Una
band sull’orlo di una crisi di nervi. È questo il quadro che emerge leggendo
tra le righe delle ultime dichiarazioni dei Tool. Justin Chancellor che parla di brani
finiti e buttati via come se nulla fosse, Danny Carey che minaccia di andarsene se
gli altri non sono in grado di portare a termine il lavoro, MJ Keenan frustrato
per dover stracciare melodie e testi già pronti. Nella metafora del titolo Fear Inoculum si possono trovare molti
significati, ma forse il più azzeccato è la paura nei confronti
dell’aspettativa di un album così mitizzato, così atteso. A quanto pare colui che ha
sofferto meno la pressione è stato Adam Jones, molto soddisfatto del risultato. Ma
se queste sette tracce (dieci nella versione digitale inclusiva di tre brevi segue) sono state le prime scelte, la
giusta domanda da porsi non è se sia valsa la pena aspettare tredici anni, ma piuttosto
se si sentiva la mancanza di un album del genere. E la risposta del tutto
brutale è: francamente no. Dopo si può parlare di quanto sia necessaria l'aura artistica di una band che dopo tredici anni di silenzio riesce a catalizzare l'attenzione sul progressive rock come nessun altro, producendo un album comunque coraggioso e senza compromessi, ma dall'altro lato se i Tool fossero finiti con 10.000 Days nessuno si sarebbe
disperato, a parte gli irriducibili che venerano questa band come un oracolo. Quindi spogliamoci di ogni pregiudizio da “capolavoro a prescindere” e
cerchiamo di giudicare Fear Inoculum
oggettivamente.
La
title-track è quanto di meno convenzionale ci possa essere per aprire un album:
dieci minuti plasmati da groove a spirali che però non hanno molto da offrire in termini di emotività. Un pezzo
alquanto statico nelle sue lente trasformazioni. Privo di tutto: un climax o un
crescendo degno di questo nome, uno sviluppo compatto che preservi l’interesse
nel suo dipanarsi. Eppure questi dieci minuti di concerto mediorientale per
percussioni e chitarra non sono eccessivi, ci vogliono tutti. Per non dire un
bel nulla. Le premesse di Pneuma sono
esattamente le stesse, se non ché ci si aggiunge pure quel senso di deja vu per
una progressione di basso che richiama in modo spaventoso Schism e dove il lavoro di costruzione
tensiva vorrebbe essere simile a The
Patient, ma naturalmente privo di quella carica e quel pathos, anche perché
il suo ripetersi senza deviazioni rilevanti ne evidenzia la debolezza. A Pneuma ci vogliono quasi dodici minuti
per non arrivare da nessuna parte.
Piccolo momento di riflessione con Litanie contre la Peur: Fear Inoculum non si apre nel migliore
dei modi, dopo due tracce sono passati 22 minuti e la fatica farraginosa e
svogliata con cui procedono non è certo un fattore che invita a nuovi ascolti. Poi
è la volta di Invincible e Descending, i pezzi presentati dalla
band in anteprima dal vivo nell’ultimo tour e si capisce anche il perché la
scelta sia ricaduta proprio su questi due. Tolto il fatto che non raggiungono
le vette dei migliori Tool, rappresentano comunque quanto di meglio abbia da
offrire Fear Inoculum. Di novità c’è
qualche intervento elettronico di synth, un Jones più sbizzarrito del solito
nelle sue parti soliste e una cornice ingigantita e attentamente prudente nelle
sue dilatazioni. Invincible da questo punto di vista è il brano più incisivo, costruito con mano sicura e che racchiude in sé il momento più lucido di ciò che vogliono trasmettere musicalmente questi Tool redivivi. Descending, sinistro e oscuro, è praticamente la colonna sonora di un rituale esoterico che si insinua in sottostrati elettrici sempre più profondi i quali vanno a convergere in una lunga coda strumentale tra The Grudge e Lateralus, ma è la prova vocale di Keenan presente nella prima parte, così versatile nell'imprimere emotività, a salvare buona parte del pezzo. Durante l'intromissione di Legion Inoculant c'è un altro momento per riflettere: Fear Inoculum è un album che pretende. Pretende da noi non solo la proverbiale attenzione, ma anche il giusto stato mentale/emotivo per affrontarlo. Non è un lavoro che si può ascoltare in qualsiasi momento, sarebbe sempre meglio prepararsi prima e domandarsi se si è pronti ad immergersi in questo viaggio di un'ora e venti minuti.
A chiarire tale concetto arriva la conclusiva 7empest e pare di essere tornati alla
visceralità di Opiate, spogliato di
tutti gli orpelli prog il suo incedere è quello di un heavy blues che non
concede molto a variazioni nei suoi sedici minuti, ma lascia molto spazio al
solismo lacerante e lamentoso della chitarra di Jones che qui si erge a
protagonista assoluto. Nonostante ciò Fear
Inoculum è più che mai l’album di Danny Carey, non tanto perché gli è stato
concesso spazio per uno spericolato strumentale tutto suo, Chocolate Chip Trip, ma si dimostra ampiamente il più aperto a
sperimentare nuove soluzioni, nuovi suoni, insolite poliritmie, grazie ad un
arsenale di percussioni con le quali si impegna a produrre svariate sfumature
sonore per lo più ispirate alle tradizioni orientali, senza mai abbandonare il proprio
trademark da tamburo tribale tentacolare.
Il più cambiato sembra essere invece Keenan. Il lungo lasso di tempo che gli ha permesso di esprimersi ed evolversi ampiamente in altri progetti come Puscifier e A Perfect Circle, ha restituito un cantante diverso da quello che conoscevamo con i Tool, autore di linee vocali melodicamente meno memorabili, meno incline alla furia di un tempo, ma più assorto nella sua costante espressività e profondità. Questa sua vocazione è particolarmente messa in esposizione su Culling Voices, una specie di litania o canto spirituale che per buona parte fa a meno della batteria, accompagnato solo da un requiem di arpeggi per chitarra. La seconda parte rimane deludente, riassumibile in una collezione random tratta dal catalogo riff di Adam Jones. E sono proprio il chitarrista e Chancellor ad essere rimasti i più aderenti alla formula Tool. Il loro modo di confezionare, non solo riff, ma anche break e riprese, cadenze e chiusure, interplay e sonorità non si è smosso di una virgola e talvolta i due finiscono per imbrigliare anche Carey dentro tale schema di scrittura col pilota automatico.
Il più cambiato sembra essere invece Keenan. Il lungo lasso di tempo che gli ha permesso di esprimersi ed evolversi ampiamente in altri progetti come Puscifier e A Perfect Circle, ha restituito un cantante diverso da quello che conoscevamo con i Tool, autore di linee vocali melodicamente meno memorabili, meno incline alla furia di un tempo, ma più assorto nella sua costante espressività e profondità. Questa sua vocazione è particolarmente messa in esposizione su Culling Voices, una specie di litania o canto spirituale che per buona parte fa a meno della batteria, accompagnato solo da un requiem di arpeggi per chitarra. La seconda parte rimane deludente, riassumibile in una collezione random tratta dal catalogo riff di Adam Jones. E sono proprio il chitarrista e Chancellor ad essere rimasti i più aderenti alla formula Tool. Il loro modo di confezionare, non solo riff, ma anche break e riprese, cadenze e chiusure, interplay e sonorità non si è smosso di una virgola e talvolta i due finiscono per imbrigliare anche Carey dentro tale schema di scrittura col pilota automatico.
Ma in fin dei conti sarebbe troppo
facile e prevedibile criticare un album dei Tool perché suona come un album dei
Tool, oppure affermare che i Tool suonano come una cover band dei Tool. Fear Inoculum è una collezione troppo
maestosa e ponderata per essere liquidata così superficialmente. Il fatto è che
un’opera di questa portata fa patire tutto il peso dei suoi anni di gestazione, tutte le sue indecisioni e
revisioni, risultando un artefatto calcolato al millimetro e che quindi il più delle volte fatica
a trasmettere reali emozioni. Alla fine il giudizio paradossale è che forse non se ne sarebbe sentita la mancanza, però è un bene che un album come questo esista.