lunedì 29 marzo 2021

PreHistoric Animals - The Magical Mystery Machine (Chapter one) (2020)

Torniamo un attimo indietro nel tempo allo scorso settembre, quando ha fatto la sua comparsa The Magical Mystery Machine (Chapter one), secondo album del gruppo svedese PreHistoric Animals. Partiamo con il dire che questa è una questione di negligenza da parte mia in quanto, con il primo lavoro Consider It a Work of Art del 2018, i PreHistoric Animals erano già entrati nel mio radar e ne parlai fuggevolmente qui. Ma poiché quell'album, certamente ben prodotto e gradevole, non aveva smosso in me un interesse tale da seguirli assiduamente, ho soprasseduto nell'ascolto del secondo lavoro.

Ebbene, è ora di rimediare proclamando senza mezzi termini che The Magical Mystery Machine (Chapter one), non solo è un album da non perdere, ma anche uno dei migliori usciti nel 2020 che purtroppo, come può accadere, è rimasto colpevolmente fuori dalla mia lista di fine anno, ma che consiglio di recuperare assolutamente per chi ancora non lo avesse fatto. Ricapitolando, i PreHistoric Animals erano originariamente i soli Samuel Granath (batteria, tastiere) e Stefan Altzar (chitarra, basso, voce), ma in seguito si è costituita una vera e propria band che ora conta in formazione Noah Magnusson al basso e l'ex chitarrista dei Pain of Salvation Daniel Magdic.  

In pratica il primo album dei PreHistoric Animals, per quanto possa risultare un buon lavoro di prog rock bilanciato con melodie orecchiabili e accenni di metal, non avrebbe mai fatto supporre un balzo creativo del genere, visto che il nuovo lavoro supera qualsiasi aspettativa. Per chiarire quanto sia ottimo il risultato farò un esempio. Chi segue altprogcore sa che talvolta esterno la mia insofferenza verso le uscite dell'etichetta InsideOut che, pur tirando fuori produzioni di alto profilo, ma in buona percentuale quasi sempre standardizzate, sublimate in un prog rock sinfonico/metal che pare creato in serie, anche se non mancano delle eccezioni (come ad esempio i Frost*). Ecco, The Magical Mystery Machine (Chapter one) è quel tipo di album che rispecchia un perfetto modello di come vorrei che fossero le produzioni InsideOut.

The Magical Mystery Machine prende quanto di buono aveva Consider It a Work of Art e lo amplifica nel migliore dei modi possibili. Come ci suggerisce il titolo, dal quale si profila un secondo capitolo, è un concept album che racconta un'avventura fantascientifica. Molto sinteticamente la storia ci introduce le protagonista Cora, coadiuvata dal suo amico Jareth, alla quale viene dato l'incarico di raccogliere e conservare tutte le informazioni e sentimenti umani dentro una scatola magica al fine di trasportarle in un nuovo mondo poiché il nostro ha i giorni contati.

Tutti i brani dell'album rispettano determinate regole e direzione compositiva, chorus sontuosi contornati da trame prog tra il soft metal e il sinfonico psichedelico, facendo in modo che non ci sia una traccia fuori posto, mentre il suo dipanarsi fluisce in modo compatto, coerente e senza cedimenti qualitativi. E' un gioco di equilibrio dove il gusto per le grandi melodie non viene sacrificato sull'altare del tecnicismo fine a se stesso, ma all'interno dell'opera si trova abbastanza sostanza per accontentare i sostenitori di entrambi gli aspetti. Insomma, con The Magical Mystery Machine (Chapter one) i PreHistoric Animals hanno compiuto un salto qualitativo impressionante, frutto di un'ispirazione che speriamo prosegua su questa linea anche in futuro, grazie ad una autoproduzione ancor più curata e dettagliata che lascia libero spazio ad arrangiamenti ricchi di sonorità piacevoli anche nei momenti più aggressivi, piene di sfumature che è bello scoprire ascolto dopo ascolto. 

https://prehistoricanimalsmusic.com/

domenica 28 marzo 2021

Emily Steinwall - Welcome To The Garden (2021)


Emily Steinwall è una giovane sassofonista canadese, di Toronto per la precisione, della quale sono venuto a conoscenza grazie al fatto che il chitarrista Joey Martel dei Parliament Owls fa parte della sua band. La Steinwall è attiva da diverso tempo come solista e come membro* di altre band nella scena jazz della sua città natale, fino a che, dopo qualche singolo e un EP registrato dal vivo nel 2018 dove mostrava le proprie capacità, è arrivata adesso all'esordio su disco con Welcome To The Garden. Come lei stessa spiega, il titolo, la title-track e un po' tutto l'album, prendono ispirazione dall'essere interconnessi con ogni cosa che ci circonda sulla Terra e percepire l'amore per la nostra esitenza su questo universo.

La Steinwall quindi, con molta grazia, cerca di riprodurre una musica che dia voce ai suoi sentimenti più profondi, che scaturiscono immediatamente in apertura con una title-track a dir poco intensa. Il pezzo, attravesro un inizio e un finale dall'atmosfera mistico-gospel, ci introduce ad un tour de force di dieci minuti dove la Steinwall prende le sembianze da sacerdotessa di un lento rituale blues rock che fonda la sua essenza in un costante crescendo, dove l'arrangiamento aggiunge sfumature strumentali ad ogni ripetizione tematica, fino a raggiungere l'apoteosi climatica nell'assolo di sax dell'autrice. Basterebbe questo pezzo per assicurarsi un riconoscimento di stima incondizionata.

Ma Welcome To The Garden, continua, ha altro da offrire, e il brano che arriva dopo, Bloom, sopisce la tensione accumulata dalla title-track in ampi spazi crepuscolari e avvolgenti, grazie a ritmiche cullanti e fraseggi con progressioni di piano che volteggiano tra jazz e dream pop. Il breve bozzetto di jazz ballad Late Night Romantic è il preludio alla seconda parte dell'album che attraversa vari caratteri della tradizione popular statunitense: da diligente studiosa la Steinwall incorpora nel suo perimetro stilistico folk, soul, jazz, riletti con la duplice natura che la caratterizza, ora come cantautrice ora come performer. Ma soprattutto in Welcome To The Garden emerge la capacità dinamica, esecutiva e d'arrangiamento della Steinwall, ben supportata dal suo gruppo di musicisti, per una collezione di brani che, senza la stessa interpretazione, avrebbero rischiato di naufragare nell'anonimato di altre proposte prive di originalità.

(*mi scuso per l'utilizzo del sostantivo maschile per riferirmi ad una donna ma, in questi tempi di politicamente corretto esasperato, non si sa mai. E poi, anche volendo, "membra", oltre ad essere il suo corrispettivo plurale, assumerebbe tutt'altro significato. Buon ascolto a tutt*).

sabato 27 marzo 2021

Origami Button - No Parking (2021)

A distanza di due anni dall'EP di esordio Button Season (2019), la band di Chicago Origami Button pubblica il suo primo album No Parking che prosegue con una buona vena tutto ciò che aveva promesso l'EP. Forse il pregio di No Parking è accentuare ancora di più la commistione di stili presente sul lavoro precedente e che il math rock moderno ha inglobato. Come i pionieri Strawberry Girls hanno insegnato e poi il batterista/chitarrista Ben Rosett ha consolidato con ancor più radicalità, da solo e con gli Eternity Forever, il genere si tinge di una vena altamente accessibile e pop solare, mutuata da influssi R&B, soul, funk e qualche linea hip hop, che vanno a scontrarsi con sporadici accenni al post hardcore con l'uso di harsh vocals

Da questo mix emerge la stessa divergenza tra melodie suadenti black e improvvise aggressività swancore, però stemperate, come se i Dance Gavin Dance si fossero fusi con gli Amarionette. Proprio per questo accostamento improbabile tra stilemi si ha l'impressione di un lavoro fresco ed esotico. Chiamatelo smooth math o math pop, comunque sia No Parking degli Origami Button è un altro fondamentale tassello per capire come si stia delineando un altro sottogenere con connotati ben calibrati e definiti.

mercoledì 24 marzo 2021

Genghis Tron - Dream Weapon (2021)


Quando ormai, più di dieci anni fa, i Genghis Tron decisero di prendersi una pausa, lasciarono ai posteri come ultima testimonianza l'album Board Up the House (2008), una summa del loro metal estremo e sperimentale, unito a droni elettronici algidi e imponenti ibridati in un cyber-core industriale che lasciava un solco profondo in quel sottogenere catalogato come Nintendocore, definendone la prospettiva e le peculiarità come fosse un'istantanea di quella convergenza sonora. Nonostante il gran consenso della critica e dei colleghi riscosso dal lavoro, il gruppo decise nel 2010 di fare un break indefinito con la promessa di tornare sulle scene.

Senza nessuna prospettiva concreta su quanto sarebbe durato lo stop, i Genghis Tron sono risorti per caso quando i due membri del trio originale, Hamilton Jordan (chitarra) e Michael Sochynsky (tastiere), hanno incrociato di nuovo le loro strade nel 2018 e dall'incontro, anche se non era previsto, sono scaturite le prime nuove composizioni per il terzo album Dream Weapon. Ai due si sono poi aggiunti il nuovo cantante Tony Wolski, che ha rimpiazzato Mookie Singerman, e il batterista Nick Yacyshyn. Il destino ha poi voluto che il materiale assemblato per Dream Weapon fosse registrato nel 2020, durante una globale pandemia. La produzione è andata quindi avanti da remoto ma, a detta di Jordan e Sochynsky, questo inaspettato imprevisto ha fatto in modo di spendere più tempo per ridefinire e curare il sound, il mix e l'arrangiamento, coadiuvati dal loro produttore di fiducia Kurt Ballou (Converge) quando hanno iniziato a lavorare nel suo studio.

E' da queste premesse che si capisce perché la band abbia cambiato totalmente approccio, mettendo da parte il Nintendocore e le sonorità più aggressive, optando per un'aggregazione di architetture electro-psichedeliche che, nelle parole di Sochynsky, compongono una direzione più meditativa e ipnotica. Lo stesso modo in cui è stato composto il disco rispecchia una collaborazione tra le parti molto più tesa a sperimentare su loop, frammenti sonori che si espandono e minimalismo d'accumulazione, invece che puntare nuovamente su bombardamenti apocalittici e scream vocali. 
 
Per chi ha conosciuto i Genghis Tron e si aspetta anche una minima ripresa degli eccessi di Board Up the House è bene chiarire che qui non ne troverà traccia. Il gruppo è ora una bestia totalmente differente che pare una sua versione matura e composta, speculare al selvaggio passato, dove pure le raffiche techno-esplosive della title-track, scelta come singolo apripista quasi a far presagire qualche spiraglio devastante, hanno più cose in comune con il math rock che non con il metal, che è un po' come potrebbero suonare i Night Verses se avessero un cantante. Anche la strumentale Single Black Point e la conclusiva Great Mother sono maggiormente in sintonia con l'estetica IDM dei Three Trapped Tigers che non con quella grindcore dei The Dillinger Escape Plan. Si sarà capito quindi che con Dream Weapon i Genghis Tron hanno scelto di viaggiare su latitudini contrarie al passato. Ma forse non poteva essere altrimenti, visto il tanto tempo intercorso tra i due lavori e gli orizzonti, come gli interessi, mutano inevitabilmente anche il linguaggio musicale.
 
A parte gli edifici di synth, fondamenta sulle quali si regge tutto l'impianto, gli altri protagonisti del nuovo sound dei Genghis Tron sono i beat ultra tecnici di Yacyshyn e la voce androide di Wolski, quasi spersonalizzata e sepolta sotto una selva di droni sintetici. Ma tale aspetto è coerente con la direzione dell'album. L'intento del gruppo praticamente sembra quello di portarci in una dimensione ultraterrena, che ciò avvenga attraverso la trance ipnotica di Pyrocene o quella estraniante di Alone in the Heart of the Light, il viaggio non si esaurisce solo con qualche brano ma pervade tutto il percorso. Il mastodonte Ritual Circle, con uno sguardo al passato e uno al presente, apre uno spiraglio temporale su cosa oggi avrebbero potuto realizzare i NEU! utilizzando le jam concentriche psych-rock che erano già prerogativa dei Secret Machines. Anche gli accostamenti stilistici sono quasi paradossali: tra le pieghe dei cluster tastieristici di Sochynsky, abbinati alla chitarra robotica di Jordan, pare di sentire gli Alan Parsons Project degli anni '80 reinterpretati dalle irregolarità tonali dei Battles. In effetti il modo giusto per affrontare l'ascolto di Dream Weapon è quello di immergersi totalmente tra le sue onde di synthrock futurista, non tanto per la complessità della musica che necessita di attenzione, ma piuttosto affinché l'ascolto divenga un'esperienza lisergica dove poter sprofondare.
 

martedì 23 marzo 2021

Dust Moth - Rising // Sailing (2021)


La band Dust Moth è la creatura del chitarrista Ryan Frederiksen, ex membro dei These Arms Are Snakes, fondata con la cantante Irene Barber e inizialmente ha visto la partecipazione alle tastiere dell'ex Minus the Bear Matt Bayles, che troviamo da questo album solo nelle vesti di produttore. Rising // Sailing è il secondo lavoro del gruppo e, dopo l'EP Dragon Mouth (2014) e il full length Scale (2016), prosegue con più consapevolezza e maturità la fascinazione per una combinazione di elementi di confine tra lo shoegaze e lo space rock.

L'atmosfera, cupa e impalpabile al tempo stesso, creata all'interno di Rising // Sailing riporta ad un rock gotico imbevuto di suggestioni dreamgaze, ma anche ad un costante tappeto heavy, ingredienti ben concentrati nella conclusiva I'm Not Anyone. Ad esempio, con Annular Eclipse, tra il suo basso fuzz e le tastiere che producono note da film horror, pare di essere catapultati dalle parti dei The Gathering, mentre su Motor l'asprezza della chitarra fa da contraltare alla voce calma e soave della Barber. Melted Monuments ne risalta invece quasi l'aspetto paradisiaco, con le sue cascate di synth racchiuse nel chorus e l'incedere sicuro e cadenzato. 

I beat irregolari di Everything Anew, che si sposano con un riff altrettanto obliquo, sa tanto di post punk, ma accanto alla chitarra, anche le tastiere hanno un ruolo rilevante nell'insieme, molto spesso avvolgendo nel loro percorso tutto ciò che si trovano davanti, come sulle rallentatissime spire di How to Sleep e Other Worlds. Rising // Sailing è così: anche se mostra un'esecuzione viscerale, possiede molti sottostrati sonori da cui prende spunto. Ma questa ricerca nel creare una bolla sonora e atmosferica nella quale crogiolarsi, qualche volta va a scapito della dinamicità, in quanto può capitare di perdersi in dei passaggi fin troppo uniformi. Quantomeno, ad ogni modo, i Dust Moth plasmano un paesaggio sonoro così tentacolare che non lascia indifferenti.

venerdì 12 marzo 2021

Blackwater Flood & Sunset Mission - Eternal Flight (2021)


Eternal Flight è una collaborazione tra i Blackwater Flood e i Sunset Mission, quest'ultima è il gruppo di cui parlai giusto un anno fa e autori del un pregevolissimo esordio Journey to Lunar Castellum. I Blackwater Flood sono uniti ai Sunset Mission da due membri in comune, i polistrumentisti Dana Goodwin e Jan Schwartz, che fanno parte di entrambi i gruppi, anche se gli altri tre componenti dei Blackwater Flood hanno partecipato come ospiti all'album dei Sunset Mission. Ora l'unione tra i due gruppi si è consolidata per produrre la presente suite di sedici minuti, la quale nel suo percorso attraversa vari umori stilistici, passando da delicate arie acustiche e bucoliche a sezioni più propriamente prog, sospese tra il metal, la fusion e la musica da camera. Un interessante sodalizio.

martedì 9 marzo 2021

A Lonely Crowd: ricercati, ufficialmente morti


Benvenuti al secondo appuntamento di quella che non era intesa come una rubrica ma, dato che stiamo parlando di un gruppo australiano anch'esso come i The Grand Silent System durato troppo poco, ho pensato di inserirlo nello stesso perimetro. Ma le similitudini non finiscono qui, dato che gli A Lonely Crowd, proprio come i loro conterranei, sono stati fautori di un tipo di prog del tutto personale e fuori dagli schemi rispetto a quello che siamo abituati ad ascoltare nel pur ricco mix di generi che oggi ricadono sotto quella definizione.

Formati a Melbourne dai fratelli Luke e Scott Ancell, rispettivamente chitarra e batteria, il quartetto si completa con il basso di David Morkunas e la voce, oltre che il flauto, della talentuosa Xen Havales, cantante con studi classici alle spalle. Il debutto avviene nel 2011 con User Hostile, album che si presenta nella sua peculiarità grazie ad un importante risalto dato al contenuto strumentale, forgiato da chitarre aggressive, ritmiche complesse, divagazioni etniche e vocalità molto elaborate. Gli arrangiamenti comunque appaiono essenziali e affilati al massimo, puntando quasi su un'attitudine punk e hard rock. L'ospitata al clarinetto della fiatista Karen Heath dei The Grand Silent System, sul brano Mustard Brush Tango, cementa ancora di più la parentela artistica e musicale tra i due gruppi. 

Naturalmente gli A Lonely Crowd non tardano ad inserirsi nella scena prog australiana, accompagnando i concerti di altre band tra cui Closure in Moscow, Cog, Dead Letter Circus, Twelve Foot Ninja, sleepmakeswaves, facendosi notare con performance convincenti (come testimoniano i video riportati qui sotto) ed entrando a far parte dell'etichetta indipendente Bird's Robe Records per il secondo album Transients, pubblicato nel 2014. Questo lavoro si dimostra ancora più creativo e articolato di User Hostile, dove gli A Lonely Crowd aumentano esponezialmente la propria visione musicale unica mano a mano che il disco si dipana e lo fanno attraverso pezzi spigolosi, con una durata media non tanto estesa, ma molto densi riguardo ad idee e strutture tematiche. La potente performance della Havales pone il gruppo tra l'art pop melodico e l'avant-garde strumentale che spazia dal jazz rock al RIO, dai King Crimson ai District 97. Sperimentazione e armonia sembrano essere il connubio che gli A Lonely Crowd hanno stabilito come loro parametri guida. 

La carriera del gruppo si conclude nel 2016 con l'EP Devil in the Detail, opera che volge talvolta in direzione di sonorità elettroacustiche e pone in risalto qualche polifonia vocale. In pratica una nuova esplorazione delle possibilità degli A Lonely Crowd che si evolvono verso arrangiamenti più stratificati e prog, lasciando da parte l'essenzialità dei due album precedenti, anche se è doveroso sottolineare come il quartetto compensava benissimo tale basicità strumentale grazie alla meticolosa abilità esecutiva. Fortunatamente, al contrario dei The Grand Silent System, tutta la discografia degli A Lonely Crowd è disponibile su Bandcamp.

 

P.S. I fratelli Ancell hanno da poco fondato una nuova band dal nome Beautiful Bedlam, il cui omonimo album d'esordio è previsto per maggio.

domenica 7 marzo 2021

Sullen - Nodus Tollens – Act 1: Oblivion (2021)


Secondo sforzo discografico per i Sullen, quintetto portoghese dedito a prog metal che sconfina nel djent. Ci sono voluti quasi sei anni per dare seguito a Post Human (2015) e i Sullen si ripresentano con quella che ha tutta l'aria, a giudicare dal titolo Nodus Tollens – Act 1: Oblivion, di un'opera in due o più parti. A maggior ragione si dovrebbe pensare ad una seconda parte compensativa, in quanto la durata di Oblivion, che supera di poco la mezz'ora, si avvicina più ai parametri di un EP che a quelli di un album. Ma veniamo al contenuto.

Ovviamente l'evoluzione del gruppo c'è stata e Oblivion non fa che ribadire lo spessore dei cinque musicisti che, aggiungendo all'impianto una pronuncia inglese impeccabile, li si può accostare tranquillamente all'orizzonte internazionale del genere. Ciò che si palesa fin dall'inizio con la traccia The Prodigal Son (e che prosegue in Memento) è che i Sullen sanno interpolare una consistente matassa di trame armoniche con complesse costruzioni metriche e qualche passaggio growl che si inserisce nel contesto come se spezzasse l'equilibrio melodico. Il che, dal mio punto di vista, è davvero un peccato, poiché tanta veemenza vocale va ad intaccare tutta la proporzione dell'architettura sapientemente impostata.

Skylines vede la partecipazione dell'ex Extol Ole Børud come ospite alla chitarra e la sensazione di trovarsi di fronte ad un inedito dei Tesseract aumenta il piacere di scoprire quanto possano essere competenti i Sullen nel proporre djent di qualità. Nei riff cadaverici di Acheronta Movebo troviamo addirittura il grunge dei Soundgarden, mentre Human, che da lenta atmosferica edifica un crescendo su solide basi metal, fa sfoggio di quella capacità melodica stratificata di cui si accennava prima. La natura complessa di Oblivion però è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza, dato che la musica contenuta apre un mondo che meritava di essere esplorato ancora con l'aggiunta di qualche traccia. Alla fine della multiforme Fail-Safe, che conclude ribadendo il concetto di avere potenzialmente altre frecce al proprio arco, si viene colti da una sensazione di incompiuto. Pazientiamo quindi e vediamo cosa avrà da offrire il secondo atto.

venerdì 5 marzo 2021

Signals of Bedlam - Liar's Intuition (2021)

A giudicare dal nuovo album Liar's Intuition, si può escludere che ai Signals of Bedlam interessi diventare un gruppo molto conosciuto, persino tra le fila del post hardcore. Parlando ormai quasi cinque anni fa della loro seconda prova Escaping Velocity, li paragonavo ai primi Tool e ai Rishloo, ma Liar's Intuition va ben oltre tali parametri. Il quartetto di New York non fa nulla per apparire accattivante, anzi il loro prog hardcore punk spinge sulla sperimentazione e l'imprevedibilità tematica con audacia e senza compromessi. Il bombardamento incessante di temi complessi e articolati solo raramente si dischiude a passaggi che si sforzano per rimanere impressi nella mente.

Il resto è una coraggiosa disamina delle possibilità dell'experimental post hardcore, con qualche lontano richiamo al prog metal dei Karnivool, grazie all'interpretazione del cantante Cero Cartera. L'impianto strumentale viene a più riprese a patti con il lascito sonico e idiosincratico dei The Mars Volta, mentre tutto è coperto da una incombente nube oscura. Non c'è dubbio comunque che i Signals of Bedlam stiano cercando di ritagliarsi una propria personalità, producendo un album che anche dopo ripetuti ascolti appare complesso, teso e claustrofobico. Liar's Intuition è accompagnato da una "versione visuale" con dei video dedicati ad ogni traccia, realizzati dal bassista Chika Obiora, al fine di aumentare l'immersione nell'esperienza di ascolto.

martedì 2 marzo 2021

SOM - Awake (2021)

Senza starci troppo a girare intorno potremmo classificare i SOM come un supergruppo, in quanto i suoi componenti provengono da band veterane e molto rispettate in ambito post rock, shoegaze e progressive rock. Naturalmente anche i SOM ricadono in tale ambito musicale e, con il debutto The Fall risalente al 2018, si sono presentati con un potente e suggestivo metal etereo, che loro stessi hanno ribattezzato "heavy dream pop". I signori di cui stiamo parlando sono Justin Forrest dei Caspian, Duncan Rich dei Constants, Will Benoit che ha militato anch'egli nei Constants e fa parte inoltre dei Junius insieme ad altri due membri dei SOM, ovvero Joel Reynolds e Mike Repasch-Nieves. 

The Fall metteva la distorsione in primo piano e la sparava con uno slancio al rallentatore negli spazi siderali, mentre la flebile voce di Benoit era sommersa da onde di muri elettrici di chitarre, il fuzz del basso e ritmiche pesanti come macigni. L'aggiunta dei synth, utilizzati discretamente come da tappeto futuristico, ne aumentava il livello industriale, anche se tutto l'arsenale sonoro che punta alla saturazione, grazie ad accorte scelte melodiche che fanno da controparte, sembrava quasi dissiparne la pesantezza in favore di atmosfere impalpabili e psichedeliche.

Nel 2020 il gruppo aveva deciso di iniziare i lavori per il secondo album, ma l'improvvisa pandemia e il conseguente lockdown non lo hanno permesso. I SOM si sono quindi dovuti fermare senza però rinunciare mantenersi attivi. Cambiando modalità, si sono organizzati in altro modo per realizzare nuovo materiale in modalità remota. Il risultato è l'EP Awake in uscita il 5 marzo, che contiene i due inediti Awake // Sedate e Youth // Decay accompagnati da quattro remix. Sostanzialmente i due brani non fanno che rafforzare il carattere nebuloso e oscuro del post metal prodotto dai SOM ed è già possibile ascoltarli tramite i due video ufficiali.

 







lunedì 1 marzo 2021

Altprogcore March discoveries


Gli Infinity Shred sono un trio di New York che coniuga nel suo sound synthwave e post rock, praticamente una versione più atmosferica dei Three Trapped Tigers. Sono appena usciti con un nuovo EP, ma si raccomanda anche l'ascolto del precedente album del 2019 Forever, A Fast Life.

 
 
The Planet You con l'esordio Techxture si offrono in veste di power trio di math post punk come una sorta di Faraquet più incendiari ed abrasivi. 
 
 
 
Ok, il trio francese dei Lizzard non è esattamente una nuova scoperta, dato che sono in giro da quasi 10 anni, ma il loro quarto album Eroded non è niente male e era giusto segnalarlo.

 
 
 
Un disco eclettico e non convenzionale quello dei Project Mishram. Essendo un settetto indiano all'interno di Meso troviamo naturalmente anche elementi di musica mediorientale, ma la varietà con cui vengono accostati djent, fusion, prog, musica carnatica e sudamericana, hip hop e world music, trasmette una suggestione molto esotica.
 

 

I norvegesi Shaman Elephant nel secondo album Wide Awake But Still Asleep mettono in atto un mix di psichedelia, hard rock, prog e folk di stampo americano ispirato dagli anni '70, ma con un piglio e attitudine abbastanza moderni.
 
 
 
Gruppo di prog metal che ricade in binari piuttosto classici e collaudati, gli Exist Immortal si erano presentati con l'EP Act One - Rebirth al quale seguirà presto il secondo atto anticipato dal singolo Come Alive.
 
 
 
Interessante gruppo di dream pop, gli australiani half/cut pubblicheranno il secondo album Salt an Atlas ad aprile, nel quale, a giudicare dalle prime tracce, dimostrano di essere maturati un bel po' a livello sonoro e compositivo.
 
 

Partiti con un dream pop un po' acerbo, lentamente i Boston Marriage stanno aggiungendo sostanza al loro sound e negli ultimi singoli hanno raggiunto un buon compromesso tra shogaze e pop. Se continuano a progredire in questo modo arriveranno pronti ad un interessante album d'esordio.

 
 
I We Used to Cut the Grass non sono altro che il progetto collaterale del bassista dei Thank You Scientist Cody McCorry, sembrano una versione strumentale dei TYS e infatti nella band ci sono tutti i TYS. Come descrizione penso possa bastare.

 

Dopo aver lasciato i Lonely the Brave per motivi legati alla sua salute mentale, i segnali che il cantante Dave Jakes volesse abbandonare il mondo della musica erano piuttosto concreti. Invece lo scorso dicembre ha pubblicato il suo primo EP da solista, formato da canzoni atmosferiche e malinconiche. La voce di Jakes non rende tutto il potenziale di cui di solito dispone, ma è comunque bello sapere che il suo impegno musicale continua.