domenica 28 agosto 2022

Daniel Rossen - You Beleng There (2022)

Considerando il suo passato come membro dei Grizzly Bear, il primo album da solista di Daniel Rossen ne costituisce non tanto una continuazione declinata su larga scala, ma un esatto step successivo speculare, rivolto ad una visione ampliata del concetto chamber folk. Se nei migliori lavori del suo gruppo di origine si percepiva un attaccamento al retaggio della tradizione americana rivisitata in chiave indie rock hipster del nuovo millennio - un po' in continuità con quanto fatto dal Sufjan Stevens del periodo Illinois o dal carattere rurale dei Fleet Foxes -, You Beleng There si presenta invece come un complesso e tortuoso viaggio nella ricerca di elevare la canzone folk-tradizionale al livello di una suite da camera. Ad esempio Keeper and Kin è uno spazioso viaggio nei meandri acustici prog dei Genesis abbinati alle suggestioni psichedeliche della band di Robin Pecknold, però l'album si spinge ancora oltre.  

Rossen qui si trasforma in un esecutore di musiche da un lato con un'intenzione ad ampio respiro e dall'altro con un'ispirazione raccolta e meditativa, centrando quel crossover tra folk, pop e prog che negli ultimi tempi è stata battuta anche da Joanna Newsom, Ryley Walker e da alcuni lavori di Jim O'Rourke, il riferimento a quest'ultimo in particolare lo si può percepire su It's a Passage. Rossen si certifica, in special modo su questo album, il chitarrista classico col proprio stile che è sempre stato, ma in questo caso il suo virtuosismo è ancora più funzionale e messo al servizio della musica barocca da lui vagheggiata. Quando entra in scena il personale arpeggio sbilenco e asimmetrico che punteggia l'accompagnamento, Rossen si muove quasi in modo slegato dal tempo, riflettendo parallelamente anche il dipanarsi libero di alcuni brani maggiormente impostati sul sinfonico (come la title-track, Celia Tangle) facendoli passare attraverso un trattamento free form che in questo campo era prerogativa del Tim Buckley più sperimentale.   

In pezzi come Shadow in the Frame, Unpeopled Space e I'll Wait for Your Visit utilizza i linguaggi acustici di prog, jazz e classica e ammanta tutto con una ricca e variegata strumentazione orchestrale, per lo più suonata da lui in prima persona (oltre a chitarra troviamo fiati, piano, contrabbasso, violoncello, synth) coadiuvato solo dal batterista Christopher Bear, ricavandone dei mini concerti in continua evoluzione. E' ovvio che il ruolo di primaria importanza rivestito dall'arrangiamento lussureggiante è l'essenza stessa dell'album, aumentando quel senso di dinamica multi-tematica che permea lo sviluppo dei brani. Proprio per questo You Beleng There non è un album immediato e di facile assimilazione in alcuni punti, però nel suo insieme possiede un fascino degno di quelle opere intellettuali e sperimentali che ad ogni ascolto regalano sorprese e senso di appagamento.


sabato 27 agosto 2022

Notes from the Edge of the Week #6


  • Se è vero che non è facile provare a rinnovarsi ad ogni album (oltre che impossibile senza correre dei rischi), è altrettanto plausibile che il fatto di mantenersi costantemente sulla stessa linea stilistica evitando di cadere nella trappola della monotonia e della stanca ripetizione non è certo un'impresa da sottovalutare. John Mitchell sembra non temere tale sfida ed è maestro in questo: dai Kino agli It Bites fino ad arrivare a tutti gli album dei Lonely Robot, compreso il presente A Model Life, è riuscito a creare una propria comfort zone che si estende alle aspettative ripagate da noi ascoltatori, tra le cui peculiarità spiccano un sound distinguibile e un caratteristico metodo compositivo. La grande competenza ed esperienza in campo musicale di Mitchell è parte integrante di una costante qualità che è rimasta invariata ad ogni lavoro. Il suo è un progressive pop ad alto tasso emotivo, sapientemente dosato tra elettronica, assoli memorabili e un gran senso per le progressioni melodiche. Uno dei pochissimi casi in cui la prevedibilità non è un'accezione negativa, confermando che anche in A Model Life sono contenute ottime canzoni e una performance strumentale sempre di gran livello.      


  • Rimanendo in tema di mantenersi sugli stessi standard, il supergruppo prog hardcore Royal Coda, formato da Kurt Travis (A Lot Like Birds, Gold Necklace), Will Swan (Dance Gavin Dance), Sergio Medina (Stola, Sianvar, Edicola) e Joseph Arrington (A Lot Like Birds, Sianvar), è arrivato al terzo album con To Only A Few At First senza grandi rivoluzioni sonore rispetto ai due predecessori. Si tratta di un altro manifesto swancore nella media che mostra la parte più diretta e accessibile di questo sottogenere. Il livello rimane altalenante con alcuni pezzi effettivamente riusciti ed altri dimenticabili. Sempre nella medesima categoria i Sianvar erano ben altra cosa.


  • Gli England sono un misconosciuto gruppo prog inglese attivo per un breve periodo alla fine degli anni 70. Il tastierista Robert Webb resuscitò la sigla nel 2006 per alcuni concerti in Giappone e questo live album appena pubblicato ne è la testimonianza postuma. Come album dal vivo la resa dei pezzi e la registrazione sono ottimi, ma vale la pena segnalarlo e prenderne a pretesto l'uscita per ricordare l'esistenza degli England, sicuramente una band meritevole di essere scoperta da ogni amante del prog classico in quanto il loro album Garden Shed (1977) è da considerarsi una vera perla dimenticata e assolutamente da conoscere, un'intelligente e creativa rivisitazione dei migliori spunti sonori mutuati da Yes e Genesis, ma pure un tocco del prog americano di Kansas e Todd Rundgren. 

  • Sun's Signature è la sigla che sancisce il ritorno sulle scene di Elizabeth Frazer, indimenticata cantante dei Cocteau Twins, che insieme al compagno Damon Reece (dei Massive Attack) firmano un EP omonimo di dream pop soave e delicato. La curiosità che arricchisce il sound di echi prog è la presenza in tre brani su cinque di Steve Hackett, un ospite che i due hanno contattato e voluto in quanto entrambi affascinati dal suono della sua chitarra su The Lamb Lies Down on Broadway. In particolare il brano Apples richiama le magiche suggestioni di A Trick of the Tail.

sabato 13 agosto 2022

Hakanai - Decreation (2022)


Fino a che punto si può spingere un genere per essere considerato indefinito? Quando oscilli tra due o tre stili, in base a cosa stabilisci un'ipotetica frontiera sulla quale uno di essi abbia più prominenza rispetto all'altro? Queste sono solo un paio di domande che l'album d'esordio degli Hakanai potrebbe far emergere. Nati come un progetto del polistrumentista Matt Lombardi, hanno esordito nel 2017 con un omonimo EP acustico, proseguendo negli anni con qualche singolo e una line-up molto instabile, che solo ultimamente si è ricomposta permettendo la realizzazione di Decreation, un gigantesco doppio album che spazia e approfondisce il sound del gruppo. Partiti con un math rock da camera, minimale e malinconico, Decreation è il culmine di tale percorso espandendosi a dettami emo, prog, post rock e ambient, tutti elementi che più o meno potevano essere rintracciati nel loro passato artistico, ma che finora non erano maturati al punto giusto.

Questo doppio album, per la sua stessa mole e per quella dei brani che lo compongono, ha dato modo a Lombardi e soci di sbizzarrirsi nel creare un'opera di confine suggestiva e ambiziosa. Lo stesso Lombardi, conscio della trasversalità degli Hakanai, ha avuto modo di dichiarare in passato: "Il suono degli Hakanai è sempre stato compreso in questa strana regione subordinata, apparentemente troppo irregolare o abrasivo per la scena indie tradizionale, non abbastanza meditabondo e riverberato per il post-rock, ma neanche abbastanza tecnico o disinvolto per la scena prog."

Il caratteristico modo di comporre di Lombardi, basato su arpeggi reiterati che ricordano la metodologia del minimalismo è ben spiegato da Devotion, un collage di 14 minuti che unisce differenti movimenti, ognuno sviluppato attorno ad una cellula di arpeggio chitarristico. Pur contando su tale costruzione, il tutto rimanda ad un lungo flusso di coscienza dove l'atmosfera crepuscolare e nebulosa contribuisce a conferirgli un'aura di opaca psichedelia. Nell'altro tour de force dell'album, Carousels (ancora quasi 14 minuti), si manifesta invece un gioco di complessi quiet/loud più vicino al post hardcore e in possesso di una struttura maggiormente fluida.

Ma questi due brani, pur nella loro notevole estensione temporale, intaccano solo la superficie di un album che vive di tracce dilatate, le quali si dispiegano nella terra di mezzo di un post rock da camera, brumosa e depressiva, che ha sussulti tanto malinconici quanto latenti nella loro tensione aggressiva. Da questo scontro di forze emotive scaturiscono pezzi come Gulistān (The Rose Garden), Abendrot e We Will Dismantle Death, altri peregrinaggi math rock sulla soglia dello sperimentale, intervallati poi da brevi quadretti elettroacustici di post rock orchestral-minimale che danno un senso di continuità tra un brano e l'altro. Decreation appare così un monumentale viaggio omogeneo immerso dentro una dimensione introversa ma solo in apparenza fragile, capace di slanci solenni e passionali, servendosi di richiami jazz e prog come su Astræa / Innocence The Amphitheater, anche se queste influenze rimangono sempre sullo sfondo però perfettamente presenti ed integrate al sound.

Come prima testimonianza sulle capacità d'impasto stilistico degli Hakanai Decreation è un'opera affascinante e profonda, che nella costruzione dei suoi paesaggi sonori non nasconde velleità nei confronti di una musica colta, ad ampio respiro, che ambirebbe ad uno status di classica moderna. In ogni modo è un bell'affresco su quanto ancora può spingersi in avanti la contaminazione tra generi, provando quanto la versatilità del progressive non sia relegabile sempre e solo alla sfera del revival neo sinfonico o all'ambito metal.

 

martedì 2 agosto 2022

Extra Life - Secular Works, Vol. 2 (2022)



Mai dare per scontato che un capitolo chiuso del tuo passato torni a rivelarsi nel presente con nuovo vigore e rinnovata forma. Dieci anni fa il chitarrista Charlie Looker, apprezzato compositore d'avanguardia che ha spaziato dal metal al jazz, aveva abbandonato il suo progetto musicale Extra Life, incentrato su un oscuro math rock avant-garde imbevuto di suggestioni medievali, per dedicarsi al metal sperimentale dei Psalm Zero. Poi è successo che durante il lockdown Looker, lavorando su alcune nuove composizioni, non era pienamente convinto che il loro stile si adattasse alla sua recente direzione musicale, ma gli sembravano molto in linea con quanto fatto dagli Extra Life. E' stato così che Secular Works, Vol. 2 è venuto alla luce in modo del tutto inaspettato, collegandosi con il titolo direttamente al primo album del gruppo pubblicato nel 2008 come a riprendere un legame spezzato e adattarlo ai tempi contemporanei.

La sorpresa è stata maggiore all'annuncio della nuova line-up che, accanto al sodale Caley Monahon-Ward alla viola e al violino, si sono aggiunti Toby Driver al basso e Gil Chevigné alla batteria. Un connubio che più azzeccato non si potrebbe visto che il primo ha viaggiato (e viaggia) a latitudini molto simili a quelle di Looker con Kayo Dot e maudlin of the Well, mentre il secondo proviene dalla band belga Helium Horse Fly, anch'essa vicina alla linea poetica gotico-progressive di Looker. Se questi nomi non bastassero si potrebbero aggiungere alla lista gruppi unici e non convenzionali come Time of Orchids, 5uu's e Voice Coils, giusto per farsi un'idea per capire meglio da che parti siamo.

Looker deve aver fatto tesoro di tutte le sue esperienze in questi dieci anni, poiché Secular Works, Vol. 2 non solo prosegue con coerenza il percorso degli Extra Life, ma gli infonde una potenza e una vitalità finora sepolte sotto la superficie degli strati di filologia medioevale e dalla veste dark elegiaco-sperimentale. Non che questo album sacrifichi tali elementi in favore di una maggiore intelligibilità, però le composizioni vibrano di una complessità che ribolle in un continuo e convulso groviglio di poliritmie dinamicamente incontrollabili e trame strumentali che si ispessiscono progressivamente in intricate consonanze/dissonanze, il cui confine armonico rimane labile e sottile. Il peculiare cantato di Looker accentua tale sensazione adottando, come consuetudine per questo progetto, un'impostazione da melisma gregoriano, un'epoca dove ancora i saliscendi vocali erano indicati non dalle note ma dai neumi. Anche se Looker non esagera da questo punto di vista, è forse la caratteristica che crea il legame più accentuato con la musica medioevale, che si riverbera e si collega nel possente tessuto strumentale, facendone risaltare le suggestioni da musica antica.

In realtà però le tracce di Secular Works, Vol. 2 sono un perfetto crocevia di tradizione riletta e adattata al presente, utilizzando la stessa veemenza dei Tool e l'accademico math rock dei King Crimson spinto all'eccesso. In luce di tali caratteristiche non ci troviamo di fronte ad un album metal, forse l'approccio al materiale denota un'attitudine simile, ma la resa è assolutamente una sovrapposizione di più generi. La spettacolare What is Carved, che si dipana spedita tra il tribale e il solenne, pone l'accento sulle sfumature percussive, per la quantità di timbriche utilizzate e per cellule ritmiche che creano deviazioni e sorprese, mentre sostengono un tappeto melodico futuristico-mediorientale. Anche Coming Apart trattiene la stessa aura solenne, ma questa volta è come fosse un rito ecclesiastico che diviene sempre più mistico e psichedelico. Per la sua cadenza lenta ma inesorabile sembra di assistere all'esoterica trilogia finale di Lateralus, ma con una presa di coscienza corale e una visione meno ermetica e più maestosa. The Play of Tooth and Claw si apre alla parte acustica dell'album come una ballata quasi allegra per il suo ritmo sostenuto, di contro We Are Not the Same prosegue sulla scia acustica ma con un arpeggio malinconico e dai connotati da canto antico.

What's Been Lost è il momento più aderente ai dettami da ars nova, a metà strada tra un inno e un lamento per sola voce, prende forma come gli esperimenti a cavallo tra le ere dei Gentle Giant, senza però indulgere in virtuosismi. La fanfara che apre Diagonal Power funge da esposizione introduttiva e pretesto per una sua sfaccettata rielaborazione che si perpetua in cunicoli di complesse varianti fino all'ossessiva coda finale. Già in questo brano, che è l'unico scelto per essere ascoltato in streaming, si assapora tutta la tensione del gruppo che pervade l'album nella sua interezza: l'indomabile tribalismo della batteria di Chevigné e il basso distorto di Driver che pulsa massicce note gotiche primordiali. How to Die con la sua desolante bellezza non potrebbe chiudere meglio il lavoro, sostenuta solo da un ammaliante arpeggio acustico e la voce di Looker che spesso rimane solitaria per aumentare l'effetto drammatico, si trasforma nella parte conclusiva in un mottetto alla Palestrina. Secular Works, Vol. 2 risuona così come un riuscito esperimento di post rock e avant-prog calato in atmosfere di tradizioni ancestrali, plumbee e alchemiche, rinvigorite dagli spasmi violenti e geometrici del math rock. 

Uno dei motivi che ha spinto Looker alla decisione di una reunion degli Extra Life è stato sapere che finora in molti ritenevano il lavoro migliore della sua ventennale carriera il primo album Secular Works. Quindi come una sfida si è detto "perché non provare a superarlo sullo stesso piano?" Beh, con una mossa inaspettata e per nulla scontata c'è sicuramente riuscito.