Riassunto delle puntate precedenti: Casey Crescenzo pubblica tre album di seguito a nome di The Dear Hunter, tra il 2006 e il 2009, facenti parte di una saga di sei capitoli ambientata a cavallo tra il XIX e il XX secolo, narrando le vicende di un ragazzo senza nome. La musica è altamente ambiziosa, molto incline alla teatralità, al sinfonismo e a tutto quel crogiuolo di musiche che si mischiavano in America alla fine dell'800: ragtime, blues, gospel e jazz. Non mancano richiami a Beach Boys, Beatles, The Mars Volta e post hardcore...insomma, una nuova ed eccitante costola del rock progressivo più stimolante.
Una volta completati i tre capitoli Crescenzo decide che per il momento può bastare e si dedica, sempre con la band, ad altri progetti slegati dalla saga: una raccolta di 9 EP dal titolo
The Color Spectrum, un album di canzoni (
Migrant) e addirittura una sinfonia in quattro movimenti registrata con una vera orchestra. Dopo queste deviazioni siamo arrivati ad oggi, quando finalmente Crescenzo ha deciso di riprendere il filo della storia della sua saga a sei anni di distanza dal terzo capitolo. Per il loro ritorno i The Dear Hunter hanno pensato bene di accontentare quei molti fan che aspettavano con impazienza
Act IV, come per saziare il lungo periodo di attesa, proponendo la bellezza di quasi 75 minuti di musica nei quali Crescenzo non risparmia nulla.
Per capire quale impostazione ha dato Crescenzo a
Act IV: Rebirth in Reprise si potrebbe fare riferimento ad un suo vecchio tweet lanciato a maggio nel quale bramava la stessa maestria di scrittura di Jeff Lynne, meglio noto come il leader degli Electric Light Orchestra. Bene, se conoscete un po' gli Electric Light Orchestra forse saprete che non furono dei campioni di sobrietà - portabandiera di un baroque pop inclusivo di orchestrazioni melense e ritornelli a presa rapida che si sposavano con sintetizzatori e cori alla Queen - , i cui tardi lavori fecero proseliti anche in ambito discomusic.
Ciò che ha fatto Crescenzo è di catalogare le melodie più operistiche dei primi tre atti, confrontarle con il cantautorato barocco "post Acts" e immergerle in un calderone di melassa, caramello e glucosio.
Insomma, dopo aver provato le potenzialità di un'orchestra, Crescenzo ci deve aver preso gusto e ha incorporato in queste 15 tracce quello che non ha potuto sfogare su
Migrant. Tre canzoni come
Wave,
The Line e
Wait sembrano, ad esempio, maggiormente legate all'ultimo periodo dei The Dear Hunter, più "semplicistico", che non alle meccaniche convulse degli
Act.
Altrimenti
Act IV è un concentrato di melodie, non necessariamente memorabili, nelle quali non vi è un angolo in cui non brillino strumenti orchestrali: ogni piccolo spazio o anfratto dell'album è occupato da polifonie vocali, archi che sfregano corde, fiati che soffiano negli ottoni e nei legni. Con l'ausilio dei ragazzi della Awesöme Orchestra, i The Dear Hunter proseguono il cammino della saga mai arrivata ad apparire così sinfonica e sovraprodotta. Ai due estremi dell'ispirazione troviamo le riuscite
The Old Haunt e
The Squeaky Wheel, quando invece dall'altra parte
At the End of the Earth e
Is There Anybody Here? appaiono come lavori manierati e monocordi.
Crescenzo, come Jeff Lynne, vuole giocare a trovare melodie perfette, perfino cimentandosi in ritmiche dance da "febbre del sabato sera" come in quello che sarà sicuramente riconosciuto come il pezzo più controverso dell'album:
King of Swords (Reversed). Comunque, se ascoltate con attenzione i primi tre
Act,
ci potete trovare già la perizia di arrangiatore di Crescenzo. Già all'epoca immaginava una musica grandiosa all'altezza della sua epopea, ma lo faceva con i mezzi che aveva a disposizione: chitarre, tastiere e cori. Su
Act IV, Crescenzo fa la stessa cosa, solo che la fa più in grande, con stratagemmi più fastosi e accattivanti, senza tralasciare quei piccoli indizi o citazioni, sotto forma di temi musicali ricorrenti, che riportano direttamente ai capitoli passati.
I The Dear Hunter ad ogni modo non si ripetono, danno piuttosto una nuova impostazione alla musica, in maniera che ogni capitolo abbia una propria identità:
Act I era una prova generale per
Act II che scavava nella tradizione musicale americana con la scusa del prog rock, mentre
Act III era il più teatrale e sposava il music hall di derivazione novecentesca.
Act IV è tutto questo e ancora di più. Il chamber pop e l'opera sinfonica si intrecciano in modo interessante su
Rebirth e
Remebered, fino ad amalgamarsi in modo sontuoso nella mini suite
A Night in the Town. Temi da big band e soundtrack da film esplodono qua e là come se suonare rock fosse ormai l'ultima preoccupazione della band. Le nuove tre parti della
Bitter Suite si dipanano in sequenze da operetta e dixieland e
If All Goes Well è un rock da musical che aumenta in pomposità e intrecci vocali.
Act IV trova la sua forza e la sua debolezza proprio in questa strenua ricerca della melodia: se da una parte è ricco e debordante (per certi versi anche gratificante) nelle arie da opera rock, dall'altra viene schiacciato da tanta fastosità arrangiativa, sfiorando la stucchevolezza.