sabato 25 settembre 2021

Sleep Token - This Place Will Become Your Tomb (2021)


Ormai il nome Sleep Token non ha più bisogno di presentazioni, il gruppo capitanato dal misterioso frontman Vessel è passato da un seguito di culto all'interno del genere prog metal, a divenire una band trasversale che è stata capace di allargare la propria platea grazie ad un crossover tra electro pop sofisticato e djent sempre utilizzato con parsimonia ma con un'attitudine molto incisiva, tanto da poter reclamare un sound riconoscibile. E parlando di "culto", anche il concept devozionale costruito con cura, tra il mistico e il religioso, dietro alla band inglese è stato più volte ricordato, soprattutto in occasione del primo album Sundowning

Sempre in linea con la loro filosofia pagano-gotico-depressiva, il secondo sforzo discografico degli Sleep Token prende il titolo molto esplicito di This Place Will Become Your Tomb. Anche Vessel, nel suo espressivo cantato tragico e tormentato, pare quasi un esponente mancato dell'emo invece che un malcelato seguace del pop elettronico. Se infatti Sundowning si ergeva ad un ibrido riuscito di art rock con tendenze metal e djent, This Place Will Become Your Tomb, pur facendo uso di questi tratti, mostra tutto il potenziale melodico, accattivante e "radio friendly" (per così dire) di cui è capace il gruppo. Il metal ancora sopravvive nei brani dell'album, ma è quasi soffocato da una netta sterzata su parametri pop rock manierato come in Mine e Like That, oppure nei beat elettronici di Descending.

La dichiarazione di intenti è in qualche modo svelata dalla traccia di apertura Atlantic e da quella di chiusura Missing Limbs, che si attestano come le due più pacate meditazioni sonore uscite finora dalla penna degli Sleep Token, rigorosamente interpretate con strumenti acustici - la prima col piano e la seconda con la chitarra - per imprimere un pathos da ballata romantica. In fondo gli Sleep Token sono questo: dei cantori di amore doloroso e fatalista, dove l'estetica melodrammatica di This Place Will Become Your Tomb è perfettamente in linea e continuità con tale tematica che si corona su The Love You Want, forse il più efficace condensato della direzione di questo lavoro.

Il gioco di costruire le composizioni attorno ad un crescendo emotivo si ripete di nuovo come in passato, ma stavolta molto spesso si riflette sul rendere interessante solo l'ultima parte delle canzoni, come se tutto ciò che è venuto prima fosse stato edificato unicamente in funzione di quel momento dove la tensione viene liberata. Distraction riflette un po' tale pratica, un pezzo poco interessante se non nell'ultimo minuto.

Una presenza molto più pervasiva e persistente è quella del batterista, il quale forse deve aver letto gli apprezzamenti su YouTube riguardo alle sue evoluzioni nelle esibizioni dal vivo, dando sfogo ad ogni suo incontenibile vezzo virtuoso, riportando una performance tra il grandioso e l'ingombrante. E tutto questo nonostante il prog e i vari breakdown siano quasi totalmente assenti, rendendo l'insieme meno articolato con il risultato di canzoni che arrivano troppo presto a svelare la loro forma ed essenza e per questo forse non destinate a reggere l'interesse dei molteplici ascolti. 

Sull'accentuarsi della intrinseca natura pop rock che aleggia sull'album vi è pure il fattore che alcuni pezzi come Hypnosis, Telomeres e High Water avrebbero giovato di una durata più contenuta (pur non sforando più di tanto i cinque minuti). Gli Sleep Token possono benissimo permettersi di dilungarsi di meno per ciò che hanno da dire, altrimenti si rischia un generale calo di attenzione. Comunque va sottolineato in modo positivo come la band non abbia ripetuto pedissequamente la formula del primo album, anche se ciò ha voluto dire sacrificare certi aspetti estetici in favore di altri. Difficile immaginare cosa potranno inventarsi ancora dopo This Place Will Become Your Tomb, dato che ha le sembianze di un lavoro di transizione, sperando che veramente esso non diventi, parafrasando il titolo, la tomba degli Sleep Token.

mercoledì 22 settembre 2021

Ventifacts - Ventifacts (2021)

Il progetto Ventifacts, del quale viene pubblicato oggi il primo omonimo album, è il risultato dell'unione delle due principali menti delle band The Mercury Tree e Jack O’ The Clock, annoverati tra i gruppi d'avanguardia prog più originali e senza compromessi del panorama attuale. Gli autori sono Ben Spees e Damon Waitkus, questa volta impegnati su un versante acustico non convenzionale, utilizzando cioè strumenti con accordatura microtonale (che poi è anche la recente direzione che hanno intrapreso i The Mercury Tree) per creare qualcosa di unico, fuori dagli schemi e lontano dalla percezione comune della musica "armonica".

Qui di seguito la presentazione:

"Ventifacts is a songwriting collaboration between two inveterate bandleaders from the West Coast art rock scene, Ben Spees of the xenharmonic trio The Mercury Tree and Damon Waitkus of the avant-folk quintet Jack O’ The Clock. The project grew out of a mutual admiration and a burning curiosity about what a fusion of these two projects’ equally distinctive but quite disparate styles could possibly sound like. 

Like The Mercury Tree, Ventifacts makes extensive use of microtonal instruments and tunings, creating colorful, deeply layered recordings that employ a wide range of instruments both familiar and strange, and feature guest appearances by members of both parent bands. At heart, this is a deeply emotional music, devoted to melody, narrative, and the thrill of the unexpected. Under the pandemic’s hothouse conditions, Ben and Damon have been feverishly pinging recordings back and forth between Oregon and Vermont for two years, and this weirdly joyous album is what came out of it."

domenica 19 settembre 2021

The Mask Of The Phantasm - New Axial Age (2021)


Ha avuto una lunga gestazione questo album d'esordio dei The Mask of the Phantasm, che in realtà nasce come progetto musicale del chitarrista Omar Ghaznavi, autore di tutto il materiale. Scrivere New Axial Age è stato per Ghaznavi come un mezzo per esorcizzare i proprio demoni, oltre che un processo di guarigione e l'atmosfera generale del lavoro, cupa e melodrammatica, ne riflette gli intenti. Come grande fan dei The Mars Volta, Ghaznavi è riuscito a coinvolgere nella band i due ex componenti Thomas Pridgen (batteria) e Adrian Terrazas Gonzales (fiati), completando la formazione con Nicholas Greer alle tastiere e Alexa Joan Rae alla voce.

Proprio come le tematiche raccontate negli album dei The Mars Volta, anche il concept dietro New Axial Age prende le mosse da un evento drammatico e personale per Ghaznavi, ovvero la perdita del padre nel 2011, rimasto ucciso in un tentativo di rapina ad Austin, Texas, città natale del chitarrista. Descrivendo i suoi intenti e le sensazioni da condividere, Ghaznavi ha lasciato il compito della stesura dei testi ad Alexa Joan Rae, la quale dà vita e voce al dramma interno del chitarrista con un'interpretazione potente ed intensa, oltre che sposarsi benissimo all'impianto strumentale quasi gotico.

Ma al di là delle sensazioni oppressive che può generare il tono improntato dagli strumenti, New Axial Age è fondamentalmente un'opera di progressive rock e art rock intellettuale, che si posiziona nel panorama moderno in mezzo a The Mars Volta e Bent Knee, costruita su strati post punk, fusion e sperimentali, nelle cui trame si possono trovare vari umori inclusi tra la catarsi, l'ansia e la cruda intensità dei sentimenti. Tutto ciò mutuato da una democratica suddivisione delle parti giocate dai vari musicisti, in quanto ognuno è essenziale nel forgiare l'aspetto caratteristico dell'insieme sonoro da decadentismo cosmico.

Ghaznavi infatti, a dispetto del suo strumento, non pone mai nei brani la chitarra in primo piano come guida principale, ma preferisce lasciare spazio a tutto l'ensemble, in modo da consolidare un imponente e solido edificio sonico che possa impattare con i nostri sensi, come succede nella maestosa apertura di Red/Blue/Black/White (dove nell'intro il sample del dialogo finale tratto dal film "A 30 Secondi dalla Fine" prepara a dovere il carico drammatico dell'opera). La chitarra, inoltre, molto spesso non segue i naturali e ortodossi registri elettrici, ma è effettata e filtrata da inquietanti e sinistri timbri come su Exit Wounds. In coerenza con tale processo, le tastiere sono chiamate a produrre suoni sintetizzati industriali o invasivi che si sposano con il sax di Terrazas Gonzales. 

Pridgen ovviamente rimane una macchina da guerra nel dare dinamica e vitalità ritmica a ballate elegiache (Final Night at the Duplex, Last Call, For Anxiety), solenni trenodie che sfociano in un caos di droni, tastiere e sax (Escape from Wide Land) e soul post hardcore (Like a Wraith). Ghaznavi è l'ennesima prova che il destino dell'artista sofferente e tormentato è quello di possedere qualcosa di pregnante da raccontare e raccontarlo attraverso a un'ispirazione che produce opere degne di nota come questo primo album dei The Mask Of The Phantasm.

https://www.themaskof.com/

venerdì 17 settembre 2021

Eidola - The Architect (2021)


Quando fu pubblicato Degeneraterra, secondo album in studio degli Eidola, la band di Salt Lake City era appena entrata a far parte della scuderia dell'etichetta Blue Swan Records, fondata dal chitarrista Will Swan dei Dance Gavin Dance. Quell'album rimane a tutt'oggi un punto di riferimento per chiunque si voglia avvicinare o voglia comprendere meglio le caratteristiche dello swancore, ovvero un sottogenere che fonde le articolate strutture del progressive rock con soluzioni mathcore e post hardcore non convenzionali, facendo uso ben distinto tra parti harsh vocals e clean vocals. C'è da sottolineare che Degeneraterra si concentrava più sull'aspetto sperimentale e melodico del genere, mentre il successivo To Speak, To Listen (2017) si evolveva con una attenuazione della componente progressive in favore di una più marcata estetica post hardcore. In questo modo però la scrittura mancava di quella reale concretezza prog che poteva dare tutto il tempo al brano di crescere e svilupparsi su vari livelli.

Per arrivare a The Architect ci sono voluti un po' di anni. L'album era pronto ad uscire nei primi mesi del 2020, ma il nuovo contratto con la Rise Records e il sorgere della pandemia lo ha ritardato fino ad oggi. Tutto ciò è stato inoltre contornato da un'attesa da parte dei fan che l'etichetta stessa non si è risparmiata di gonfiare e sfruttare. Oltre alla collaborazione con la Rise Records The Architect segna anche l'esordio della band con il nuovo apporto del chitarrista Sergio Medina, già con Stolas e Sianvar, che dal 2018 ha sostituito il dimissionario Brandon Bascom. Detto ciò, possiamo rilevare senza dubbio che The Architect prosegue sulla linea impostata da To Speak, To Listen, ed è un'opera che si inserisce in perfetta continuità con lo spirito e gli stilemi dello swancore, a volte addirittura tornando agli albori del prog hardcore del primo decennio di questo secolo, ad esempio quando su Caustic Prayer pare di ascoltare le evoluzioni dei Closure in Moscow.

Gli Eidola ribadiscono con convinzione il percorso intrapreso col precedente lavoro, intensificando i passaggi hardcore e le harsh vocals, non a caso compare come ospite nel brano Mutual Fear Jon Mess dei Dance Gavin Dance. Ma in questa progressione, che si distacca quasi definitivamente dalla filosofia sonora di Degeneraterra, emerge un aspetto alquanto chiaro di quali possano essere i limiti di tale direzione. Si profila cioè una profonda spaccatura tra quello che è l'impianto strumentale e quello vocale. Nel primo caso il gruppo dimostra una innegabile abilità nel creare interessantissime trame e architetture soniche stratificate, imprevedibili nei loro repentini cambi ritmici e tematici, mostrando in questo versante una crescita esecutiva non comune in ambito post hardcore. 

Dall'altra parte a risentire di una certa monotonia è proprio l'aggiunta delle linee vocali, che siano clean o harsh, e ciò accade al di là delle qualità canore di Andrew Wells che non sono messe in dubbio. Il peccato ricade piuttosto nella carenza di trovare parti memorabili, che si distinguano in qualche modo o che lascino il segno. Le melodie non risultano mai incisive o particolarmente ispirate e tutto va a ricadere in una uniforme e lineare nebulosa interpretazione che si riflette nella realizzazione e arrangiamento delle parti vocali, oltre che ricadere in parte anche sulla valorizzazione della brillante prova dei musicisti. Insomma, se eravate degli estimatori della ricchezza d'ispirazione di Degeneraterra, The Architect non pare essere destinato a replicare quella sensazione.

domenica 12 settembre 2021

Johari - Yūrei (2021)


Dopo una serie di sfortunati eventi che ne hanno rimandato l'uscita (una causa per un artwork non autorizzato, un inspiegabile blocco del materiale audio nelle piattaforme streaming), il terzo album in studio del trio prog metal Johari - formato da Connor Hill (voce, tastiere), Gabriel Castro (chitarra) e Corey Sturgill (batteria) - ha visto finalmente la luce.

Yūrei arriva a quattro anni di distanza da Terra e, nonostante i primi singoli resi noti tratti dall'album facessero intuire un cambio di direzione verso territori djent esenti da estremismi metalcore, l'intero lavoro è un po' più strutturato di così. In particolare colpisce il divario presente in alcuni brani tra una notevole dose di brutalità e ampi spazi riservati a progressioni melodiche e armoniche molto incisive e pronunciate. Il che aumenta ancora di più il distacco sonoro.

Yūrei presenta quindi due aspetti distinti di interpretare il prog metal. Da una parte troviamo brani djent che trattengono la potenza propulsiva dei riff elettrici, ma indirizzati verso il lato atmosferico, stratificato da elementi fusion e rigorosamente con clean vocals come The Answer, Rejuvenate, The Wandering Flame, Eternal, Ichimonji Double e Circles. Per essere più precisi ci troviamo dalle parti di Daniel Tompkins, Aviations, Periphery, Skyharbor e tutta quella schiera di band che non disdegna aperture a passaggi che preservano virtuosismo, melodia e sonorità eteree.

Dall'altra, come a fare da controcanto, con pezzi come Fast & Heavy, le tre parti di Insomnium, The Genesis Tree o Introspect sembra di ascoltare un gruppo diverso. Anche se l'alternanza tra djent e metalcore è sempre presente, le sezioni -core risultano particolarmente pesanti per come harsh vocals, elettronica e groove chitarristici oppressivi si sommano in un insieme ferocemente potente. Tutto sommato Yūrei è un ascolto interessante nel modo in cui i Johari contrappongono e arrangiano sezioni stilistiche dall'approccio così schizofrenico.

sabato 4 settembre 2021

A Kew's Tag - Hephioz (2021)


Per il trio tedesco degli A Kew's Tag arrivare al terzo album in quasi dieci anni di carriera ha significato mettere in campo tutta la propria esperienza ed ambizione. Rimanendo fedeli alla loro peculiare estetica, che li ha visti fin dagli esordi con Double-Check When You Leave (2012) imboccare la strada di un pop rock impostato sulla virtuosa chitarra esclusivamente acustica di Johannes Weik, si sono evoluti in un più ricercato math prog alternativo su Silence of the Sirens (2015), il quale si avvicinava a quei territori hard prog sofisticati battuti da Agent Fresco e 22.

Dopo sei anni di duro lavoro Hephioz affina ancora di più lo stile degli A Kew's Tag, lo sviscera in molteplici direzioni e lo rende accostabile ad una gran varietà di prog alternativo odierno, ma allo stesso tempo si ritaglia uno spazio personale al suo interno. Partendo dalla storia, Hephioz è il nome dell'uccelo dal piumaggio di fuoco protagonista del concept album la cui parabola vuole essere una metafora sulle scelte della vita e sulla sopravvivanza. L'album è suddiviso in capitoli come un vero e proprio libro, mentre il cantante Julian Helms dà voce e vita ai vari personaggi.

L'introduttiva  ... T. R. U. T. H in solo minuto e quaranta alza l'asticella al massimo e questo minimo lasso di tempo ci basta per comprendere quanto siamo distanti dalle latitudini di Silence of the Sirens. I Kew's Tag si abbandonano più che mai all'aggressività del prog metal e lo utilizzano come un'arma di crescita e complessità esecutiva. Non che in passato non avessero dimostarato le loro abilità strumentali e possibilità compositive, ma in questo caso il gruppo si è posto di fronte una sfida ambiziosa dalla quale è uscito vincitore. Le tracce sono sottoposte a imprevedibili salti di atmosfera e cambi di direzioni e ciò aiuta Hephioz nell'essere un'opera variegata e scorrevole, che invita con curiosità l'ascoltatore a scoprire fino a che punto si possono spingere gli A Kew's Tag. Considerando ciò, gli ultimi due pezzi ... To Reveal a Grieving Goddess e Epilogue: The Firebird's Legacy valgono sicuramente il biglietto per la loro messa in atto di innumerevoli svolte e sfumature stilistiche che vanno dal chamber rock al metal più estremo.
 
La potenza sprigionata dalla chitarra di Weik in [Synopsis] o nell'attacco di Calling Nemesis, non ha nulla da invidiare ad una elettrica, dividendosi tra fraseggi e arpeggi veloci e pulitissimi (il che su una acustica non è scontato) e fragorose plettrate. Il termine "acoustic metal" non è assolutamente fuori luogo se si considera come i brani tipo la title-track o The Phi Oziris oscillano coerentemente dalle vette più heavy ad approdi da ballad acustica. Nell'insieme, a tenere saldamente la band a livelli convulsi e propulsivi di ritmica, ci pensa la batteria granitica di Florian Weik. La connessione ritmica tra chitarra e batteria è un altro elemento da non sottovalutare, che aiuta a forgiare un sound compatto e geometricamente preciso. Dopo Silence of the Sirens non mi aspettavo un salto qualitativo così deciso e l'innegabile crescita degli A Kew's Tag con Hephioz li inserisce, da outsider, tra le migliori uscite prog metal del 2021.

venerdì 3 settembre 2021

Altprogcore September discoveries


Pafero è il curioso nome di un trio tedesco che debutterà con l'EP Perspectives il 17 settembre. A giudicare dai due singoli resi noti finora il sound si attesta su un hard prog con venature math rock, ma molto accessibile sulla scia dei conterranei The Intersphere.
 
 
Il polistrumentista Matt Stober, che è anche l'intestatario della sigla In-Dreamview, ultimamente si è trovato coinvolto in più progetti, come il recente Made of Water già segnalato, tutti rigorosamente a carattere strumentale. Questo a suo nome riporta un sound atmosferico, quasi tra jazz e world music.

 

Pilot Waves è appunto un altro progetto che vede impegnato Matt Stober, questa volta in collaborazione con il percussionista Peter Kim. In attesa che a ottobre venga pubblicato il nuovo album degli In-Dreamview, questo EP riporta il lato più fusion e improvvisativo della sua principale creatura musicale.

 

I Modern Color in From the Leaves of Your Garden suonano una sorta di post hardcore-shoegaze che non è lontano dalla concezione trasversale di Biffy Clyro, Press to MECO e Flights.

 

Qui si va nel campo mai coperto da altprogcore delle compilation. Comunque Your Breath Stinks Vol.5 realizzata dall'etichetta Choke Artist va segnalata per due motivi: 1) raccoglie brani inediti di molti artisti presenti tra le pagine di altprogcore come A.M. Overcast, Snooze, Good Game, Bobbing, Invalids e tanti altri; 2) i proventi delle vendite saranno interamente devoluti ad associazioni benefiche.  

 

I Luo sono i polistrumentisti inglesi Josh Trinnaman e Barney Sage che producono una sorta di musica elettronica strumentale con elementi di math rock e ambient che potrebbe piacere ai fan dei Three Trapped Tigers. In passato hanno prodotto già diversa musica e ora si stanno preparando a pubblicare il nuovo Convoluted Mess Machine il prossimo 15 ottobre.  

 
I The Republic Of Wolves è una band che conosco da molto tempo, ma solo ultimamente mi sono messo ad ascoltarli con più attenzione. Il loro post hardcore, con qualche elemento prog ed emo, ricorda un mix tra Brand New e i primi The Dear Hunter. 

 

Con Keepers of the Newborn Green i Ghosts of Jupiter di Nate Wilson (diplomato al conservatorio del New England) sono arrivati al quarto album. Con uno stile molto debitore del folk acustico e psichedelico dagli anni '70 (influenze cha vanno da CSN, Traffic, Pink Floyd ma pure Fleet Foxes e Midlake), alla band non mancano spunti prog vintage e buone jam strumentali.

giovedì 2 settembre 2021

The Osiris Club - The Green Chapel (2021)

La biografia dei The Osisris Club, arrivati al terzo album con questo The Green Chapel, ci parla di un gruppo nato come progetto strumentale con l'intento di ricreare l'atmosfera degli horror anni '70 attraverso l'estetica dell'avant-metal. Ma fin dal primo album Blazing World del 2014 gli Osiris Club si sono trasformati in qualcosa di più profondo. Tenendo come punto fermo l'influenza vintage dell'horror folk inglese, la band formata da Sean Cooper (voce, basso), Simon Oakes (voce, synth), Chris Fullard (chitarra), Andrew Prestidge (batteria, synth, chitarra) e Hanna Petterson (sassofono), ha miscelato doom metal, post punk e avant-garde, cercandogli di dare una forma accessibile e sperimentalmente art pop, per quanto tale descrizione possa risultare fuori controllo.

L'apertura di Phantasm può rappresentare un pertinente esempio dell'attitudine degli Osiris Club: atmosfere apocalittiche che però si fondono con sontuosi e barocchi interventi di Mellotron e sintetizzatori, il cui compito sembra quello di aumentare la tensione minacciosa già instaurata da riff di chitarra metallici e geometrici. Ovviamente, dato che Prestidge e Oakes provengono dai Suns of the Tundra, non mancano ammiccamenti alla psichedelia cosmica e acida mutuata dall'hard rock, ma nella sfera degli Osiris Club tutto viene calato in un alone più sanguigno e ruvido. Le tematiche liriche rispecchiano le influenze già dichiarate: dal folklore medievale fino al sovrannaturale sconosciuto che trattiene in serbo forze oscure. L'intento musicale è quello di creare paesaggi sonori consoni con quanto viene raccontato.

Nelle due parti di The Inmost Light e sulla funkeggiante Count Magnus si confondono l'elegia prog esistenzialista dei Van der Graaf Generator con l'esoterico doom dei Black Sabbath e un tocco di proto prog alla High Tide. Il sax della Patterson, talvolta in concordanza con l'elettricità delle chitarre, è un elemento che viene utilizzato per invocare ancora più pathos e si ritaglia un ruolo di primo piano negli interventi sinistri di Diamonds In The Wishing Well. L'apice espressivo dell'album, neanche a dirlo, è la title-track: una suite divisa in quattro parti dove il gruppo approfitta per approfondire le tematiche e le sonorità presenti nel lavoro, da quelle più massicce (Winter's End) a quelle più delicate e acustiche (Blind Hare and The Pale Lady). Nel suo genere, considerando le innumerevoli varianti sul tema (doom, hard, prog), un disco molto stimolante e ispirato.