martedì 28 giugno 2022

Porcupine Tree - Closure/Continuation (2022)


E insomma, dopo dieci anni di silenzio radio sul pianeta Porcupine Tree, accompagnato dal timore di molti che la band di Steven Wilson non si facesse più viva, non solo c'è stata la tanto attesa reunion (anche se parziale), ma si è scoperto che in gran segreto per tutto questo tempo (fin dal post The Incident quindi), in realtà Wilson e Gavin Harrison non hanno mai smesso di lavorare su idee, bozze e demo per quello che oggi è diventato Closure / Continuation, undicesimo album in studio dei PT. Il buon Wilson si è fatto carico pure delle parti di basso, buttando giù riff e groove improvvisati in un'atmosfera informale a casa di Harrison, perché in quei momenti era sprovvisto di chitarra. Al che Wilson si è accorto che il suo stile e il suo approccio allo strumento erano ovviamente molto differenti da quelli dell'assente Colin Edwin e, dato che il bassista in questi anni è stato l'unico irresponsabile a non chiamare ed essersi fatto vivo col capo per pregarlo in ginocchio di riformare la banda, si è pensato bene di escluderlo dalla reunion (almeno a quanto raccontato da Wilson, anche se in contrasto con la versione di Edwin).

Il basso è proprio il primo strumento che ascoltiamo quando inizia Harridan, pezzo d'apertura e anche primo ad essere stato reso noto alcuni mesi fa. E oggi possiamo aggiungere pure abbastanza rappresentativo della direzione di Closure / Continuation. In prospettiva, per chi se lo chiedesse, non c'è nulla di veramente nuovo nel lavoro, sia in generale sia per ciò che riguarda i Porcupine Tree. Anche lo stesso basso riadattato da Wilson si rifà alle tendenze aggressive prog metal/djent che oggi sono stra-abusate. Ma questa non è una critica, solo una constatazione. Harridan è anzi un bel concentrato di tecnica, sprazzi melodici e scontro di stili, tra il groove di basso che si sposa con l'organo sinistro di Richard Barbieri e la batteria impeccabile di Harrison che sposta il baricentro verso ritmiche dal sapore jazz e fusion. Stesso discorso si potrebbe fare per Rats Return che questa volta però, ad un interessante riff iniziale saturo e distorto che avrebbe meritato un differente sviluppo, controbilancia una parte cantata che spezza il pathos e indebolisce l'aria minacciosa del brano. Con Herd Culling invece non si capisce bene dove il gruppo voglia arrivare. E' sempre una traccia sulla scia di Harridan e Rats Return, guidata da un groove di chitarra e da tensioni latenti che esplodono in riff elettrici, ma in questo caso si ha proprio l'impressione di un pezzo nato da una jam session irrisolta e troppo lunga, poiché non ha una destinazione precisa e ancor di più dotato di una struttura chiusa a compartimenti stagni, che ripetono un'idea il cui unico gancio degno di nota sono gli abbellimenti synth di Barbieri.

Cambiando prospettiva l'album offre tracce a carattere più distensivo e melodico, come la ballata elettroacustica Of the New Day che sembra provenire dal periodo Stupid Dream / Lightbulb Sun, ma francamente con quel suo andamento melenso si rivela come una tra le cose più deboli e sfilacciate prodotte dai Porcupine Tree. Altri due brani che puntano su atmosfere acustiche sono Dignity e Chimera's Wreck, anche se in questo caso la durata si raddoppia (8 minuti e mezzo e ampiamente oltre i 9 rispettivamente). Ascoltando Chimera's Wreck e il suo arpeggio acustico è impossibile non ripensare ai bucolici paesaggi di stampo genesisiano, ma i PT rimangono fedeli alle loro impostazioni e l'atmosfera creata dal brano è altamente depressiva e malinconica, animandosi dal suo torpore narcolettico solo nella seconda parte, quando fa irruzione un riff metal e una ritmica sostenuta che sono la perfetta antitesi di quanto venuto prima. Dignity si dipana invece come fosse uno scontro di più canzoni pop, fluttuando in un patchwork di idee e progressioni di accordi che sembrano messi lì un po' a caso e dove il pezzo pare smarrirsi, una sensazione rafforzata dalle linee melodiche cantate da Wilson, mai incisive o memorabili. Quest'ultimo aspetto in verità è quello che fa soffrire un po' tutto l'album, ovvero delle parti vocali che si inseriscono a forza e con poca convinzione nell'architettura strumentale. 

La conclusione a cui sono arrivato per Closure / Continuation me l'ha resa chiara la "deluxe edition". Si dice che è sempre dura rinnovarsi con credibilità... e tornare dopo dieci anni con novità rilevanti non deve essere altrettanto facile. Eppure, dopo trenta anni che ascolto Porcupine Tree e Steven Wilson, questo album una novità l'ha effettivamente portata. Una novità che ha aleggiato per tutto l'ascolto dell'"album standard", rilevata inizialmente con qualche riserva da parte mia, ma che con l'aggiunta delle tre tracce che compongono la "deluxe edition" si è rafforzata senza più dubbi. Closure / Continuation è l'apoteosi dello Steven Wilson killer (in senso negativo) di memorabili linee vocali, la maggior parte dei suoi interventi sono trascurabili e per nulla incisivi (e non parlo del timbro della sua voce che può piacere o meno). Gli ultimi pezzi della "deluxe edition" in particolare, Never Have e Love in the Past Tense (Population Three è uno strumentale), hanno le idee strumentali più riuscite ed interessanti di tutto il disco, tanto che avrebbero meritato ulteriori sviluppi e un posto di maggior rilievo nella tracklist ufficiale. Le linee vocali e melodiche di Steven Wilson in questi due pezzi sono quasi superflue e dimenticabili. Closure / Continuation si rivela un album che ha i suoi pregi ed è sicuramente molto più rilevante di ciò che sta facendo il Wilson solista da molto tempo a questa parte. Eppure non è un album che invita a molteplici ascolti, questo soprattutto per una freddezza latente generalizzata a causa di pezzi tecnicamente e sonicamente ineccepibili, ma che faticano a regalare emozioni. 

venerdì 24 giugno 2022

INHALO - Sever (2022)


Il progetto INHALO è stato in costante evoluzione e lavoro per diversi anni. Il gruppo olandese ha preparato e perfezionato il proprio esordio in grande stile con l'aiuto dell'ex chitarrista dei Textures Jochem Jacob e per poi affidare il mix alle cure esperte di Forrester Savell (Karnivool, Dead Letter Circus). Senza avere alcuna nozione o informazione riguardo al background della band, dato che Sever è il primo album degli INHALO, una volta partita la traccia Subterfuge che arriva dopo il breve strumentale introduttivo Omniscent Being, la mente si ricollega senza indugi ad un altro gruppo olandese del quale da qualche anno non si avevano più notizie: gli A Liquid Landscape. L'intuito mi ha guidato bene, in quanto vengo a sapere che gli INHALO sono una sorta di supergruppo formato da membri provenienti da tre differenti formazioni ormai scomparse, ovvero gli Ivy's Dream, dai quali provengono Pepijn Gros (batteria) e Roy Willems (chitarra), i The Heaven's Devils, che hanno fornito Peter Cats (basso), ed infine proprio il cantante Fons Herder che arriva dagli A Liquid Landscape.

Sever nelle sue otto tracce presenta quel tipo di prog metal elaborato nei suoi sviluppi e dinamiche, ma anche attento ad atmosfere e suggestioni dal forte impatto emozionale, che possono essere generate da lenti e pazienti crescendo impostati sul preparare la scena verso tensioni latenti, esplodendo poi per ritornare alla quiete come una pulsazione. Il metodo e le sonorità utilizzati riconducono il tutto ad un ibrido tra Tool e Karnivool, molto evidente sulla lunga Eventide e su Mirror Door, ma gli INHALO raccolgono l'eredità di una gran parte di quel prog metal sempre in equilibrio tra melodia accessibile e aggressività che tanti proseliti ha generato negli ultimi venti anni. In pratica, per essere più espliciti, si fa riferimento a Porcupine Tree, Riverside e Opeth che, sommati agli artisti già citati, infondono a Sever un'aura che ha molte possibilità di ammaliare diversi fan della sfera prog metal.

lunedì 20 giugno 2022

The Mars Volta: il ritorno con il singolo "Blacklight Shine"


Tutto è iniziato con un brevissimo video Instagram di Johann Scheerer (patron dell'etichetta Clouds Hill che ha ristampato in vinile l'intero catalogo dei The Mars Volta) in cui venivano date delle coordinate geografiche insieme ad un nuovo logo design con il nome del gruppo. Il luogo delle coordinate è risultato essere Grand Park, nel centro di Los Angeles, dove dal 19 al 21 giugno è stato installato un grande cubo nero all'interno del quale è possibile ascoltare in anteprima Blacklight Shine, il nuovo singolo dei riformati The Mars Volta. A quanto pare esso sarà il preludio ad un nuovo omonimo album, il primo a dieci anni di distanza da Noctourniquet, e un tour che inizierà negli USA e si estenderà anche in Europa nel 2023. 

La line-up comprende, oltre ai due deus ex machina Cedric Bixler-Zavala e Omar Rodriguez-Lopez, Willy Rodríguez Quiñones alla batteria, il clamoroso ritorno della mai dimenticata prima bassista della band Eva Gardner e Marcel Rodriuguez-Lopez al synth. Da un solo brano è impossibile stabilire la direzione di un album intero, ma Blacklight Shine porta prepotentemente le sonorità latino-americane in primo piano e allo stesso tempo un'aura rinnovata che potrebbe risultare intrigante. Il video che accompagna Blacklight Shine si estende per undici minuti e sembra un omaggio alle origini portoricane di Rodriuguez-Lopez.

domenica 19 giugno 2022

Notes from the Edge of the Week #4

  • Dopo il gradevolissimo album d'esordio Great Album (2018), nel quale il trio dei Great Time guidato dalla frontwoman Jill Ryan mescolava svariati tipi di pop con gusto RnB, ha deciso di generare tre EP nei quali vengono divisi a compartimenti stagni le loro influenze e gli stili da loro utilizzati al fine di ottenere una panoramica eterogenea della propria direzione artistica. Se i primi due volumi erano indirizzati verso l'elettronica, quest'ultimo è più rock, grunge e ruvido e forse il più interessante dei tre. 

  • I Caravaggio sono la creatura del chitarrista Fabio Troiani che, insieme a Vittorio Ballerio (voce), Marco Melloni (basso) e Alessio Del Ben (batteria), ha dato vita al primo omonimo album del gruppo. Una bella sorpresa nel panorama del prog italiano, brani sempre differenti tra loro che cecano di mantenere una identità propria, contando su influenze di tradizione popolare e art rock sinfonico e il tutto si riflette in un album scorrevole e dinamico. Nell'album è anche presente come ospite alla voce Courtney Swain dei Bent Knee, nella rivisitazione della celebre Fix You dei Coldplay. 

  • The Confidence Trick è la sesta opera degli Hats Off Gentlemen It's Adequate, band composta dal duo di polistrumentisti Malcolm Galloway e Mark Gatland. Il lavoro è un concept album che fa confluire nel progressive rock influenze di musica classica, in particolare da camera e minimalismo, adattando questi generi all'elettronica, all'art rock barocco e a qualche inflessione jazz. Ne viene fuori un bell'affresco di prog moderno con sonorità della scuola inglese più sofisticata dai Pink Floyd ai The Tangent, da Jakko Jakszyk ai Genesis. 

martedì 14 giugno 2022

Bubblemath - Turf Ascension (2022)



L'arrivo di un nuovo disco dei Bubblemath rappresenta sempre un evento, anche per la modalità con cui centellinano la loro musica. Forse fanno bene i cinque di Minneapolis a far trascorrere così tanto tempo tra una produzione e l'altra (anche se stavolta, a differenza dell'attesa per Edit Peptide che è durata ben 15 anni, abbiamo dovuto attenderne "solo" cinque), proprio perché ognuna necessita di molta pazienza e della giusta decantazione per essere completamente assorbita, a livello musicale ma anche lirico e quest'ultimo aspetto assume un ruolo molto interessante ed attuale sul nuovo Turf Ascension (in uscita il 24 giugno per la Cuneiform Records).

Ovviamente quindi Turf Ascension non fa eccezione nel richiedere pazienza e i Bubblemath ci propongono un viaggio musicale nel quale sprofondare con ancor più impegno, cambiando leggermente traiettoria compositiva e dando un ruolo unitario all'aspetto narrativo, in modo da eguagliare la complessità della musica. Il materiale di Turf Ascension è stato concepito tra il 2015 e il 2016, quindi anche prima dell'uscita di Edit Peptide, però quello che ci si presenta è un disco dall'impostazione sottilmente differente per chi si aspetta i classici Bubblemath. I brani che lo compongono risultano tutti piuttosto coerenti nel perseguire una linea dettata da una differente prospettiva. In pratica il gruppo ha lasciato sullo sfondo i suoi classici sviluppi frenetici, impostati sul funambolismo e il costante scombussolamento strumentale e strutturale (che, si badi bene, non sono scomparsi, anzi), in favore di soluzioni che privilegiano l'espansione tematica che però preserva le sorprese tipiche della band. Non a caso siamo di fronte a sole quattro tracce di cui quella introduttiva, che sfiora i diciotto minuti, è anche la cosa più lunga mai composta dai Bubblemath. Considerando ciò, lo sforzo e l'attenzione da parte nostra per decifrare i rompicapo della band rimangono invariati, anzi aumentano.  

Ma come si fa a dire a proposito di un album dei Bubblemath che è meno immediato degli altri? Per certi aspetti può risultare un'affermazione paradossale, ma d'altra parte il paradosso è un elemento che ben si adatta alla filosofia del gruppo. Ad esempio, prendete le tematiche dei quattro pezzi che costituiscono Turf Ascension, le quali messe insieme formano un organico concpet - o concept "organico" nel senso di coltivazione, dato il titolo, il quale è una metafora che fa da legame ai testi dell'album - basato su storie fantascientifiche o distopiche, provenienti da un futuro neanche troppo grottesco visto come stanno andando le cose nel mondo attualmente. Turf Ascension assume quasi le sembianze di un'antologia a sfondo sci-fi, simile alle collane di libri Urania, che ha come soggetto conflitti nucleari con scuole che diventano bunker sotterranei (Surface Tension), corsa agli armamenti con caratteristiche sempre più ridicole (Refuse), alberi morti che lottano per sopravvivere (Decrypted) e dubbi sul fare parte di in una realtà simulata (Everything). Argomenti presi come pretesto per una critica sociale che non potrebbe essere più fedele a questo particolare momento storico, anche se il tutto è stato scritto qualche anno fa. 

L'album si inaugura con Surface Tension (dal cui spoonerismo è stato generato il curioso titolo dell'album) che con i suoi diciotto minuti ha tutto il tempo di sviscerare le proprie sezioni e, dove prima dominavano molteplici deviazioni, adesso troviamo variazioni sul tema e digressioni più ponderate, lasciando il compito agli intermezzi quel ruolo di guastatori sonori che prima si estendeva a tutto il brano. In questo modo si ha la possibilità di assaporare con più calma gli interplay che si generano tra tastiere, chitarre e sezione ritmica. Lo spazio dato agli strumenti adesso è più arioso e aperto senza ammassi o accumuli sonori, una definizione che viene preservata e valorizzata pure dal mix limpido. Altra caratteristica funzionale, quest'ultima, per fare in modo di valorizzare tutti i sottili trucchi nelle partiture che si nascondono nel dipanarsi dei brani. Everything è stato scelto come primo "singolo" proprio per questa sua peculiarità che caratterizza il "nuovo" orientamento, indirizzato su una concezione di varietà compositiva tesa ad edificare il brano con calma, piuttosto che smembrarlo in molteplici direzioni. "Non ti colpisce per la sua complessità - spiega il tastierista Kai Esbensen in proposito - ma in realtà al suo interno accadono molte cose, un sacco di intricate astuzie per coinvolgere l'ascoltatore; piccoli “Easter eggs” compositivi da scoprire."* Comunque Everythnig rimane una parentesi che spinge questa logica al massimo e lo fa mantenendo un mood generale piuttosto "soft", il resto dell'album è puro Bubblemath al cento per cento.

Come dire che l'identità dei Bubblemath rimane invariata, è cambiata solo la prospettiva in cui operano: se prima a livello di partitura la loro attenzione si concentrava sulla dimensione orizzontale, per stupirci con un impatto immediato ad effetto di deviazioni continue, adesso il procedimento viene trasferito sulla dimensione verticale, ampliando il raggio d'azione degli strumenti e dargli il tempo di sposarsi con l'insieme armonico, anziché accavallarsi l'uno sull'altro. Il che, è bene specificare, non è una critica nei confronti dei "classici" Bubblemath, ma solo un modo per spiegare la diversa prospettiva. Decrypetd ad esempio mostra volti differenti dello stesso tema (a livello ritmico e timbrico) fino a che nella parte centrale spuntano fuori persino progressioni jazz che si accostano agli Steely Dan per poi tramutarsi in una versione Rock In Opposition degli Utopia di Todd Rundgren. Refuse riprende un po' quel pizzico di follia che caratterizza i Bubblemath e lo fa attraverso tastiere oppressive e sviluppi schizofrenici e disorientanti, l'ideale per descrivere una società malata che ritiene come modello di progresso quello di ideare armi sempre più potenti e distruttive.

In conclusione cosa dire? Turf Ascension alla fine dei giochi mantiene viva l'essenza Bubblemath, preservando la loro identità e natura, che è quella di spingere sull'avanguardia. Ma anzi questa volta raddoppia e si aggiunge il fattore della variazione intesa come esplorazione di possibilità, accanto all'altra, ormai loro classica cifra stilistica, intesa come costante e frenetica deviazione tortuosa.


* Per chi volesse approfondire, nel numero di luglio di PROG Italia ci sarà una mia intervista dettagliata con Esbensen.

venerdì 10 giugno 2022

A.M. Overcast - A.M. Overcast (2022)


Questa volta ad Alex Ltinsky ci sono voluti cinque anni per tornare al suo progetto A.M. Overcast dopo il sempre ottimo Drown to You (2017). Complice forse anche il suo impegno nei Miles Paralysis in coppia con Jon Markson (Such Gold, Taking Meds) che ha messo in pausa la creazione del nono album, quest'ultimo deve essere visto come una nuova partenza o rinascita visto il titolo omonimo. Eppure la sostanza e la formula rimangono quelle costanti e ormai collaudate che hanno reso il progetto di Litinsky così speciale ed irresistibile (almeno per il sottoscritto). Le canzoni come durata oscillano tra il corto e il brevissimo, ritrovando quel gusto eclettico nel passare nel giro di pochi secondi dal midwest emo al pop punk, dal math rock all'indie rock. Insomma, ogni descrizione è quasi superflua se apprezzate anche solo uno di questi generi, fate prima ad ascoltarlo che a leggere queste righe. La qualità è assicurata.

 

giovedì 9 giugno 2022

Atomic Guava - Peasants of the Future (2022)


Chi lo ha detto che il prog, il metal e la fusion, in quanto generi impegnativi, debbano anche essere per forza seriosi. Dieci anni fa, ad esempio, i Twelve Foot Ninja ci insegnarono con una buona dose di competenza musicale combinata ad ironia, che suonare metallo pesante e mischiarlo con altri generi poteva essere divertente quanto ascoltarlo e goderselo.

Gli Atomic Guava, con il loro esordio Peasants of the Future, provano a fare una cosa del genere. Dico subito che dentro ci ho trovato cose che per il mio gusto personale sono troppo estreme (Big Cat) o difficili da apprezzare perché troppo sopra le righe (il sea shanty We Stole a Ship), ma Peasants of the Future è un album oggettivamente così vario (pur nei suoi veloci 39 minuti) e pieno di energica inventiva che difficilmente non si potrà ammirare per il suo entusiasmo. Questo per dire che, anche se al suo interno incappate in qualcosa che non vi soddisfa o non vi convince del tutto, vale sicuramente la pena proseguire nell'ascolto perché non si sa mai dove ci possa portare. 

Ovviamente, dai suoi connotati non stupisce che Peasants of the Future sia il frutto del lavoro e del talento di giovani studenti del Berklee College of Music di Boston ed in particolare del chitarrista Martin Gonzalez (attivo anche con gli OK Goodnight) e della cantante/tastierista Elizabeth Hull. A parte insomma qualche riserva dettata più che altro dal gusto personale, l'album ha una verve e un'esuberanza votata all'anarchia, grazie anche alla versatilità dell'esecuzione e alla voce prestante della Hull, completamente assente nella maggior parte dei gruppi prog metal. 

La sensazione è di trovarsi dentro ad un jukebox impazzito che sputa fuori la metal fusion da nerd degli Arch Echo, gli intermezzi strumentali ultra tecnici dei Dream Theater, il synthpop degli anni 80 e le sigle dei cartoni animati giapponesi. Non si prenda però questa descrizione come se all'interno dei brani si incappasse in molteplici cambi, ma più che altro la percezione e la somma dei suddetti vari connotati si palesa nell'insieme della scelta estetica dei suoni, nella realizzazione di intromissioni e lievi variazioni nella trama dei brani, i quali tutto sommato rimangono fedeli ad una linea di struttura piuttosto classica. Peasants of the Future si ascolta con un sorriso compiaciuto e spegnendo tutta la seriosità che ci arriva del mondo esterno ed in questo adempie in pieno al suo dovere.

lunedì 6 giugno 2022

Astronoid - Radiant Bloom (2022)


Ormai credo che, arrivati al terzo album con questo Radiant Bloom, non ci sia più bisogno di presentazioni per la peculiare formula degli Astronoid. Così come il primo album Air apportava una boccata d'aria fresca (appunto) per il genere metal, inteso nell'accezione più ampia possibile di tutte le sue sottovarianti, il secondo omonimo segnava un po' il passo, come a certificare un prematuro logoramento della formula. Per questo motivo, dopo l'entusiasmiamo iniziale per Air, non aspettavo proprio con trepidazione questo nuovo lavoro.

Eppure devo dire che con Radiant Bloom la band è riuscita a migliorarsi e rigenerarsi rispetto alla preoccupante stagnazione mostrata da Astronoid. Cosa è cambiato quindi questa volta? Il thrash spaziale inondato da fontane zampillanti rifrazioni elettriche shoegaze e le distintive voci esilmente acute del chitarrista Brett Boland sono ancora qui a darci il benvenuto in un metalgaze che si culla in soavi costellazioni dream pop. In un certo senso però Radiant Bloom ritrova lo slancio dell'esordio, grazie a dinamiche e melodie più incisive, che riescono a schivare il rischio di appiattire e rendere monotono un intero album costruito su assalti di pop thrash con vocine alla Mew (si ascoltino gli ultimi due minuti di Human che, con quelle tastiere ad incrementare il muro sonoro, sembrano uscire fuori direttamente da And the Glass Handed Kites).

Ciò che emerge da questa ritrovata identità è proprio una presa di coscienza indirizzata verso il senso dell'orecchiabilità pop che in questa sede viene accentuata e che va ad impattare come un'onda d'urto, ripiena degli impasti impalpabili tipici dei Cocteau Twins, su pezzi come Sleep Whisper e I've Forgotten Your Face. Poi è sempre curioso spingere al limite questo connubio di forze stilistiche contrastanti, di poli opposti, e vedere fino a quale punto di rottura possa arrivare, tipo quando si approda alle tiratissime ritmiche di Sedative o al tenere il piede in due staffe di Orchid, che oscilla di continuo tra lo spingere fortissimo e l'ammaliare con dolcezza. 

Detto con molta semplicità, la differenza di cui si fa carico Radiant Bloom è quella di emanare luce per trasformarla in tanti colori, come fa il prisma. Air e Astronoid nel loro insieme avevano delle prerogative tendenti al plumbeo, Radiant Bloom invece a livello musicale è l'album più solare e vivace della band, anche se ciò non vale a dire che sia il migliore dei tre, ma rimane comunque un'affermazione di intenti molto convincente.  

domenica 5 giugno 2022

Notes from the Edge of the Week #3


  • Di sicuro impatto sensoriale, il primo album dei francesi CKRAFT, registrato da Jean-Pascal Boffo, chitarrista e figura leggendaria del prog jazz francese, è un crocevia di jazz, djent e prog metal portati all'eccesso del virtuosismo, sia nell'esecuzione sia per come viene amalgamato il tutto. Il titolo Epic Discordant Vision sembra quasi un ammonimento per ciò che ci aspetta, oscillando tra brutali riff djent alla Meshuggah e il minimalismo math prog dei King Crimson, il gruppo guidato dal fisarmonicista e principale compositore Charles Kieny traduce questi stilemi nel linguaggio del jazz e del Rock In Opposition fino a portarlo a confini sonici in cui le spigolosità del metal convivono benissimo con la musica colta.

  • Gli Stay Inside sono reduci da un album di debutto, pubblicato in piena pandemia nell'aprile 2020, molto osannato per il suo modo eterogeneamente comprensivo nell'attraversare le differenti sfumature che il midwest emo e il post hardcore hanno sperimentato nel corso degli ultimi 20/30 anni. Il nuovo EP Blight è meno indulgente sotto tale aspetto, complice per forza di cose anche la sua durata, ma si rivela comunque un buon lavoro di emo progressivo, più sfaccettato ed elaborato del solito.

  • In questa settimana è uscito Eels, il terzo singolo all'attivo dei Sunwell, un quartetto di prog hardcore con inclinazioni pop punk. L'impianto strumentale si apre a variazioni e dinamiche math prog, mentre il cantato non ha inclinazioni scream, ma è sempre pulito e melodico. Dai singoli si percepisce una discreta attitudine ad incrementare idee e spunti interessanti. FFO: Amarionette, Time King, Icarus The Owl.

venerdì 3 giugno 2022

Valleyheart - Heal My Head (2022)


Quando ho scoperto i Valleyheart, cercando più notizie e approfondimenti su di loro, rimasi piuttosto sorpreso e interdetto nel trovare solo qualche recensione in siti alternativi meno battuti del solito, mentre la loro assenza risaltava in quelle pagine di riferimento più frequentate che in genere si occupano di questa area musicale. Il fatto mi era ancor più incomprensibile visto che avevano realizzato un EP e un album, pubblicati da un'etichetta piuttosto rilevante come la Rise Records, pressoché perfetti, di una bellezza cristallina e una produzione impeccabile.

A far emergere il valore aggiunto dei Valleyheart nella quantità di proposte emo/indie rock è proprio l'attenzione del gruppo per i dettagli sonori, che si traduce in una peculiare tavolozza timbrica sognante e avvolgente. Quasi immediatamente Nowadays e Everyone I've Ever Loved sono diventati (e rimangono tuttora) degli ascolti frequenti nella mia playlist. Inoltre, ad accompagnare la musica suggestiva, si aggiungono i testi molto personali e ispirati del frontman Kevin Klein, capaci di riflessioni non banali sui tormenti e l'incertezza della vita di tutti i giorni.

Il secondo album del gruppo, Heal My Head, continua in parte su questa linea e dall'altra cerca nuovi spunti che lo qualificano come un lavoro interlocutorio. Ad esempio, accanto a brani tipicamente "Valleyheart" compaiono ballad dalle caratteristiche più dirette come Warning Signs e Vampire Smile, alle quali però non manca il trattamento gazecore del gruppo, ma applicato in modo meno incisivo del solito. Forse per questo c'è chi ha ravvisato su Heal My Head qualche somiglianza con Death Cab for Cuties e Manchester Orchestra, ma personalmente ritrovo ancora qualche eco dei Sunny Day Real Estate e del Jeremy Enigk solista, sensazione rafforzata dal modo di cantare di Klein.

In generale i Valleyheart questa volta lasciano parzialmente da parte i sussulti emocore e si lasciano trasportare dalla quiete dell'indie rock. Anche Klein rispetto al passato canta molto più spesso con un registro vocale basso e concentra all'essenziale l'uso dei toni più alti. Rimane però quella sensazione che anche nei momenti più "pop", come la title-track o The Numbers, i Valleyheart non cedano mai alla facile soluzione o al facile ritornello da presa immediata. Il parallelismo che rimane costante col passato è che gli ascolti multipli di un loro album o di una loro singola canzone si aprano ogni volta a nuove scoperte e nuovi particolari, per arrivare infine all'essenza. Naturalmente non manca l'eccezione nelle vesti di Your Favorite Jacket che fin dai primi ascolti, col suo andamento sostenuto e sicuro, è capace di coinvolgerci nella solare atmosfera dolceamara.

Nella loro semplicità la costruzione delle canzoni non sempre è lineare e può capitare di trovare sottili deviazioni inattese o brevi parti strumentali avventurose. Per trasmettere emozioni in pratica questa volta i Valleyheart non puntano tanto sul quiet/loud, prerogativa dell'emocore, ma su quella spaziosa tavolozza a cui prima accennavo, basata su strati di chitarra nebulosi che già il gruppo aveva perfezionato con Everyone I've Ever Loved, dando al tutto un senso di dreamgaze. Basti pensare che spesso in questo genere, per infondere la sensazione di armonie più ampie e profonde, si fa ricorso all’uso delle accordature aperte, i Valleyheart invece ottengono tali risultati anche solo con accordi standard proprio grazie all'oculato lavoro su timbri e sonorità. E questo aspetto è particolarmente evidente sugli arpeggi eterei di Back & Forth o nella malinconia trasmessa da The Days, brani nei quali si può sprofondare. 

I testi seguono questa linea di transizione e adesso non riguardano più un tema unitario come la crisi religiosa che aveva colpito Klein raccontata su Everyone I've Ever Loved, ma più ampiamente un percorso sulle piccole cose di tutti i giorni: "Personalmente non mi considero più un cristiano [...] Non c'era alcuno sforzo cosciente per scrivere un disco sulla religione. È solo che in quel momento, era ciò che stavo passando. Ma sento che questo album riguarda tanto la fede quanto il precedente. È il proseguimento di quel senso di identità e del nostro posto nel mondo. Al contrario del cristianesimo, si focalizza più sul fatto di avere fede in qualcosa e di trovare il nostro posto in questo mondo selvaggio." Con Heal My Head (che esce per la Tooth & Nail) la promozione finalmente sembra decisamente indirizzata ad un pubblico più ampio e i Valleyheart si meritano sicuramente attenzione e un riscoperta retrospettiva per l'alto valore della loro proposta.

mercoledì 1 giugno 2022

Altprogcore June discoveries



Insieme agli ottimi Tigerwine un'altra pubblicazione della Tooth & Nail risalente al 2020 che mi era sfuggita è stato il primo album degli Off Road Minivan Swan Dive. Come stile ricordano un po' i Thrice, qualche brano più di altri, ma in una versione più soft e accattivante.


Il fronte del prog israeliano si arricchisce con la band Steroid Puppets formata dal chitarrista Ben Azar, il bassista Or Lubianiker dei Project RnL e il batterista Nir Nakav che si vanno ad inserire in quell'area prog metal/fusion, ad alto tasso di virtuosismo, con un tocco di esotismo etnico già presentato con successo dagli HAGO.
 

 

La chitarrista e cantante Raavi Sita è attiva da qualche tempo nell'ambiente indie prima con il suo gruppo Raavi and The Houseplants, con il quale ha prodotto nel 2019 il gradevole Don't Hit Me Up. Ora si ripresenta solo con il nome di Raavi con l'EP It Grows on Trees che è un po' il seguito dell'album. Come stile si può immaginare una Snail Mail più incline all'emo e a soluzioni melodiche più ricercate. 
 

 

Quatrefoil, primo EP dei LOA, si muove tra prog, jam band e rock psichedelico, guardando un po' al presente e un po' agli anni '90, in particolare ai gruppi che provenivano dall'etichetta Delerium (la prima label dei Porcupine Tree).
 
 
 
One Foot Follows è l'opera prima del sestetto di New York Making Days. Come primo impatto e biglietto da visita il gruppo si presenta con una sonorità intrigante che mette insieme le spigolose evoluzioni del prog e del math rock e le soffici, riverberate e spaziose arie del dream pop. Ne esce fuori una variante dream prog degli Astronoid, ma senza le vocette in stile Mew.
 
 

Nati nell'aprile 2019 come duo tra la tastiera della cantante Ais e la batteria di Toby con il nome di Pave, i Sang Froid si sono espansi a quartetto con Freddie (basso) e Charlie (chitarra). Da allora hanno prodotto un EP e due singoli che si muovono nei confini dell'art rock tra gli Exploring Birdsong e i primi Bent Knee. 


Woolgathering dei Datadyr è la seconda pubblicazione della neonata etichetta norvegese Is It Jazz? Records e il primo album del gruppo. Il trio si è formato studiando jazz alla Grieg Academy di Bergen e basa il proprio linguaggio compositivo sull'improvvisazione e su un sound crudo e diretto. Scelte rispecchiate dall'album registrato in modo unitario e congiunto per catturare l'immediatezza del momento e aggiungere poi il minimo indispensabile di sovraincisioni.
 


La scoperta dei Focus Pool va imputata a Michael Lessard (The Contortionist) che ha collaborato con il gruppo in veste di regista del video che accompagna il brano Distance. I Focus Pool affrontano il prog metal in una veste soft e psichedelica che ricorda molto le spirali esoteriche dei Tool.