Nel giro di interviste per promuovere Cavalcade il batterista dei black midi Morgan Simpson rivelò come il piano della band fosse fin dagli esordi quello di pubblicare un album all'anno, un progetto che poi è stato ridimensionato dalla pandemia, ma che adesso può proseguire senza ostacoli apparenti. Cavalcade ed il nuovo Hellfire sono infatti stati registrati a stretto contatto, uno dietro l'altro, il che li porta ad essere per certi aspetti simili, per altri differenti: "if Cavalcade was a drama, Hellfire is like an epic action film" ha sentenziato il chitarrista e cantante Geordie Greep. Comunque li si valuti appartengono allo stesso momento creativo e presi insieme fotografano una band molto differente dall'esordio post punk di Schlagenheim. In partica li possiamo considerare i loro Kid A e Amnesiac, facendo tutte le distinzioni del caso, due album divisi ma complementari e chissà se in futuro continueranno così o cambieranno di nuovo.
Quindi, incassata l'approvazione di Bill Bruford (e scusate se è poco), i black midi continuano nella loro fase avant-prog, da una parte approfondendo e amplificando alcuni aspetti di Cavalcade, dall'altra di smorzarne altri. Il primo requisito si riverbera su una maggiore condensazione di idee in quella che può essere vista come un'apertura alla forma-canzone, con il conseguente freno sull'autoindulgenza, soprattutto evidente nella prima parte dell'album (o "lato A" come si diceva una volta). E questa è la premessa del secondo connotato che ci presenta sempre un gruppo teso verso la sperimentazione, ma totalmente assorbito dai propri vezzi e manierismi da istrioni avant-garde e jazz.
Fondamentalmente ciò che i black midi hanno introdotto su Cavalcade con Hellfire prende contorni più chiari e definiti, perché prima offuscato da una vena incline alle divagazioni math prog e noise punk. Su Hellfire si divertono a decostruire il pop swing americano di matrice anni 40-50 e dargli una folle revisione punk jazz per renderlo moderno e fuori controllo. Il ruolo della big band è ancora una volta interpretato dal piano di Seth Evans e dal sax di Kaidi Akinnibi, ma invece che all'armonia e all'accompagnamento il loro compito è destabilizzare e creare dissonanze, mentre il crooner di turno è naturalmente Greep, però più interessato a "parlare cantando" piuttosto che a smussare e addomesticare la propria verve. C'è da ammettere però, per quanto idiosincratico possa apparire tale approccio, che questa volta la sua interpretazione si adatta meglio del solito alle composizioni (ci sono comunque anche due brani cantati dal bassista Cameron Picton).
Probabilmente il compromesso è merito di una maggior consapevolezza acquisita, perché in fondo la materia musicale in cui scavano i black midi non appartiene né al rock né al prog, né al post punk né all'avant-garde, questi sono solo punti di arrivo. Loro partono da pagliacciate da cabaret che spingono la teatralità vocale di Greep a livelli insopportabili (la title-track, che fortunatamente dura giusto il tempo di una breve introduzione), da tessuti strumentali che sembrano il commento sonoro di un cartone animato impazzito, narrato dalla voce di Greep e che assumono i contorni di un tributo ai Cardiacs in chiave jazz (Welcome to Hell) o da frenetici musical sbilenchi spiritualmente zappiani (The Race is About to Begin). L'epitome di tale pratica la palesa subito lo swing infuocato di Sugar/Tzu, uno dei pezzi più incisivi scritti dal gruppo, che non rinuncia a repentine parentesi strumentali isteriche e capace di progressioni jazz estremamente gustose.
Ma non è tutto, perché il tornare a rapportarsi con una tipologia di struttura più omogenea e uno stile meno orientato al caos organizzato della sperimentazione, conduce i black midi ad accentuare la propria inclinazione verso il melodramma espressionista e far affiorare similitudini con la frangia meno estrema del Rock In Opposition. Quando ad esempio ascoltiamo l'attitudine bandistica e teatrale della conclusiva 27 Questions appare più di un parallelismo con quella altrettanto cerebrale degli Henry Cow. E accorgersi di ciò nel finale dell'album è quasi una rivelazione, dato che ci costringe a riconsiderare tutto l'ascolto in una chiave progressiva alternativa. Ci sono dei momenti solenni e inaspettati che vestono deliberatamente le raffinate vesti della tradizione degli chansonnier francesi, raccontando amori e omicidi sotto forma di drammi da camera (Dangerous Liaisons, The Defence) e altri che si rifanno alla patafisica di marca Kevin Ayers con accostamenti surreali di bombardanti ritmiche flamenco e fiati che barriscono (Eat Men Eat). Questi non sono più i black midi figli del noise punk che li ha lanciati in primis generando tanto hype, né quelli dell'avanguardia jazzcore di Cavalcade, ma piuttosto dei nuovi cantori, consapevoli o meno, del Rock In Opposition.
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