopo essere stato coinvolto da poco nella musica strumentale, che mi aveva fatto desiderare di tornare a scrivere canzoni in modo più semplice.” Il tour e il periodo successivo a SECRETS OF THE BEEHIVE palesarono tutta l’afflizione e lo stato di turbamento nel quale era sprofondato Sylvian: “Ho scritto canzoni sulla sofferenza nelle quali il mio scopo era di creare una sensazione di sconforto. Perché lo sconforto c’è, è in me. Sto sicuramente attraversando un periodo di cambiamenti. Questi ultimi due anni sono stati molto difficili, sono stati un periodo di transizione.” Fatto sta che il sempre schivo Sylvian si richiuse ancora di più in se stesso, prendendosi una lunga pausa e per molti anni dedicandosi solo a collaborazioni, abbinando il suo nome a quello di altri come il già citato sodalizio nei due album con Czukay, il ritorno con i vecchi compagni dei Japan per un solo omonimo album nel 1991 sotto il nome Rain Tree Crow e un lavoro condiviso con Robert Fripp che portò al brillante THE FIRST DAY (1993). Solo nel 1999 Sylvian fu pronto per tornare al pubblico con un intero album a suo nome, DEAD BEES ON A CAKE (anch’esso ristampato in doppio vinile), la raccolta più ricca di materiale della sua carriera, quasi a certificare la rinascita artistica e la ritrovata pace interiore.

 


Bonus Track

JAPAN: seducente non-pop

I Japan rimangono la band più anomala nella scena new wave/post punk sorta e proliferata tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni’80. Capaci di racchiudere nello stesso involucro la cura meticolosa per l’aspetto vanesio e patinato del glam rock e la competenza e preparazione di abili strumentisti alla ricerca di soluzioni sofisticate e non convenzionali per il synth pop. Inizialmente la popolarità fu ostacolata anche perché i primi due album ADOLESCENT SEX e OBSCURE ALTERNATIVES, entrambi pubblicati nel 1978 in piena esplosione punk, sembrarono dei manifesti glam fuori tempo massimo, ignorati in Inghilterra ma accolti benissimo in Giappone. I Japan si presentavano come quattro bellissimi dandy truccati ed androgini, figure da pop aristocratico nati già con l’idea di nascondere la propria identità dietro una maschera. I fratelli Steve e David Batt cambiarono i loro cognomi in onore di Syl Sylvain e David Johansen dei New York Dolls, band da cui Sylvian e Jansen erano rimasti folgorati. I Japan erano così immersi in quella disco funk che persino Sylvian cantava in modo totalmente differente dal suo distintivo tono baritonale e languido per il quale è riconosciuto. Incarnando praticamente una versione meno trasgressiva di David Bowie e Marc Bolan, i Japan trovarono la loro dimensione tra i due album successivi, curando più la musica che la propria immagine. Le prime avvisaglie di una acquisita consapevolezza arrivarono con il singolo synth disco Life in Tokyo (1979), prodotto e co-scritto con il produttore Giorgio Moroder che trascinava i Japan in un pop retro futurista poi sviscerato su QUIET LIFE (1979), pieno di sintetizzatori e seducenti atmosfere alla Roxy Music dai quali presero in prestito anche il produttore John Punter

Passato il ciclone punk, con l’avvento dei new romantics che riportavano in auge aspetti glam nella cultura pop, i Japan si trovarono all’improvviso all’ultima moda e da questo momento iniziarono ad avere un crescente successo anche in patria. GENTLEMEN TAKE POLAROIDS (1980) fu il primo album per la Virgin e il primo dove il gruppo esprimeva in pieno il proprio potenziale. La voce di Sylvian aveva trovato quell’impostazione seducente a lui congeniale e l’elegante funk elettronico poteva contare su una sezione ritmica in stato di grazia: Mick Karn con le sue ragnatele di basso fretless si certificava come il miglior bassista della sua generazione, mentre le sinuose pulsazioni non-rock di Jansen donavano quell’atmosfera esotica, accentuata dai sintetizzatori di Richard Barbieri che soffocavano sempre di più la chitarra di Rob Dean, che infatti si separò dal gruppo dopo questo lavoro. La sofisticazione stilistica raggiunse il culmine su TIN DRUM (1981) un lavoro talmente ricercato per i canoni new romantics da far considerare i Japan un satellite isolato e fuori orbita. Raggiunto il vertice dell’art pop decadente, flessuoso e mutevole come il basso di Karn, il gruppo ottenne finalmente il consenso di critica e pubblico, anche se ciò non fu sufficiente a placare le tensioni sorte tra Sylvian e Karn che portarono allo scioglimento definitivo dei Japan. Suggello di quell’esperienza fu il sublime documento live postumo OIL ON CANVAS (1983).