I Codeseven hanno rappresentato una delle realtà più anomale del post hardcore degli anni Zero. Praticamente cambiando direzione ad ogni album sono riusciti nell'intento di esplorare la parte più melodica e psichedelica del genere. Rimanendo dentro un limbo elusivo con un progresso stilistico spiazzante ed in continuo sviluppo, di volta in volta i Codeseven sono stati accostati ai compagni di avventura Hopesfall ed in seguito, con il secondo album The Rescue (2002), alla singolarità trasversale e fuori dagli schemi dei Dredg. La band, nonostante il suo riconosciuto apporto all'espansione espressiva del post hardcore, non è riuscita comunque a raggiungere la notorietà di culto dei due gruppi appena citati, a causa di un prematuro capolinea ed un ultimo album, Dancing Echoes/Dead Sounds (2004), che lasciava un senso di irrisolto per la sua natura indecisa nell'equilibrare la trasversalità di fusione tra art rock e hardcore melodico.Dopo una pausa di quasi 20 anni, senza alcun preavviso e in una successione di eventi simile a quella degli Hopesfall, i Codeseven sono tornati in scena con la line-up originale che comprende Jeff Jenkins (voce), James Tuttle (chitarra, tastiere), Eric Weyer (chitarra), Jon Tuttle (basso) e Matt Tuttle (batteria) e un album ispiratissimo che, con tutta probabilità, è il migliore della loro carriera. Go Let It In riprende il discorso dove lo avevamo lasciato con Dancing Echoes/Dead Sounds, ma si fa forte di un gruppo ormai maturo e sicuro dei propri mezzi, trascinandoci di nuovo in una dimensione insolita per il post hardcore e quasi facendo risplendere di luce rinnovata l'ultimo incompreso lavoro del 2004. A dominare in tutte le tracce sono i suoni sintetici delle tastiere che sovrastano le trame chitarristiche, nel creare un'atmosfera sognante ed elettrica, a cavallo tra latente space rock ed energica new wave.
I brani contenuti in Go Let It In vibrano come provenienti da una nebulosa impalpabile di spazi sonori che collidono, talvolta con industrial rock appena accennato (Rough Seas, A Hush... Then a Riot), altre con tracce di prog rock (Suspect) o sfiorano l'anthem da stadium rock (Hold Tight), ma che comunque ricompattano puntualmente con il melodic hardcore. In questo contesto, nel quale si affastellano riverberi da synth rock, anche i brani più carichi di magnetismo elettronico come Laissez-Faire e Starboard si ammantano di un alone onirico senza esclusione di chorus memorabili. I Codeseven sono riusciti ancora una volta a dar vita ad un album senza tempo con il potere di posizionarsi su più confini stilistici, atterrando in una zona franca che non si rivela mai pienamente aderente ad un genere (ad esempio l'allusione al gothic rock nei loop robotici di basso in Fixated ed in quelli ipnotici da synthwave di Mazes and Monsters). Un ritorno di tutto rispetto degno della loro reputazione.
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