E' riconosciuto statisticamente come il pop ricopra il ruolo di primo piano tra i generi musicali, non a caso diminutivo di "popular", quindi si può dedurre quanto sia più semplice per una band che ricade in tali dettami arrivare al pubblico in modo immediato. Eppure è buffo constatare il fatto che appena qualcuno cerca di rendere il pop più avventuroso, anche in maniera lieve e non traumatica, ecco che immediatamente l'ascoltatore ne prende le distanze. I Dutch Uncles ricadono proprio in questa categoria, una band che nella sua carriera quasi quindicennale ha da sempre trattato il pop come una materia non vacua e sciocca, ma intelligente e stimolante, quindi di conseguenza relegati a mero culto.
Ad esempio, in questi sei anni di silenzio che sono intercorsi da Big Balloon a True Entertainment non credo che in molti si fossero accorti della loro lunga assenza dalle scene. Ed è un peccato poiché i Dutch Uncles meriterebbero di più. Come altre band tipo Field Music, Outfit (entrambi compagni d'etichetta guarda caso) e Everything Everything, fanno parte di quella schiera di intellettuali del pop in cui il prefisso "art" non è mai stato così pertinente e che in passato fu ben rappresentata dagli XTC.
Con True Entertainment il quartetto di Manchester torna un po' al suo periodo intermedio (quello di Cadenza e Out of Touch in the Wild), lasciando le pulsioni math funk rock di Big Balloon in favore di trame guidate da elettronica, tastiere, synth e sequencers, dedicandosi a schemi compositivi che seguono i modelli del minimalismo e della reiterazione. L'album appare così molto immerso nelle tipologie della new wave anni '80, ma potete stare certi che i Dutch Uncles non lo fanno per cavalcare la moda del momento, dato che già erano su tale traiettoria fin dagli esordi, prima che tutto ciò fosse di tendenza. In quest'ottica l'album, in alcuni episodi come il singolo Tropigala (2 to 5), si rivela un po' troppo diretto e privo di quelle idee stimolanti che fluttuano sottotraccia per aggiungere propulsione e anima ai pezzi. Comunque rimangono ancora capaci di regalare un buon mix di pop ed esotismo post wave che li rende sempre riconoscibili e con una propria personalità.
L'album di debutto degli Enoch Root Delusion è un concept il cui autore, Reese Ortenberg (chitarrista e bassista), ha scritto in contemporanea ad altri due lavori prodotti come progetto solista realizzati nel 2018, con il nome di Reese Alexander, che prendevano il titolo di The Digression Theory Part 1 e Part 2 (e che vi aggiungo in fondo all'articolo poiché anch'essi meritano attenzione). Abituato quindi a fare tutto in solitaria, per Delusion Ortenberg ha deciso di costituire attorno a sé una band con altri quattro musicisti per dare all'album un'impronta indirizzata su cinque individui che apportano in modo differente la propria personalità strumentale.
Come per i capitoli precedenti della sua discografia, Ortenberg compone dei brani dilatati che non ricercano la suddivisione in parti o capitoli, ma solo un lungo fluire in un susseguirsi di cambiamenti, come se il brano si sviluppasse in molte forme durante la sua durata. Anche se tale caratteristica era più evidente sul progetto solista, gli Enoch Root sono coerenti con i dettami del progressive rock moderno dal quale lo stesso Ortenberg attinge chiaramente senza nascondere le sue influenze (cita Haken, Porcupine Tree, ma soprattutto The Dear Hunter). Delusion è un'opera dove più ci si inoltra al suo interno e più si possono apprezzare le capacità di Ortenberg nel tessere arrangiamenti stratificati e immaginare quale svolta inaspettata possa prendere il brano.
Come un esercito che attende metà della battaglia per sferrare le sue armi più efficaci, Delusion riserva il meglio dopo qualche traccia, ma si apre con una nota malinconica e appena sospirata con l'intro pizzicato per voce e chitarra di The Scavenger per poi dare l'avvio a tutta la band con un pezzo che mantiene le sensazioni delle premesse, continuando sullo stesso giro di accordi ma con un piglio solenne mutuato direttamente dai The Dear Hunter. Il confronto con il gruppo di Casey Crescenzo prosegue con Top of the World, altro pezzo pieno di suggestioni psichedeliche e progressive con qualche innesto di tastiera e vari ricami chitarristici. Lo strumento di Ortenberg è in effetti il protagonista e forse la prima dimostrazione della gamma di declinazioni utilizzate nell'album ce la offre Duplicity, tra sognanti arpeggi elettroacustici in stile Genesis, potenti riff proto-metal e assoli che si sovrappongono in una sorta di chiamata e risposta.
Altra vetrina per tali requisiti sono gli otto minuti di Grey, che arrivano dopo il pregevole tentativo di racchiudere nelle due tracce Domino e Sanctuary tutte le influenze musicali citate da Ortenberg, ovvero il punto dove Delusion raggiunge la sua vetta e dove gli Enoch Root dispiegano al meglio la poetica di un prog hardcore drenato da ogni sorta di svolta aggressiva, concentrandosi invece nell'attenuare con melodrammaticità solenne anche i passaggi più veementi. Nella loro calibrata visione prog gli Enoch Root non sono immuni da influssi pop e art rock, che poi sono l'essenza vitale di quello a cui guardano tutti i migliori autori contemporanei del genere, che si parli di Wilson o che si parli di Crescenzo. Reese Ortenberg per ora cerca di seguire le loro tracce, ma lo fa senza risultare uno stucchevole epigono privo di una propria personalità e gli Enoch Root finiscono direttamente tra i debutti migliori dell'anno.
A volte capita di chiedersi come possa essere crudele l'algoritmo dell'internet, un mezzo potenzialmente illimitato al fine di arrivare a chiunque, eppure come un paradosso finisce anch'esso per piegarsi alle regole dell'hype nel pompare con maggior enfasi artisti già di per sé stra-conosciuti ed escludere ancor di più dalla sua rete altri che invece di questa potenza potrebbero giovarne.
Ad esempio, sono rimasto sorpreso che il quintetto inglese You Win Again Gravity è comparso solo adesso nel mio radar grazie al singolo Curious Fake, quando addirittura è attivo discograficamente da più di dieci anni. Dall'altro lato è anche vero che il gruppo, dopo l'ottimo esordio Anonymity datato 2017, si è praticamente messo in ibernazione e uscito dal proprio letargo solo con cadenza annuale pubblicando appena tre singoli (incluso quello già citato) dal 2019. Il valore di ognuno di essi, che certifica una crescita artistica esponenziale, è comunque sufficiente a perdonare la sporadicità con la quale i You Win Again Gravity si fanno vivi.
La cosa che stupisce è che in giro per il web il loro nome non compare con frequenza, eppure in ambito prog math hardcore la loro proposta è una delle più rinfrescanti e stimolanti che mi è capitato di ascoltare di recente. L'attitudine musicale è impostata su pezzi dal forte impatto emotivo e tecnico che oscillano tra mathcore aggressivo a progressioni fusion metal di spiccata sensibilità armonica. Per fare dei nomi, i cinque ricordano la competenza di Periphery, Karnivool, The Safety Fire e Bird Problems.
I You Win Again Gravity inoltre non hanno nulla che gli manca: un vocalist dotato, una sezione ritmica dinamica e chitarristi di gran gusto nello scegliere le giuste timbriche nel cambio di stili, sia che si tratti di affrontare il metalcore sia che si tratti di alleggerire la tensioni con tapping math rock. Se siete estimatori delle caratteristiche appena elencate i You Win Again Gravity sicuramente saranno un ascolto gradito.
Nel prog, quando una band vuole mettersi alla prova al fine di sfidare le proprie capacità, di solito finisce per produrre una suite o un lungo brano multitematico. I Periphery, dopo aver sondato ogni possibilità del djent - il sottogenere che hanno contribuito a plasmare e popolarizzare -, con PeripheryIV: Hail Stan si erano cimentati piuttosto bene in questo compito con il brano Reptile. Adesso, con Periphery V: Djent is Not a Genre, è come se il quintetto si fosse chiesto: "in che modo possiamo superare quella cosa epica che abbiamo scritto?" e la risposta deve essere stata: "molto semplice: scriviamo un intero album in questo modo!"
Se vogliamo stare al gioco di quei mattacchioni dei Periphery, iniziamo con il dire che il titolo è giusto: "djent is not a genre... is a subgenre!". Chiarita questa cosa si può affermare senza ombra di dubbio quanto l'album spinga fortissimo verso una direzione epica, satura e densa sotto ogni aspetto e livello di prospettiva. In tal senso tutti i brani presi singolarmente raccolgono al loro interno un universo di cambi e deviazioni, fraseggi di chitarra spasmodici, qualsiasi sorta di trucco funambolico da guitar hero a loro collegati vi venga in mente, caotici e tempestosi assalti metallici al limite dal cacofonico che mutano all'improvviso in deliziose melodie dalle progressioni imprevedibili ed in quest'ultimo punto la voce incredibilmente deformabile di Spencer Sotelo ne è la protagonista, con il suo passare da ringhiosi harsh e scream a solenni e magniloquenti linee vocali.
E' veramente quasi pleonastico citare le differenze o le peculiarità pezzo per pezzo, poiché ognuno risponde ad una precisa costruzione formale tesa a mostrare la duttilità, la mutevolezza, la versatilità e l'agilità della band nel saltare da un contrasto all'altro, ma tutto costantemente all'insegna dell'eccesso ostentato. Le uniche eccezioni che si immergono in un contesto stilistico ben preciso sono i due poli opposti rappresentati dal math thrash in odore di Car Bomb di Everything is Fine! e il pop new wave di Silhouette, dove qualcuno ha tirato in ballo quasi correttamente l'influenza dei The1975. Giusto per comprendere il quadro generale di un album che tocca i 70 minuti senza l'aiuto di una suite, in questo capitolo i Periphery rinunciano persino alla conclusiva epic track di rito in forma di ballad malinconica, che nei precedenti album aveva partorito i due diamanti grezzi Lune e Satellites, e preferiscono invece mettere in fila i tre pezzi Zagreus, Dracul Gras e Thanks Nobuo, uno più ambizioso dell'altro nell'alzare l'asticella del frullatore spaccatutto.
Tra i gruppi djent i Periphery sono quelli rimasti più fedeli alla linea, cercando comunque una via coerente nella propria evoluzione e consolidando in ogni caso uno stile ben riconoscibile, grazie ad una sua impronta, tesa a modellare progressioni armoniche di accordi i quali ruotano attorno a bassi in stato di rivolto per creare quel particolare senso di elevazione estatica nel momento in cui il chorus colpisce. Se Hail Stan nella sua coraggiosa natura sfaccettata aveva convinto poco coloro che sono stati i sostenitori dei primi lavori di Misha Mansoor & Co., Djent is Not a Genre è un calderone talmente omnicomprensivo e straripante che riuscirà nel miracolo di mettere d'accordo fan vecchi e nuovi.
Ascoltando il nuovo album degli Haken mi è venuto da sorridere ripensando alla vecchia polemica sostenuta dai puristi del prog, che praticamente ha da sempre strenuamente negato e dileggiato l'esistenza di una diramazione metal all'interno del genere. Una tipologia di cancel culture ante litteram che è andata di pari passo con la ben più famigerata e dibattuta opinione divisiva tra "prog come attitudine o prog come canone stilistico dai tratti omologati".
Ora, posso arrivare a comprendere certe posizioni oltranziste quando si parla dei Dream Theater, dei Tool, dei Fates Warning e molti altri pionieri di certi stilemi, dove l'estetica è prevalentemente legata ad un linguaggio metal, però voglio dire, cosa pensate stiano facendo gli Haken in pezzi imponenti (esecutivamente parlando) come Nightingale o Elephants Never Forget se non cercare di abbracciare certi schemi e tipologie tipiche del progressive rock per incorporarle in modo indolore in un contesto di progressive metal? Ecco, forse in questo sono stati i più vicini e aderenti ai dettami del prog classico se guardiamo alla sfera del prog metal classico. Però adesso non vorrei perdermi in cavilli filologici riguardanti il purismo di ogni sottogenere, perché c'è il rischio di impazzire.
Passando agli Haken confesso che ultimamente, del loro multiverso, avevo apprezzato più le varie uscite soliste di Charlie Griffiths, Richard Henshall e i Nova Collective - progetto con il primo tastierista Pete Jones che su Fauna ritorna nella band addirittura dopo 15 anni per subentrare a Diego Tajeida - che il gruppo madre, però diciamo subito che con Fauna gli Haken tornano ai livelli di complessità e sperimentazione di The Mountain e alla voglia di divertirsi con esuberanza tra i crossover arditi di Affinity. Leggendo in giro non credo di dire nulla di nuovo al riguardo, a riprova che l'opinione generale su Fauna è innegabilmente legata ad un contenuto che lo pone qualitativamente molto in alto nella discografia della band e di sicuro potrà rappresentare una pirotecnica ed esaltante introduzione per i neofiti. Ma andiamo con ordine, perché anch'esso si porta dietro qualche inciampo.
Taurus è un pezzo mediamente dimenticabile, come un compito passato senza impegnarsi molto, dato che sei lo studente primo della classe, sballottato tra impressioni djent alla Tool e un ritornello prog che si apre alla melodia, ma senza troppa efficacia. In continuità con tale impostazione, per la sua genuina risolutezza nell'intento di dare una personalità accessibile alla band, molto meglio riuscita la contenuta Lovebite. L'altro singolo che rimane un ibrido poco riuscito è stato The Alphabet of Me. Si capisce a cosa voglia ambire la band, ovvero incorporare elementi di electro math pop all'interno della loro tavolozza sonora per tentare di proporre una parvenza di evoluzione, ma il risultato non è del tutto convincente. Quindi si parla di un album non immune da passi falsi o comunque episodi più deboli di altri.
Come si diceva, invece, Nightingale è un ottimo surrogato di prog metal che si svincola dai cliché pacchiani e cafoni del passato, grazie a quell'affastellarsi di sapori fusion, leggeri richiami a timbriche metal che vengono amalgamante in un insieme di contrappunti chitarristici e tastieristici che operano con la stessa metodologia dei grandi pezzi prog degli anni '70, ma in questo caso con piglio altamente moderno. L'altro pezzo forte dell'album, Elephants Never Forget, è la vetrina utilizzata dagli Haken nel mettere in gioco le proprie influenze filtrate attraverso la loro sensibilità. Un po' di teatralità alla Queen equalche stravaganza alla Gentle Giant innestate nel solito calderone metal gonfiato fino a toccare i forse eccessivi undici minuti.
Sempiternal Beings si muove idealmente sulle stesse coordinate di Nightingale, anche se in modo più freddo e severo attraverso riff spietati e un chorus dalle velleità solenni e magniloquenti, ma alla fine mancano le colorazioni timbriche e i movimenti strutturali di Nightingale, per un brano che rimane monolitico nonostante i suoi cambi. Beneath the White Rainbow è invece una via di mezzo, rigore e calde progressioni si scontrano nella lodevole costruzione di un crescendo drammatico e virtuosistico fatto di ritmiche dispari per aumentare la tensione, che porta alla frenetica coda finale nella quale l'aggiunta della voce filtrata di Ross Jennings appare sinceramente non necessaria, togliendo pathos alla sezione strumentale.
A tal proposito, tra i fattori che indeboliscono lo spessore delle composizioni aleggia un po' ovunque l'aspetto vocale. Senza mettere in discussioni le doti diJennings, in questo capitolo viene a crearsi un contrasto qualitativo tra le parti strumentali e quelle vocali. Tanto le composizioni attraversano una variegata e dinamica tipologia di struttura formale, quanto l'interpretazione di Jennings risulta monocorde e poco incline all'espressività, quasi a non mostrare empatia con il materiale su cui egli canta. In particolare, proprio per la forza e l'ispirazione di alcuni brani, si ha come la sensazione che avrebbero avuto le potenzialità per far risaltare ancora di più le doti di Jennings, il quale invece appare carente nell'ideare linee melodiche più incisive e personali.
Non voglio attribuire tutta la responsabilità a Jennings, ma Fauna in conclusione lo leggo come un disco dalla "eccellenza contenuta". Ciò sta a significare l'indubbio valore del lavoro compositivo del gruppo, ma che a lungo andare, passato un impatto iniziale di entusiasmo, i pezzi svelano un lato troppo macchinoso e distaccato, che non coinvolge fino in fondo.
In una storia lunga quasi dieci anni, i Mosaic hanno prodotto al momento solo tre EP, ma adesso sembrano puntare ad un nuovo inizio approfittando dell'arrivo della cantante Aubrey Folck che va a modificare l'assetto del gruppo, il quale finora si era affidato alla voce maschile di Philip Tacoronte. Lo stile è un agile fusion metal che non disdegna melodie pop.
I Big Lava sono eredi di una band purtroppo defunta di nome Dead Ground. Nuovamente con una formazione a trio, i 2/3 di quel gruppo, ovvero Ollie Harris (voce, chitarra) e Ed Tucker (basso, voce), si sono uniti al nuovo batterista Chris Tilke, ereditando quel sound diretto e ruvido nel momento in cui vogliono essere rock, ma altrettanto psichedelico e sognante quando spunta un'ombra di qualcosa di più elaborato. L'omonimo esordio dei Big Lava contiene ottimi pezzi con coinvolgenti build up tipo FEDZ, Polly, Hang e anche una rielaborazione dell'ultimo singolo-killer dei Dead Ground, Can't Escape You (anche se personalmente preferivo la versione originale di questi ultimi riportata sotto).
Il connubio tra riff djent abbinati a hyper-pop è ciò che il trio di Bristol Superlove ha deciso di chiamare "noise pop". Esposta per esteso la loro idea estetica (scusate la fastidiosa allitterazione) in modo più convincente che in passato nell'album d'esordio Colours pubblicato a fine novembre, adesso la propongono in maniera diretta e altrettanto efficace nel singolo GO!.
Anche se parliamo di un progetto defunto da tempo, vale la pena menzionare e ripescare l'unica testimonianza discografica degli aokigahara (pubblicata nel 2015) per quel suo mix di jazz math rock e alcune tracce del progressive hardcore portato avanti dai The Mars Volta.
Anche se sono in circolazione da un po' di tempo segnalo solo ora i Via Luna poiché dopo qualche anno si rifanno vivi con il nuovo Muted Earth mantenendo quell'aura di math rock strumentale che vuole cullare l'ascoltatore con paesaggi sonori molto suggestivi, evanescenti e crepuscolari.
Tricky Floors, il secondo album del trio francese TOMBOUCTOU, è un audace mix di noise-punk-prog-rock con qualche richiamo alla selvaggia interpretazione di Julie Christmas e addirittura al Rock In Opposition degli Henry Cow.
Questo The Redshift Blues è il secondo album di Dispirited Spirits, progetto del musicista portoghese Indigo Dias, un'interessante prospettiva su una moderna visione di progressive rock con insolite commistioni di psichedelia, space rock e emo. Inaspettata sorpresa.
Prima prova per gli Alright, Goodnight, l'EP Sorry It's Your Birthday è un altro piccolo tassello nella fiorente scena statunitense del midwest emo/math rock che può interessare a chi apprezza questo genere.