Da Bergen arrivano questi sei giovani norvegesi con un esordio dal titolo in pieno contrasto con la fama della loro città natale, essendo una delle più piovose al mondo. Ma non importa, perché i Seven Impale con
City of the Sun sono destinati ad andare fuori dalle convenzioni e, per quello che ci riguarda, dalle regole commerciali. Intanto suonano prog, quello vero, con riferimenti ai grandi maestri del passato, ma con i piedi ben piantati nel presente, escludendo facili ammiccamenti al prog metal o all'art rock pseudo sinfonico. I Seven Impale, che avevano firmato l'ottimo EP
Beginning/Relieve lo scorso anno, ci vanno giù pesante e si presentano con un biglietto da visita di sole cinque tracce, lunghe e tortuose, che si inoltrano nei coltissimi meandri del jazz rock e negli esoterici e lividi orizzonti progressivi dei Van der Graaf Generator.
Oh My Gravity! presenta subito le peculiarità dei Seven Impale che utilizzano chitarra, basso, sax e organo come un'unità compatta all'unisono, creando suoni rocciosi e levigati come una lastra di granito. L'impianto sonoro generale e il canto di Stian Økland, simile a quello di Matthew Parmenter, farebbero pensare anche ad un paragone con gli americani Discipline che si incontrano con il post jazz dei Jaga Jazzist. Le chitarre Erlend Vottvik Olsen e Økland si occupano di riff circolari e massicciamente crimsoniani, mentre Håkon Vinje usa le sue tastiere elettriche per aggiungere colori caldi e avvolgenti, oppure, all'occorrenza, gelidi come una lama.
Wind Shears si muove cauta da principio, lambendo dei territori più rilassati e fusion, alterandoli a bollori improvvisi di jazz metallico, mentre
Extraction, se non fosse immerso nella solita aria elegiaca, sembrerebbe quasi un lamento blues.
Eschaton Horo disegna gentili paesaggi con soffici accordi che si trasformano repentinamente in un caos magmatico di suoni elettrici. Il sassofono rauco e spigoloso di Benjamin Mekki Widerøe intesse i propri assoli e, quando non lo fa, detta la cadenza ritmica insieme alla batteria di Fredrik Mekki Widerøe e al basso di Tormod Fosso. In questi repentini salti di atmosfera la sezione ritmica è straordinaria nell'adeguarsi a swing leggeri o ad assalti tribali.
Le contrapposizioni tra le dinamiche piano / forte colpiscono all'improvviso, ma in questo clima altalenante che pervade ogni pezzo il crescendo è una costante che si espande in ogni caso, non importa a quale picco acustico sia arrivato in precedenza. Inoltre, le divagazioni strumentali sono ampie e potenti, strutturate per dare spazio all'improvvisazione. In chiusura arriva
God Left Us for a Black Dressed Woman, un epico brano di 14 minuti che, tra suggestioni psichedeliche alla Motorpsycho e intricati percorsi hammilliani, ci scaraventa in un ipnotico viaggio in continua tensione fino alla liberazione del gran finale. Finalmente un gruppo che, tra le nuove leve del progressive rock, si afferma come una nuova speranza per il genere.