Poche scene musicali come quella scandinava sono riuscite a trasportare la magia del prog anni ’70 ai giorni nostri, grazie ad un’adesione stilistica al limite del devozionale verso quei dettami “mellotronici”, evocando impressioni tanto vivide quanto nostalgiche, realizzate con rispettosa fedeltà quasi da non far rimpiangere i tempi andati. Se da questo punto di vista alcuni gruppi sono stati sin troppo scrupolosi nel ricreare tali atmosfere, sacrificando paradossalmente la propria originalità, altri hanno fatto tesoro di quella lezione e si sono proiettati nel presente con audacia. È il caso dei norvegesi Seven Impale, provenienti dalla suggestiva città costiera di Bergen, i quali puntano molto su caratteri massicci e tenebrosi, sapendo anche imporre nell’economia sonora ingenti dosi di jazz per bilanciare le scosse telluriche in modo da rendere i passaggi più pesanti alla stregua di un rock psichedelico con sporadiche digressioni metal dai sapori retro.
Non è da sottovalutare il fatto che i Seven Impale siano un nucleo di ragazzi relativamente giovane, forgiati da varie esperienze e progetti musicali, che ha avuto modo di assorbire senza preconcetti elementi progressivi moderni meno ortodossi. E così, se anche per loro è innegabile un riferimento a qualche sonorità del passato, si riconoscono diverse peculiarità che li riconducono con i piedi ben piantati nel presente, escludendo facili ammiccamenti al progressive metal o all'art rock sinfonico. La scelta di andare a sondare strade meno battute – come le cupe asperità tipiche di Van der Graaf Generator e King Crimson che riaffiorano specialmente negli impasti tra chitarra, organo e sax – ha permesso ai Seven Impale di avvicinarsi a quell’estetica di heavy prog che si è evoluta sino a sposare groove di chitarra sincopati e complesse poliritmie provenienti dal math rock, definendo in questo modo una tipologia di metal più cerebrale. Per questo motivo il sestetto si cala benissimo nel panorama odierno del rock progressivo, grazie ad una proposta che cerca di essere lungimirante e originale, che da una parte sembra abbia assimilato con eclettismo l’evolversi della moderna scena avant-garde metal che comprende anche alcuni loro conterranei come Shining e Arcturus e dall'altra non nasconde il proprio legame con il proto hard prog degli anni ’70, rappresentato in particolare da gruppi come Black Widow e High Tide.
Al di là di tentare paragoni, certamente con le coordinate dettate dal primo EP Beginning/Relieve (2013) e dall'album di esordio City of the Sun (2014) i Seven Impale non hanno mai puntano a tali vette estreme, ma si sono stabilizzati su perfette latitudini di progressive nordico dove, a scandire le atmosfere eteree e funeree allo stesso tempo, sono l'organo ribollente e il versatile sassofono. Stian Økland (voce e chitarra), i fratelli Fredrik (batteria) e Benjamin Mekki Widerøe (sassofono), Tormod Fosso (basso), Erlend Vottvik Olsen (chitarra) e Håkon Vinje (tastiere) provengono da studi musicali classici e jazz e, in questi sette anni che ci dividono da Contrappasso (il loro ultimo album risalente al 2016), hanno continuato la propria vita privata perfezionandosi, ad esempio Økland si è diplomato alla Grieg Academy e porta avanti parallelamente una carriera internazionale come cantante d’opera, mentre Vinje si è unito agli Enslaved nel 2017.
Assistiti ancora una volta dal fido produttore Iver Sandøy (Enslaved, Krakòw) si svegliano dal lungo letargo discografico con il terzo lavoro SUMMIT. Ed è una sveglia vibrante e impetuosa, divisa in quattro lunghi ed articolati brani che riassumono la cupa violenza sperimentale di Contrappasso e la dirompente forza jazz psichedelica di City of the Sun. Il passo elegiaco e funereo di HUNTER, unito all'interpretazione vocale melodrammaticamente espressiva di Økland e inframezzato da ribollenti riff heavy di sassofono, non potrà lasciare indifferenti gli estimatori delle gotiche suite di Matthew Parmenter e dei suoi Discipline. La bella introduzione da jazz spaziale di HYDRA lascia posto ad un hard rock dal ritmo spedito, ma che diluisce la sua rocciosità in spezie psych prog create da synth e tastiere e, nel suo cammino di dieci minuti, queste fanno da sottostrato ai cambiamenti jazz stoner che si sviluppano tra solennità e caos apocalittico vandergraffiano.
E proprio l'ombra minacciosa del gruppo di Peter Hammill aleggia sulle frenetiche arie di IKAROS, dove anche l'uso della doppia voce aumenta la percezione psicotica del brano. Gli intermezzi strumentali con sax, chitarra e organo in continua oscillazione tra contrappunti e unisono si fanno aspri e abrasivi, fino al maestosamente opprimente finale. Come da manuale SISYPHUS chiude l'album in modo epico e avventuroso col minutaggio più esteso del lotto: nei suoi 13 minuti alterna furia e quiete con scatti improvvisi e con risultati antitetici: tanto sono melodiose e suggestive le sezioni pacate, quanto tendono a spiazzare con impasti sonori avant-garde e free jazz quelle tumultuose. SUMMIT continua nella tradizione dei suoi due predecessori, forse più centrato e ispirato rispetto a Contrappasso, ma nel complesso non arretra dalla linea di eccellenza tracciata dal gruppo.
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