mercoledì 26 settembre 2018

Slow Crush - Aurora (2018)


Nelle generazioni più giovani il revival dello shoegaze può comportare dei fraintendimenti dato che ultimamente, spesso e volentieri, questo genere musicale è stato associato e assorbito insieme ad una variante molto estrema di metal, andando a confluire nel cosiddetto blackgaze. Non fatevi trarre in inganno o stupitevi quindi se accanto al nome degli Slow Crush leggerete, come termine di paragone, i recenti paladini Deafheaven, Alcest, MØL o Oathbreaker, band con le quali hanno poco o nulla da spartire, anche se come incentivo si sono assicurati l'attenzione di un'etichetta come la Holy Roar Records che dei suoni eccessivamente abrasivi ha fatto un marchio di fabbrica. E' vero, c'è una certa heavyness nelle maglie elettriche scagliate dagli Slow Crush, ma il loro intento è far sognare con dolcezza senza ricorrere ad irrequieti sbalzi di atmosfera troppo repentini o traumatici.

Il giovanissimo gruppo (per metà belga e metà inglese) che ha iniziato il suo cammino nel marzo del 2017, e ora al debutto con lo scintillante Aurora in uscita questo venerdì, riporta semmai lo shoegaze alla sua vera essenza naturale, ovvero al suo apice compreso tra ultimi anni '80 e primissimi anni '90, quando a farla da padroni erano i My Bloody Valentine in primis, poi Swervedriver, Slowdive, Cocteau Twins e All About Eve. In particolare con questi ultimi condividono qualche scelta estetica, esattamente come nell'ultimo album in studio degli AAB Ultraviolet la bellissima voce di Julianne Regan risultava quasi indistinguibile nel mix finale (suscitando molte perplessità nei fan della prima ora), anche qui gli interventi della cantante e bassista Isa Holliday si trovano sepolti sotto un cumulo di distorsioni fino a renderli un'indistinta e impalpabile presenza. C'è da dire che la Holliday non è la Regan e gli Slow Crush hanno da subito abbracciato questa linea sapendo dove andare a parare, così tale espediente non solo non disturba, ma è funzionale nel rendere la musica ancora più sfuggente e affascinante.

Il ritmo spedito e post punk di Glow e il groviglio elettrico di Drift attirano subito l'attenzione prima di immergersi progressivamente in un lento mare di liquide suggestioni psichedeliche: nel sogno lucido di Tremble e in quello accattivante della title-track per la prima volta la voce della Holliday appare più chiara e sembra cullarci prima di essere investita da una marea montante di distorsioni. Il melodramma gotico dei Cocteau Twins è dietro l'angolo sulla narcolettica Collide e non c'è cosa più dolce per affogare le proprie malinconie. Gli Slow Crush possono essere aggressivi tanto nei riff quanto dolci nelle parti principali come accade su Shallow Breath e su Aid and Abet, ma il fatto che l'alto flusso di riverberi e l'opacità dell'amalgama sonico producano una sensazione di astrazione (come su Beached) contribuisce nel mantenere un microcosmo sonoro ultraterreno. Questa dicotomia di contrasti alla prova dei fatti si rivela piuttosto differente dal metodo quiet/loud tipico del post hardcore, ma serve quasi da saturazione di appagamento dei sensi, dove le suggestioni innescate dall'album creano un'atmosfera unitariamente sognante anche nei momenti più duri. Come debutto Aurora è una delle più convincenti e appassionate dichiarazioni d'amore, da molto tempo a questa parte, nei confronti dello shoegaze inteso come tale.
 




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