venerdì 9 giugno 2017
Bent Knee - Land Animal (2017)
In un mondo dove i tempi tra una pubblicazione discografica e l'altra si dilatano è bello ritrovare i Bent Knee che tornano ad un solo un anno di distanza dall'ultimo lavoro Say So. E proprio durante il tour europeo dell'estate scorsa, passato fortunatamente anche da Milano, il gruppo aveva presentato a sorpresa una buona parte dei brani contenuti su Land Animal, in uscita il 23 giugno per l'etichetta InsideOut. Già, perché c'è anche questa di novità: i Bent Knee hanno lasciato la Cuneiform e sono approdati all'etichetta progressive rock per antonomasia.
I nuovi pezzi suonati dal vivo nella tappa milanese, ad un primo impatto, avevano dato l'impressione di essere ancor più avventurosi e velleitari rispetto al materiale di Say So e adesso ne possiamo testare la bontà su disco. Land Animal appare in superficie come una facciata che attenua le asperità più avant-garde del suo predecessore, ma scavando a fondo si percepisce come il gruppo stia ancora cercando di perfezionare quel giusto equilibrio tra prog rock e pop intellettuale con il costante ricorso a deviazioni dalla normale formula canzone. Ma la peculiarità non è da individuare nella struttura, bensì delle trame degli arrangiamenti. L'esperimento si avvia con Terror Bird, che si preoccupa di creare una tensione di dinamiche tra piano/forte piuttosto che un vera e propria cadenza condivisa da strofa/ritornello. Per poi proseguire tra riff di chitarra obliqui sovrapposti a temi orientali con Hole e quelli funky di Holy Ghost le quali creano un bizzarro mix di rock teatrale, amplificato dai beat di Gavin Wallace-Ailsworth (batteria) e Jessica Kion (basso) che rendono le ritmiche frizzanti rimarcandole come fossero segni d'interpunzione grammaticale insieme alle pennate della chitarra di Ben Levin.
In qualche modo il gruppo si piega alla direzione del violino di Chris Baum, il quale molto spesso viene accompagnato da una sezione di archi nei cui contrappunti si ineriscono anche gli altri strumenti. Direi che se in passato si è giustamente puntato il riflettore sulle doti canore di Courtney Swain, forse mettendo un po' in ombra gli altri membri della band, in questo caso è bene ricordare l'importanza e la coesione che i Bent Knee riescono a creare a livello strumentale. Ad esempio nello spingere un pezzo come Time Deer in varie direzioni stilistiche pur rimanendo nei confini di una forma tradizionale preimpostata inizialmente oppure, di contro, nel lungo fluttuante finale con Boxes, che porta l'album ad un lento spegnimento tra tappeti ambient e i soli colpi della batteria, che ci fa apprezzare il sound design di Vince Welch.
La parte centrale dell'album che comprende il trittico Inside In, These Hands e la title-track è forse la più emozionante di tutto il lavoro, in quanto ci regala un ampio squarcio di umori e sfumature che vanno in crescendo: dalla dimessa calma apparente della prima che si ricollega idealmente delicate note della seconda, per infine sfociare nelle sbilenche e altalenanti pulsazioni intermittenti della terza. C'è una sottile linea che lega questi brani nei quali viene racchiuso l'universo musicale eterogeneo dei Bent Knee, saltando da carezzevoli armonie orchestrali da colonna sonora ai tocchi stravaganti e melodrammatici che convivono in uno stesso pezzo. Ma quello che è veramente rimarchevole, oltre alla stesura, è l'interpretazione fondata sulla sottrazione anziché sull'ostentazione, ma più in generale su impalcature così precarie che basterebbe il minimo errore per far crollare tutto.
www.bentkneemusic.com
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