lunedì 1 ottobre 2018
Lux Terminus - The Courage to Be (2018)
Il curriculum del tastierista Vikram Shankar comprende un'ampia serie di esperienze musicali che vanno dal jazz al pop fino ad arrivare alla sua occupazione nella band progressive metal Redemption, studente di piano classico per dieci anni al Cleveland Institute of Music e fresco di una laurea in composizione all'Oberlin College and Conservatory. Con tale bagaglio alle spalle dal 2016 Shankar si è dedicato ad un suo progetto personale denominato Lux Terminus condiviso con altri due prestigiosi musicisti: Matthew Kerschner alla batteria e Brian Craft al basso. Il trio ha da poco esordito con The Courage to Be che vede la partecipazione come ospiti di Anneke van Giersbergen (alla voce nell'ultima traccia), del chitarrista Timo Somers (Delian, Vengeance) e di Raphael Weinroth-Browne al violoncello, i quali compaiono nella title-track in brevi interventi solisti.
E' ovvio che, anche se The Courage to Be include altri strumenti, al centro dell'attenzione rimangono il piano e le tastiere di Shankar e non è neanche difficile inquadrare il contesto di progressive rock e fusion nel quale il gruppo si muove. L'alto livello tecnico e i suoni scelti rimandano direttamente all'ultima onda di band strumentali prog jazz come Arch Echo e Nova Collective, abbracciando nel contesto sonoro sia le ouverture muscolari dei Dream Theater versione anni '90, sia le suggestioni cinematiche degli anni '80 delle soundtrack di Vince DiCola.
The Courage to Be ha comunque molto da offrire al suo interno: se Shankar riversa tutta la sua esperienza nella magniloquente suite di ventuno minuti che dà il titolo all'album, dove l'arrangiamento orchestrale possiede lo stesso respiro maestoso e sinfonico degli Earthside, i pezzi di bravura e sfoggio di tecnica incorporano evoluzioni ritmiche dispari costantemente in tensione mutuate dal djent (Electrocommunion, Effusion) o rivisitazioni moderne della prog fusion primigenia di Chick Corea e dei suoi Return to Forever (Miles Away).
Ma non è finita perché c'è inoltre un'altra suite che non appare in un unico blocco temporale, ma la ritroviamo durante lo scorrere dell'album in quattro movimenti slegati e divisi l'uno dall'altro. Musicalmente è molto naturale ricollegare ogni frammento ad uno stato e atmosfera unitari in quanto l'approccio stilistico differisce dalla generale tour de force virtuosistico, rappresentando il lato più melodico e classico del disco, fino alla lirica chiusura dell'unica traccia cantata Epilogue: Fly. Arduo associare questo album ad un'estetica metal come ormai si cercano di incasellare lavori di tale portata. Da quel mondo possono provenire giusto le ritmiche sincopate abbinate ai synth, ma forse se Plini suonasse il piano e non la chitarra sarebbe così che suonerebbe.
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