lunedì 31 luglio 2017
Andromeda Mega Express Orchestra - Vula (2017)
Non capita tutti i giorni di ascoltare una proposta musicale come quella degli Andromeda Mega Express Orchestra, i quali si presentano con un'idea di big band perfettamente bilanciata tra passato e presente. Fondati nel 2006 a Berlino dal direttore Daniel Glatzel, l'orchestra conta diciotto elementi che naturalmente incorporano, oltre a fiati ed archi, anche chitarra, batteria, basso, senza risparmiarsi l'uso dell'elettronica. Infatti, se il punto di partenza lo si può rintracciare nel reame della musica colta, quello di arrivo è qualcosa di talmente contaminato che sarebbe un peccato suggerire questo gruppo solo a chi mastica musica classica.
Anzi, il percorso della AMEO è la prova di una voglia di esplorare altri linguaggi che finora ha prodotto quattro album abbastanza differenti tra loro nella linea sonora. Un'orchestra sui generis capace di cimentarsi con il medesimo impegno in difficoltose partiture di Third Stream post moderna o melodie ironiche e disimpegnate come costituissero un ponte ideale tra Duke Ellington e Frank Zappa. Se il primo album Take Off! (2009) era un divertissement con oscillazioni tra soundtrack esotica anni '50, jazz lounge e muzak, il secondo lavoro, Bum Bum (2012), metteva sul piatto dissonanze aleatorie e manipolazioni meta-musicali (come "spezzatini" di nastri tagliati e riassemblati).
Il nuovo Vula, che arriva dopo Live on Planet Earth (2014), celebra i dieci anni di attività della Andromeda Mega Express Orchestra, rappresenta quasi un sunto antologico e anche di più, arrivando forse ad essere il lavoro maggiormente compiuto e maturo della Mega Orchestra. Per dire, si passa con nonchalance da un estremo all'altro: dalla sontuosa delicatezza di Lakta Mata Ha, alla spregiudicata atonalità di qwetoipntv vjadfklvjieop. In totale, il doppio album è un bellissimo affresco di sonorità retrò e contaminazioni moderne tra rottura delle regole e tradizione, che trovano un parallelo con altri ensemble europei come Jaga Jazzist e Camembert. La costante delle suite di Vula è la schizofrenia e la velocità con le quali vengono divisi e ricomposti temi eterogenei tra loro, ma costantemente tradotti con l'idoma jazz swing delle big band, che sia il rockabilly di In Light of Turmoil o l'andamento funk di J Schleia.
www.andromedameo.com
mercoledì 26 luglio 2017
Visitors - Vortices, A Foreword (2017)
Un anno fa presentai una nuova band math rock/post hardcore di nome Gloe proveniente da Salt Lake City. Il loro frontman, Ian Cooper (voce e chitarra), è da qualche tempo alla guida anche del progetto Visitors insieme a Bryan Lee (batteria), Cameron Jorgensen (basso), Ty Brigman (chitarra) e Ian Hilton (chitarra, synth). Un primo EP del gruppo dal titolo Blueshift fece la sua comparsa nel 2014 ed ora è la volta di Vortices, A Foreword, presentato come un concept del quale esiste anche una graphic novel dal titolo Axis B scritta dallo stesso Cooper insieme ad Alex Cooper. I Visitors ci fanno sapere che l'EP Vortices, A Foreword è solo un preludio di un concept più ampio che proseguirà in un album già pronto per essere pubblicato nel 2018.
I presupposti stilistici dei Visitors sono caratterizzati dall'assimilazione di dettami post hardcore alla Circa Survive e rielaborati in un contesto prog psichedelico sulla scia dei The Mars Volta. A parte la breve intro ambient-gaze di Nonce, la forte componente ritmico elettronica che apre Mutineers ci riporta ai lidi dei The Dear Hunter, ma i Visitors aggiungono aggressività screamo e stratificazioni chitarristiche da post hardcore sperimentale alla Sianvar, i cui contorni prendono forma completa su Revisionist History, fino alla più complessa, melodrammatica e oscura Tempering. Benché i Visitors seguano spazi già battuti da altre band, sembrerebbero dei validi interpreti di questo genere, anche se per esprimersi con più precisione su di loro sarà meglio attendere il prossimo lavoro.
sabato 22 luglio 2017
Sleep Token - Two (2017)
Rivelatasi (si fa per dire) al mondo alla fine dello scorso anno come un'entità misteriosa formata da identità ignote, la band Sleep Token, dopo aver realizzato in modo indipendente un primo EP, ha firmato un contratto con l'etichetta inglese Basick Records che ora dà alle stampe altri tre brani inediti raccolti sull'EP Two. Chi credeva che il fatto di nascondere i nomi dei musicisti coinvolti nel progetto fosse solo una trovata pubblicitaria iniziale per poi essere svelata in seguito è stato smentito. Gli Sleep Token non solo hanno continuato a mantenere l'anonimato, ma si sono prodigati nell'alimentare il mistero che li circonda anche mediante criptiche interviste sinceramente un po' montate ad arte, descrivendosi come un gruppo di persone guidate dalla figura mascherata del cantante/leader Vessel e professando la loro appartenenza al culto di un'antica divinità chiamata Sleep della quale portano il messaggio attraverso il gruppo. Se lasciamo da parte queste pagliacciate e parliamo invece di musica, allora il discorso cambia e gli Sleep Token dimostrano di possedere effettivamente un livello compositivo profondo, esoterico ed emotivo.
Two scava forse ancora più a fondo sulle potenzialità del gruppo e completa un quadro che il primo capitolo di One aveva solo introdotto. In quei primi tre brani era presente un'idea stilistica forte e originale che metteva assieme una visione melodrammatica di canzone d'autore alternative rock arrangiata con i canoni del post rock e con oculati crescendo che sconfinavano in territori metal. Scoprendo le carte immediatamente, il rischio per gli Sleep Token di usurare dei meccanismi ed equilibri atmosferici così delicati era grande, ma Two rilancia gli stessi ingredienti con una sensibilità rinnovata e rafforzata. L'impostazione è nuovamente minimale, ma questa volta con un più ampio spettro sonico: con solo l'ausilio di tastiere a tessere le sfumature, qualche chitarra elettrica nei momenti più concitati e la voce struggente di Vessel, è impressionante il grado emotivo che il gruppo sa trasmettere. Merito di pause, dinamiche e tempi sospesi che aumentano il fascino e la sensazione di essere avvolti in un mondo notturno e gotico come nei contrasti portati in dote da Nazareth (piano elettrico e drum beat soffusi all'inizio e muri elettrici djent nel finale).
Quel senso di religiosità e raccoglimento che il collettivo vuole trasmettere, su Two prolifica sottotraccia grazie a piccoli accorgimenti. Le stratificazioni vocali di Calcutta, in alcuni punti vicini alla preghiera gospel, contrapposte ai bordoni di synth, riportano alla mente Bon Iver e i suoi impalpabili paesaggi sonori, solamente che qui si attende il momento trascendentalmente metal. Jericho ha più i connotati di una ballad post rock, tanto che è l'unica traccia nella quale Vessel accenna a qualche inflessione aggressiva nella propria vocalità. Il merito degli Sleep Token è quello di affrontare il metal negandolo allo stesso tempo. Qui non ci troviamo di fronte alle odierne peregrinazioni djent che flirtano con new age e ambient e neanche di fronte a virtuosismi prog fusion. Gli Sleep Token si sono addentrati in territori nuovi, il che non significa inediti, ma che elevano il metal a pura arte di cui possono fruire tutti. Sbrigatevi a realizzare un album.
venerdì 21 luglio 2017
Wot Gorilla? - Angel Numbers (2017)
Sono passati ben cinque anni da quando i Wot Gorilla? hanno pubblicato il loro primo lavoro Kebnekaise, da allora si sono fatti risentire sporadicamente con qualche singolo fino ad arrivare all'anno scorso con ...and then there were three..., un mini EP di sole due canzoni che, come suggeriva il titolo, certificava oltretutto il cambio di line-up che si riduceva a trio. Ad ogni modo, tutti questi riferimenti ai Genesis non corrispondono assolutamente all'identità musicale dei Wot Gorilla?, tanto più considerando questo nuovo EP Angel Numbers che rispetto al passato devìa su strade ancora più pesanti ed oscure.
Il math rock molto variegato del trio diventa in questa sede un experimental post hardcore in parte memore dei Biffy Clyro prima maniera. Le devastanti sequenze distorte di Kikuna sono ai limiti del prog metal cerebrale e regolano l'atmosfera dell'EP fin dal primo ascolto. Mentre 11:11 e Soak rappresentano idealmente un ponte tra passato e presente con continue svolte tematiche e dense distorsioni, Watch Out for the Tentacles! e Noice. Smort. sono degli ottovolanti di punk cervellotico che focalizzano la propria cifra stilistica su quanti riff e micro-riff reisce a cucire insieme la chitarra di Mat Haigh.
giovedì 20 luglio 2017
Altprogcore July discoveries
Mi spiace non avere sentito parlare prima dell'ottetto romano VEMM (acronimo di Very Excited Mad Musicians) che è ormai attivo dal 2013 e piuttosto conosciuto nell'ambiente della capitale, ma credo che al di fuori di esso debbano ancora farsi un nome. Sotto tale aspetto non dovrebbero avere ostacoli in futuro poiché, con un album d'esordio datato 2014, il gruppo fondato dal chitarrista Emanuele Andolfi presenta un progressive rock dall'impostazione trasversale che fonde jazz, funk, metal e avant-garde a testi ironici e trovate musicali da big band non prendendosi troppo sul serio, nonostante la propria musica sia avventurosa e fieramente impegnativa, ma allo stesso tempo accessibile. L'ultimo loro prodotto uscito lo scorso marzo (e che ha anticipato il singolo inedito Bug 2035) è il live The Concept Concert (aperto con una cover di Devin Townsend) nel quale si può apprezzare in pieno l'uso della sezione di fiati e quella del coro femminile, aggiungendo sfumature poliedriche che sanciscono già una crescita rispetto all'esordio.
BISONwar è un trio di Pasadena composto da Peter Boskovich (basso), Nathan Taitano (batteria) e Joe Gamble (chitarra) e nell'omonimo esordio ci presentano un math rock abbastanza mutevole che può espandersi da aggressivi incisi heavy metal a più raffinati lidi fusion. Quasi una perfetta sintesi tra l'abrasivo math rock dei Town Portal e l'intricato jazz prog dei Father Figure.
Non si discosta molto da queste coordinate un altro trio di Halifax, gli Oceanic, con il loro secondo album Trappist. L'album si pone in un'area vicina al djent ultra tecnico degli Animals As Leaders, anche se fortunatamente l'algido approccio della band di Abasi viene stemperato in una prospettiva più indirizzata alle dinamiche math rock e a stratificazioni strumentali psichedeliche e post rock. In definitiva gli Oceanic sono un'altra band da segnalare e tenere d'occhio, magari recuperando anche il primo album Origin.
Crashtactics è un dinamico duo di Manchester composto da Alex Lynham (chitarra, tastiere, basso, voce) e Siôn Roberts (batteria, basso) che dal 2015 ad oggi aveva realizzato alcuni singoli raccolti adesso in questo EP The Hawk is Out. Presentandosi, Lynham e Roberts, si citano influenze di Meshuggah, Swervedriver, Battles e Oceansize, tutti paragoni piuttosto impegnativi che incuriosiscono, ma che i Crashtactics portano a casa con un risultato rimarchevole fatto di sonici riff math rock e intricate sequenze prog. Solo quattro tracce purtroppo, ma che fanno intravedere un futuro degno di nota.
martedì 18 luglio 2017
Jakub Zytecki - Feather Bed EP (2017)
Dopo averci deliziato con il nuovo album dei Disperse qualche mese fa, il chitarrista Jakub Zytecki torna a distanza di poco tempo con questo piccolo EP che segue il suo primo album solista Wishful Lotus Proof pubblicato nel 2015. Come spiega lo stesso Zyteck, con la produzione di Feather Bed ha voluto mantenere un approccio lo-fi e vintage per mettere in risalto l'elemento emotivo piuttosto che privilegiare l'aspetto metal, già esplorato abbondantemente con il primo album. Il risultato è comunque un EP che ha il suono di una moderna fusion/new age/world music la quale, come era quasi lecito aspettarsi, prosegue sulle orme di Foreword, assumendo le sembianze di un'appendice a quel lavoro, soprattutto su The Drum e sulla title-track.
venerdì 14 luglio 2017
Lambhorn - Cascade (2017)
Quando il marzo scorso i Lambhorn hanno anticipato la title-track e prima traccia di quello che sarebbe divenuto il loro esordio discografico, questa mi ha immediatamente colpito. Diciamo che Cascade è stato il brano che mi ha introdotto al quartetto di Bristol formato da Chris Lambourne e Nathan Long alle chitarre, Ben Holyoake al basso e Oli Cocup alla batteria, scoprendo che all'attivo avevano solo un EP di tre tracce uscito nel 2014. Quindi questo full length rappresenta a tutti gli effetti la prima prova importante dei Lambhorn, affrontata con invidiabile maturità a partire dalla multiforme title-track, in cui ogni movimento contenuto nei suoi dieci minuti offre un'emozione diversa.
Per l'appunto è da poco stato pubblicato il libro Fearless: The Making Of Post-Rock di Jeanette Leech dove nell'introduzione ci vengono ricordate le parole del critico Simon Reynolds, colui che storicamente coniò il termine "post rock", quando nel 1994 delineò le caratteristiche di un genere che ambiva ad "usare una strumentazione rock per scopi non-rock, usare le chitarre come agevolatrici di consistenza e timbrica piuttosto che come riff e power chords". Nelle loro soffici stratificazioni musicali i Lambhorn fanno proprio questo: Cascade ci trasporta in una zona onirica, raccontando in veste strumentale la sorte di un uomo disperso in mezzo all'oceano e la sua lotta per trovare una via d'uscita dal deserto d'acqua e mettere in salvo così la propria vita. Un concept album quindi, ma senza testi o parole che ci descrivano cosa avviene, le sensazioni individuali sono affidate esclusivamente alle tessiture post rock del gruppo, mentre la sorte del protagonista viene lasciata alla nostra interpretazione.
I paesaggi sonori di Spindrifts e Sapphire Springs raramente si inerpicano su territori aggressivi o distorti, preferendo impasti chitarristici sognanti al limite dell'ambient e della new age, fino a certificarsi come "dream progressive rock" nelle avvolgenti spirali vagamente orientali di Deeper che abbracciano un minimalismo molto armonico nella sua costruzione. I brani più estesi, Without Waves e The Great Below, attraversano invece passaggi maggiormente compositi di psichedelia, shoegaze e space rock. Tra armonici, riverberi immaginifici e distorsioni elettriche, Cascade imbocca una via più morbida e sommessa rispetto ai colleghi a cui piace alzare il volume dell'amplificatore ed è sicuramente da conservare come una delle migliori uscite post rock del 2017.
giovedì 13 luglio 2017
Picturesque - Back to Beautiful (2017)
Due anni fa il quartetto Picturesque si era
presentato con l'EP Monstrous Things pubblicato tramite Equal Vision Records.
Adesso, sempre sotto quell'etichetta, esordiscono con il full length Back to
Beautiful che, come stile, rimane un'estensione che approfondisce quanto anticipato da quell'EP, recuperandone infatti tutte e sei le tracce. Oltre che una
perfetta sintesi dei gruppi tenuti in scuderia dalla Equal Vision, Back to
Beautiful è un prodotto che va ad inserirsi nella scena contemporanea post hardcore americana ormai ricca di nomi, come Amarionette, Stolas e molti altri, cresciuta e affollata al pari di quella dei nuovi talenti chitarristici fusion djent. Le canzoni rimangono concepite per una durata essenziale e con delle strutture piuttosto convenzionali, ma in particolare sono le tessiture strumentali dei due chitarristi Zach Williamson, Dylan Forrester e del bassista Jordan MGreenway a creare tensione, facendo leva sul mettere in risalto la voce acuta di Kyle Hollis (del quale in giro si leggono lodi alla sua prodigiosa estensione vocale) e creando un mix melodico tra l'hardcore emo dei Circa Survive e le sezioni più aggressive vicine allo screamo dei Saosin.
www.picturesqueband.com
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domenica 9 luglio 2017
Discipline - Captives Of The Wine Dark Sea (2017)
Dopo un lungo periodo di pausa i Discipline erano tornati sulla scena progressive rock nel 2011 con l'album To Shatter All Accord. Nel frattempo il loro leader Matthew Parmenter ha continuato un'apprezzata carriera solista che lo ha portato a pubblicare lo scorso anno All Our Yesterdays. Captives Of The Wine Dark Sea segna il quarto capitolo in studio della band di Detroit e questa volta ci sono abbastanza novità per chi già conosce il gruppo. L'album esce sotto l'egida della Laser's Edge ed è il primo a non essere pubblicato tramite l'etichetta personale dei Discipline (la Strungout Records) che ha accompagnato tutte le loro uscite, in più alla chitarra abbiamo Chris Herin dei Tiles al posto del membro storico Jon Preston Bouda. La presenza di Herin deve aver portato anche al contatto con lo noto produttore dei Rush, Terry Brown, che ha già collaborato con i Tiles in passato. Il 2017 si appresta inoltre ad essere un anno importante per i Discipline in quanto, dopo anni di attività, si esibiranno per la prima volta in Italia sabato 2 settembre al festival prog di Veruno. Mentre il giorno prima, il 31 agosto, vedrà l'esibizione in solitaria di Matthew Parmenter a Roma presso l'Auditorium Lo Sciamano Music School.
Infine, arriviamo alla parte più importante che riguarda il contenuto di Captives Of The Wine Dark Sea: se To Shatter All Accord, come avevamo detto nella recensione, riprendeva qualche brano del passato rimasto nei cassetti per dargli una pubblicazione ufficiale, Captives Of The Wine Dark Sea segna un capitolo veramente nuovo ed inedito per i Discipline, dato che qui sono contenuti pezzi nuovi di zecca. Anche la struttura e l'indirizzo musicale dell'album cambiano di conseguneza, lasciando marginalmente la preponderante influenza dei Van der Graaf Generator, ad eccezione della notevole The Body Yearns, la quale, insieme alla lunga traccia di chiusura Burn the Fire Upon the Rocks, rappresentano una cornice di pièce de résistance a largo respiro che racchiude tra i propri confini una collezione di pezzi dalla durata e ambizione più contenuta. Certo, lo spirito del nume tutelare di Parmenter è ancora Peter Hammill nei riff sinistri (ma che ti si stampano in testa) di Life Imitates Art, comunque il resto dell'album si distacca abbastanza da tali canoni, riallacciandosi invece ad una certa vena più diretta che era propria di alcuni episodi dell'esordio Push and Profit del 1993, soprattutto nella ballad Love Songs e nel rock standard di Here There is No Soul. Stupisce poi la presenza di addirittura due numeri strumentali come S e The Roaring Game: la prima drammatica e marziale con un incedere reiterato alla King Crimson, la seconda (molto meglio) sembra quasi far parte di qualcosa di più grandioso, ma è comunque un ottimo ritorno alle arie dark prog dei Discipline. Captives Of The Wine Dark Sea si può definire quindi un album con due anime, dove sicuramente ad uscirne vincente è quella progressiva.
martedì 4 luglio 2017
Twin Pyramid Complex - Jinx Equilibria (2017)
Nelle scoperte di altprogcore dello scorso ottobre avevo segnalato il gruppo svedese Twin Pyramid Complex che si presentava con un singolo (Cataracts), un demo e la promessa dell'arrivo di un album imminente. Bene, il 21 giugno è uscito il loro esordio dal titolo Jinx Equilibria ed è una delle opere più strane, fuori dagli schemi e coraggiose che abbia ascoltato ultimamente. L'accostamento musicale più vicino che verrebbe in mente è quello con i The Mars Volta (con un briciolo di The Season Standard) anche se qui si viaggia su latitudini ancora più folli ed estreme. Detta così sembra un'assurdità (come si fa ad essere più estremi dei The Mars Volta?), ma basta un semplice trucco per chiarire la posizione dei Twin Pyramid Complex. Fate mente locale e pensate alle varie fasi attraversate dalla discografia della band di Cedric Bixler Zavala e Omar Rodriguez-Lopez e, se provate a chiedervi a quale di queste potrebbero avvicinarsi di più stilisticamente, la risposta sarà: tutte insieme contemporaneamente.
Sin dalla cacofonia che apre Dogma Taxidermi i Twin Pyramid Complex si gettano in un caos organizzato che travolge come un'onda in piena e non arresta la sua tensione per la sua intera durata. Tesseractal Macro: Infinity's Culprit si confronta con tutto questo e anche di più: le stratificazioni sonore hanno un ché di vertiginoso inframmezzate da passaggi di puro rumore e astrazioni sperimentali. Nei momenti più concitati i cinque musicisti, che sono Lowe Marklund (voce, chitarra, basso, synth), Vladimir Skripnik (batteria), Maximilian Paaso (synth), Gi Monki (basso), Karl Westerlund (chitarra), sembrano un'orchestra avant-garde tra sintetizzatori prog, chitarre post punk e ritmiche math rock. Nei vari frammenti delle due parti di The Workhorse, che si uniscono formando un'unica suite, pare prendere forma la mitologia apocalittica marsvoltiana.
Ogni brano è un vero e proprio tortuoso tour de force, dipanandosi in durate estese e con molteplici e disorientanti cambi di tema, costantemente all'insegna del non rendere facile l'ascolto. Se Verisimilitude si spinge ai limiti della saturazione sonora, Apsis tenta di mettere ordine al tumultuoso sound con interventi acustici e trame quasi lineari che nella seconda parte si deteriorano tornando al progressive free form. Come una sfida anche i più contenuti Cyclisk e Night of a Billion Vesper non fanno sconti, gestendo una serie di labirintici anfratti sonori. Se la complessità della musica da sola non bastasse, a renderla ancora più schizzata ci pensa la voce di Marklund, tra psicotici falsetti e acuti. Quella dei Twin Pyramid Complex è una ricerca su piani sonori multipli che scavano ai limiti del post prog e pretendono dal fruitore una completa disponibilità a seguirli nelle varie diramazioni che si susseguono in un viaggio tutt'altro che semplice. Se si riesce a venir fuori da questo labirinto che è Jinx Equilibria ci si può sentire appagati proprio perché è come se i Twin Pyramid Complex ci ponessero sul loro stesso piano: un prodotto creato da musicisti preparati per ascoltatori preparati.
lunedì 3 luglio 2017
Möbius Strip - Möbius Strip (2017)
I quattro giovani musicisti provenienti da Sora, Lorenzo Cellupica (tastiere e piano), Nico Fabrizi (sassofono e flauto), Eros Capoccitti (basso) e Davide Rufo (batteria), si sono presentati qualche mese fa nella scena musicale con il nome di Möbius Strip e un disco d'esordio omonimo pubblicato dalla storica etichetta francese Musea Records, una garanzia per quanto riguarda il progressive rock. Anche se la sorpresa è che questa volta non si tratta propriamente di una band con derivazioni sinfoniche, ma il quartetto si dedica ad un più sofisticato jazz rock che si è conquistato già l'attenzione di siti internazionali come All About Jazz e ProGGnosis.
Le composizioni, tutte a firma di Cellupica, rimangono comunque collegate alla sfera del progressive rock grazie a quell'ispirazione canterburyana che fa capolino nell'album e, più precisamente, si possono percepire a tratti atmosfere affini a Soft Machine, Hatfield and the North e Gilgamesh presenti soprattutto nell'andamento del brano di apertura Bloo, abbellito con pregevoli passaggi di piano elettrico (in alternativa Cellupica utilizza molto spesso quello acustico). Ma Möbius Strip non ne ricalca la formula e non ci sono fortunatamente richiami ben precisi a questi gruppi, solo sensazioni che il quartetto rivela in una miscela e in un approccio fusion senza addentrarsi necessariamente in meandri cervellotici o atonali.
Per fare un esempio: le note cristalline di Déjà Vu si avventurano in un circolo melodico guidato dagli accordi di piano e un sassofono che imbocca arie cantabili, quasi in antitesi con la pratica autoindulgente delle improvvisazioni. Anche quando si affacciano momenti solisti il quartetto tiene a mantenere una generale impostazione che non si allontana da schemi armonici, in una parola un jazz molto accessibile e di piacevole ascolto. Una fluidità di arrangiamento che ritroviamo nel tema iberico che domina Andalusia o nel prog jazz americano anni '70 che viene a galla su First Impressions. La title-track - che dà il nome al gruppo - prova ad addentrarsi in spiragli progressive più accentuati, iniziando con ritmiche dal sapore sudamericano e poi tornando a legami fusion che danno uno spazio solista ad ogni membro, evitando le trappole dell'autocompiacimento. Möbius Strip è un album che sente il bisogno di ricercare quei binari immaginifici del rock jazz canterburyano, cogliendone gli aspetti più gentili e meno spigolosi.
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