mercoledì 15 marzo 2023

Enoch Root - Delusion (2023)


L'album di debutto degli Enoch Root Delusion è un concept il cui autore, Reese Ortenberg (chitarrista e bassista), ha scritto in contemporanea ad altri due lavori prodotti come progetto solista realizzati nel 2018, con il nome di Reese Alexander, che prendevano il titolo di The Digression Theory Part 1 e Part 2 (e che vi aggiungo in fondo all'articolo poiché anch'essi meritano attenzione). Abituato quindi a fare tutto in solitaria, per Delusion Ortenberg ha deciso di costituire attorno a sé una band con altri quattro musicisti per dare all'album un'impronta indirizzata su cinque individui che apportano in modo differente la propria personalità strumentale.

Come per i capitoli precedenti della sua discografia, Ortenberg compone dei brani dilatati che non ricercano la suddivisione in parti o capitoli, ma solo un lungo fluire in un susseguirsi di cambiamenti, come se il brano si sviluppasse in molte forme durante la sua durata. Anche se tale caratteristica era più evidente sul progetto solista, gli Enoch Root sono coerenti con i dettami del progressive rock moderno dal quale lo stesso Ortenberg attinge chiaramente senza nascondere le sue influenze (cita Haken, Porcupine Tree, ma soprattutto The Dear Hunter). Delusion è un'opera dove più ci si inoltra al suo interno e più si possono apprezzare le capacità di Ortenberg nel tessere arrangiamenti stratificati e immaginare quale svolta inaspettata possa prendere il brano.

Come un esercito che attende metà della battaglia per sferrare le sue armi più efficaci, Delusion riserva il meglio dopo qualche traccia, ma si apre con una nota malinconica e appena sospirata con l'intro pizzicato per voce e chitarra di The Scavenger per poi dare l'avvio a tutta la band con un pezzo che mantiene le sensazioni delle premesse, continuando sullo stesso giro di accordi ma con un piglio solenne mutuato direttamente dai The Dear Hunter. Il confronto con il gruppo di Casey Crescenzo prosegue con Top of the World, altro pezzo pieno di suggestioni psichedeliche e progressive con qualche innesto di tastiera e vari ricami chitarristici. Lo strumento di Ortenberg è in effetti il protagonista e forse la prima dimostrazione della gamma di declinazioni utilizzate nell'album ce la offre Duplicity, tra sognanti arpeggi elettroacustici in stile Genesis, potenti riff proto-metal e assoli che si sovrappongono in una sorta di chiamata e risposta.

Altra vetrina per tali requisiti sono gli otto minuti di Grey, che arrivano dopo il pregevole tentativo di racchiudere nelle due tracce Domino e Sanctuary tutte le influenze musicali citate da Ortenberg, ovvero il punto dove Delusion raggiunge la sua vetta e dove gli Enoch Root dispiegano al meglio la poetica di un prog hardcore drenato da ogni sorta di svolta aggressiva, concentrandosi invece nell'attenuare con melodrammaticità solenne anche i passaggi più veementi. Nella loro calibrata visione prog gli Enoch Root non sono immuni da influssi pop e art rock, che poi sono l'essenza vitale di quello a cui guardano tutti i migliori autori contemporanei del genere, che si parli di Wilson o che si parli di Crescenzo. Reese Ortenberg per ora cerca di seguire le loro tracce, ma lo fa senza risultare uno stucchevole epigono privo di una propria personalità e gli Enoch Root finiscono direttamente tra i debutti migliori dell'anno.

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