A distanza di cinque anni da loro ultimo album in studio One Armed Bandit, il primo giugno i norvegesi Jaga Jazzist pubblicheranno un nuovo scintillante lavoro dal titolo Starfire, la cui title-track è ora disponibile in anteprima. Il disco conterrà cinque tracce (Strafire - Big City Music - Shinkansen - Oban - Prungen) ed è stato concepito e scritto dal leader Lars Horntveth dopo essersi trasferito da Oslo a Los Angeles nel 2012 e il risultato sembra cogliere la schizofrenia del connubio tra post jazz e moderna elettronica come mai era successo nei lavori precedenti.
La traccia di chiusura Prungen è stata già presentata dal vivo e inclusa nel disco Live with the Britten Sinfonia del 2013.
Probabilmente, detto così, il nome di Jakub Zytecki può significare poco o nulla a chi non è bene dentro la materia del genere djent. Zytecki non è altro che il talentuoso giovane chitarrista polacco meglio conosciuto per la sua militanza nei DispersE, una delle migliori band ad essersi affacciata ultimamente negli orizzonti del djent. Wishful Lotus Proof è il suo primo album come solista che viene pubblicato oggi e, se siete avvezzi ad altri progetti simili come Plini e i vari album Bilo a nome di David Maxim Micic (ospite in una traccia), quest'opera vi risulterà affine.
Dal mio punto di vista Zytecki è il più dotato (sia dal punto di vista tecnico sia da quello melodico) tra i suoi giovanissimi colleghi e solo l'introduttiva Yes ne è una inconfutabile prova: gli bastano solo due minuti per far mangiare la polvere a chiunque. Il resto dell'album non è all'altezza delle vette espressive toccate dai DispersE e forse non esprime il pieno potenziale del chitarrista, ma comunque ci offre un punto di transizione che è sempre bene tenere presente.
Tra i tanti gruppi di cui ho parlato su altprogcore ne manca uno importantissimo all’appello e non perché mi fossi scordato di loro, ma perché, da quando questo blog è nato, non hanno mai pubblicato niente a parte l’EP di quattro tracce No Star nel 2010. Il gruppo in questione si chiama The Velevet Teen e il loro ultimo album in studio, Cum Laude!, risale addirittura al 2006. Questo lungo silenzio sarà finalmente interrotto il 30 giugno quando verrà pubblicato All is Illusory, quarto album in studio del gruppo, via Topshelf Records. Colgo quindi l’occasione di anticipare tale uscita con un doveroso articolo poiché, nella esigua discografia dei The Velvet Teen, fa parte anche quello che personalmente ritengo uno dei capolavori del passato decennio e cioè Elysium (che poi è il soggetto di questo articolo).
La principale curiosità che mi fa attendere All is Illusiory con trepidazione è che i The Velevet Teen sono da sempre una creatura anomala nel panorama musicale, dato che, non solo gli album da loro prodotti risultano uno diverso dall’altro, ma in ognuno di essi hanno sempre cercato di perseguire soluzioni originali con l'intento di non suonare come una banale e prevedibile indie rock band. Questa schizofrenia stilistica ha in pratica relegato i The Velvet Teen ad uno status di popolarità quasi di nicchia se vogliamo, ma comunque molto amati e rispettati da chi li conosce.
Le origini dei The Velvet Teen risalgono al 1999, quando il nome (una storpiatura ispirata al libro per bambini The Velveteen Rabbit) fu usato dal solo Judah Nagler per un breve tour in Islanda. Dopo l’incontro con il batterista Logan Whitehurst, i due registrano l’EP Comasynthesis per poi stabilizzarsi come trio con l’ingresso del bassista Josh Staples e la realizzazione di un altro EP dal titolo The Great Beast February (entrambi gli EP poi raccolti su Plus, Minus, Equals). L’esordio vero e proprio avvenne nel 2002 con Out of the Fierce Parade (co-prodotto da Christopher Walla dei Death Cab for Cutie), un onestissimo album di indie-emo rock che tentava di andare oltre i soliti cliché, anche grazie ad un certo intellettualismo stilistico di fondo che non si limitava alle citazioni letterarie di Henry Miller e C. S. Lewis, ma si ispirava un po’ ingenuamente anche ai Radiohead, somiglianza amplificata dai falsetti di Nagler
(Red, Like Roses, Into the Open).
Quando nel 2004 Elysium fu pubblicato, i The Velevet Teen potevano contare, quindi, su una carriera già ben avviata che li aveva fatti inquadrare dalla critica statunitense come una nuova promessa indie rock: praticamente un confortevole e sicuro angolo musicale nel quale crescere e magari, con il tempo, avere successo. Nessuno, al contrario, si sarebbe aspettato che con il secondo lavoro il trio californiano avrebbe scombinato le carte in tavola con un incredibile salto di maturità. Il totale cambio di prospettiva sonora, indirizzato sulla ricerca e sulla sperimentazione nell’ambito di un baroque pop orchestrale quasi progressive, si poneva sullo stesso piano delle scelte compiute da un gruppo come Talk Talk e, in seguito, anche dai These New Puritans.
Il mutamento radicale operato dai The Velvet Teen su Elysium faceva in modo che la sua materia rimanesse nell’ambito pop, ma che difficilmente avrebbe scalato le classifiche. La decisione di non utilizzare chitarre e affidare il ruolo di strumento protagonista al pianoforte con l’aggiunta dell’orchestra, i cui interventi non risultano mai eccessivi o barocchi, generò degli arrangiamenti delicati dove ogni traccia era un piccolo mondo in cui perdersi. I refrain di pianoforte e gli archi di Poor Celine e Forlorn avevano qualcosa di irresistibile, eppure erano lontani dal pop inteso nel senso classico del termine. Le canzoni non avevano strutture ortodosse, preferendo collegare tra loro delle progressioni armoniche che si sviluppavano in crescendo emotivi. Con tali premesse Penicillin (It Doesn’t Mean Much) e A Captive Audience annegavano la malinconia in un vortice intimistico di sensazioni che penetravano sottopelle, dove la voce espressiva di Judah Nagler, spaccata tra un crooner di night club e un Jeff Buckley depresso, dava il suo meglio nei dettagli.
Il centro dell’album era occupato dall’epico tour de force da 13 minuti di Chimera Obscurant che, dopo poche strofe accompagnate da accordi di piano con una ritmica jazz, si trasformava in un logorroico sfogo musicale nel corso del quale Nagler si esibiva, senza prendere fiato, in una sorta di testo-Weltanschauung di oltre 1000 parole che racchiudeva di tutto: dalla critica al capitalismo e alla religione organizzata, fino alla biologia cellulare, alle cospirazioni governative e alla geometria sacra biblica. Un monumento lirico/musicale di uno sforzo notevole. Infine, c’è da aggiungere che Elysium, pur non essendo un concept, fa comunque i conti con il tema portante della separazione sentimentale, non solo nei confronti di una persona, ma verso ogni tipo di cosa. Nonostante tali caratteristiche, l'estetica di Elysium non è riconducibile ad un lavoro eccessivamente sdolcinato o che si crogiola nell’autocommiserazione. Quello di Elysium era un mondo calmo, rallentato e notturno il cui valore cristallino difficilmente veniva sviscerato al primo ascolto, come le canzoni che vi sono contenute, esso è un album che cresce e si fa strada poco a poco. In me l’amore per quest’opera scattò in modo istantaneo, cogliendo immediatamente un fascino singolare nelle sue musiche. E anche per questa affinità personale lo ritengo uno dei miei album preferiti, uno di quelli che vorresti suonassero in loop nella tua vita ininterrottamente 24 ore su 24.
Dopo la folgorazione di Elysium sarebbe stato possibile superare qualitativamente tale capolavoro? Forse i The Velevet Teen non se lo posero neanche questo problema e, come se nulla fosse, due anni dopo, con il terzo album Cum Laude!, sterzarono su una via stilistica diametralmente opposta a quell'opera, ancora una volta cambiando pelle musicale e attitudine, dimostrando coraggio e versatilità. Tanto era crepuscolare e meditabondo Elysium, tanto solare e spensierato risultava Cum Laude!. Tanto era acustico e pianistico Elysium, tanto Cum Laude! era elettrico e con un ritorno prepotente verso la chitarra, anche se le sue peculiarità erano ben altre.
L'album sembrava voler proseguire la sperimentazione di glitch music, introdotta fugacemente su Elysium nella strumentale Sartre Ringo, con effetti e risultati ancora una volta lungimiranti che hanno precorso il riflusso della moda della musica 8 bit (o chiptune) in voga in questi ultimi anni.
Non che Cum Laude! suonasse cacofonico e privo di melodia, tutt'altro, ma conteneva canzoni pop rock rivestite di electro noise con in più la scelta radicale di camuffare e sfregiare la bella voce di Nagler con abbondante uso di vocoder.
Sepolti sotto gli strati di rumori giacevano motivi irresistibili come Noi Boi, Spin the Wink,
Gyzmkid, incorniciati dal rutilante e frenetico drumming del nuovo batterista Casey Deitz, che dovette sostituire temporaneamente Whitehurst al quale era stato diagnosticato un tumore al cervello. Dopo la morte di Whitehurst, avvenuta nel dicembre 2006, Deitz prese definitivamente il suo posto e il gruppo decise di continuare. Come accennato, però, fino ad oggi a livello discografico i The Velevet Teen sono rimasti quasi del tutto inattivi, quindi l'uscita di All is Illusory possiede tanto i connotati dell'evento.
Dopo la fine prematura dei Damiera, i superstiti David Raymond e Steve Downs nel 2011 si imbarcarono in un'altra band formando gli Hidden Hospitals, unendosi con l'ex Kiss Kiss Jared Karns (batteria) e John Scott (basso). Come sappiamo, il gruppo ha realizzato finora due ottimi EP e, nel 2014, ha annunciato l'inizio dei lavori per un full length album
attraverso una campagna Kickstarter e registrato poi a Nashville con il supporto del produttore J. Hall, già dietro al banco di regia nei due citati EP.
Il risultato è oggi nelle nostre mani e si intitola Surface Tension e, lasciatemelo dire subito per fugare ogni dubbio, suona come una bomba. Nei due EP gli Hidden Hospitals avevano messo in chiaro di distanziarsi dalle intricate trame math rock dei Damiera attraverso composizioni più snelle e meditate, ma a loro modo sempre avventurose, adottando il motto "addizione per sottrazione" come manifesto programmatico con il quale procedere negli arrangiamenti e nelle sonorità. Bene, Surface Tension è una summa e il coronamento di questa metodologia di lavoro che punta dritto verso un nuovo cambiamento dove, stratificando suoni minimali, si ottiene il massimo dei risultati. In questo la produzione di J. Hall ha fatto miracoli, aiutando il gruppo a conseguire la propria visione di costruzione sonora: compatta ed evanescente al tempo stesso, grazie ai delicati equilibri che sembrano montati con cura, pezzo per pezzo, per andare a completare un quadro generale di una potenza sonica incredibile. Un album prodotto da dio, insomma (e, per una volta, non stiamo parlando di Steven Wilson).
Se non ci credete basterebbe ascoltare la strabiliante Broken Skeletons che, anche quando sfoggia i suoi riff massicci, non sovrasta mai gli interventi delle note in sottofondo. Proprio questi particolari, in pratica, non vengono soffocati dagli altri suoni, ma emergono in egual misura. Una scelta necessaria per i toni contrastanti che si vengono a creare all'interno di uno stesso brano, facendo suonare potenti anche i momenti più quieti, come Pulp, in perenne bilico tra delicatezza e epiche costruzioni soniche, oppure la tensione che si dipana per tutta la durata di Modern Saints. Parlando di lavorare per sottrazione, i brani di Surface Tension mettono in prima linea le ritmiche e le linee melodiche del canto acuto di Raymond, lasciando alle chitarre un ruolo quasi marginale di sottile decorazione, tranne quando irrompono in tutta la loro elettricità nei chorus. Proprio su tale linea sono incentrate Rose Hips e soprattutto Wounded Sirens, dove ritroviamo il gusto degli Hidden Hospitals nel delineare maestosi ritornelli conditi da bordoni elettrici.
In più, rispetto ai due precedenti EP, l'album aumenta la presenza dell'elettronica, specialmente nei suoni di basso e con l'aggiunta di piccoli accorgimenti di synth (ad esempio su Bone Scraper, Synesthesia e Animals). Puntato il faro su questo argomento, l'altro miracolo che avviene su Surface Tension è come gli Hidden Hospitals siano riusciti a sposare in modo indolore le ruvidezze del loro rock alternativo con un pertinente uso di elettronica minimale, fino a fondersi in modo quasi impercettibile nella title-track e in From Toxin. Da Surface Tension appare chiaro come il gruppo e il produttore J. Hall abbiano trovato insieme un'alchimia unica che gli ha premesso di formare un team stellare che, se continuerà a spingersi oltre questi limiti, in futuro potrà stupire.
Una corsa all'Opera House di Sydney, un pianto disperato per
una persona importante e le birre sul tetto con un amico irlandese... una corsa
a Villa Ada con quel riff che ricorda tanto Paint it, black
dei Rolling Stones (anche se io sono molto più affezionato alla cover fatta dai
Deadsy), l'intuizione e l'idea. I campioni si riconoscono anche da questo! Grazie Lee, è un
onore!
Come crei la tua musica?
In giorni come questi il processo è molto semplice: passo
molto tempo con chitarre diverse, provando un po' a suonare e gettando le
giuste idee per le canzoni o la struttura delle stesse. Poi inizio a suonarci intorno con diversi canali e diversi
strumenti. Questo è decisamente il modo in cui mi sto muovendo ora. Dopo mostro tutto alla band di modo che le strutture
diventino più solide e successivamente inizio ad occuparmi dei testi.
Quando creai Between The Times and The Tides,
registrai le canzoni su cassetta ( sorride ) solo con una sezione ritmica e poi
vari musicisti (Nels Cline, John Medeski, Bob Bert … ) iniziarono a suonare
sulle singole tracce. Al momento non ho una “band”, per l'album Last Night
On Earth le canzoni nacquero col supporto della band – The Dust –
ed, infatti, si può notare e sentire un maggiore feeling, una maggiore
coesione. Due diversi modi, nessuno migliore dell'altro, ma
sicuramente diversi. Per l'album al quale sto lavorando, devo ancora decidere
quale metodo usare. Ho dei musicisti fantastici al mio fianco – The Dust
– ma ho voglia anche di creare canzoni in diversi modi, forse non rivedendole
troppo con la band, come per l'ultimo album, ma “costruendole” in studio,
magari utilizzando metodi nuovi ed usi “artificiali”. Creare canzoni e
registrarle è come giocare a freccette. É eccitante e un po' ansioso non sapere
mai cosa succederà!
Nello stesso momento, sto lavorando a molti altri progetti
diversi tra loro, un po' in studio, un po' a casa. Qualche anno fa, dopo che
l'uragano Sandy colpì New York, scrissi della musica classica basata sul suono
del vento che registrai appunto durante la tempesta. Una musica astratta della
durata circa 30 minuti. Fu suonata da diverse orchestre ad Amsterdam e a
Sydney. La sto riadattando ora anche per i Dither, un quartetto di
Brooklyn che usa solo chitarre elettriche. Ecco, un altro diverso modo di fare
e creare musica.
La tua carriera solista percorre strade diverse da quelle
precedenti con i Sonic Youth: senza “rinnegare” ciò che hai fatto in
precedenza, sembra riscoprire anche una musica più legata alla tradizione che
adesso viene attualizzata, ma non stravolta. Dipende da un fatto anagrafico o
dai compagni di strada con cui porti avanti il lavoro?
La differenza principale sta soprattutto nel processo
creativo. Le migliori canzoni dei Sonic Youth furono create da noi tutti
insieme, in uno spirito totalmente creativo, non, quindi, da una sola persona
che poi fa ascoltare la canzone completa agli altri. Con la musica che sto scrivendo ora, lo spirito, il processo
non è totalmente collaborativo. Lo sto ripetendo. Riflette molto di più i miei
stati d'animo e i miei interessi. Sto recuperando definitivamente quei modi
di suonare – acustici, principalmente- tipici di quando iniziai a suonare la
chitarra.
In continuità con la domanda precedente, perché la scelta di
un lavoro acustico? Sembra che per anni l'intento fosse quello di denudare,
scarnificare i suoni per via elettrica: oggi lo scopo appare lo stesso, ma la
strada (acustica, appunto) è differente. Continuo ad amare il suonare forte e duro, il suono
elettrico, ma sono anche molto eccitato in questi tempi di avere l'opportunità
di suonare strumenti acustici, lavorando sopra essi e poi registrandoli. In un
certo qual modo è un metodo più nudo rispetto a tutti gli altri! Suonare poi dal vivo in acustico di fronte ad una platea è
una cosa assai difficile e quindi competitiva per me – è, in definitiva, una
nuova area musicale da esplorare.Mi
piacerebbe riuscire a trovare il giusto punto di accordo per suonare musica
elettrica e quella acustica.
Pensando al disco acustico: la voce ha un ruolo di primo
piano, forse, come mai prima. É stata in questo senso un'esperienza nuova,
almeno in parte, per te?
Mi piace cantare e l'ho sempre fatto, quindi è un grande
piacere avere la possibilità di concentrarsi su quello. Cantare e scrivere testi
è, forse, la parte più importante del mio recente lavoro. È di gran lunga la
sfida più interessante. lavorare sulle canzoni per conto mio e poi suonarle con
la band è stata una scelta del tutto inaspettata. Ho sempre ammirato e
gravitato attorno a grandi band – The Beatles, The Dead, CSNY –, gruppi
composti da più voci, un desiderio che ho realizzato anche con i Sonic Youth
e del quale sono ancora grato. Ma, d'altro canto, ho sempre amato un tipo di
musica più personale, cantautorale, sia del passato che più recente. Questo
tipo di musica mi ha sempre affascinato, soprattutto per la capacità che una
sola voce possa racchiudere così tante emozioni. Ho sempre desiderato fare un
disco del genere, ho sempre sentito che avevo la possibilità di fare un disco del
genere.
Quali sono state le motivazioni della scelta delle cover,
che non sono esattamente quelle (non tutte, almeno penso a Bushes and Briars
di Sandy Denny) che uno si aspetterebbe da chi ha il tuo tipo di
carriera alle spalle?
Abbiamo suonato un buon numero di cover, anche
occasionalmente qualcosa dei Sonic Youth! La mia band è un gruppo di
“ottimi studenti”, il che significa che siamo in grado di lavorare sulle cover
in maniera molto, molto veloce. Mi piace molto quello che abbiamo realizzato con
RevolutionBlues sul nostro recente album Acoustic Dust.
Abbiamo rallentato e, quindi, dato una sensazione diversa che mi piace
molto.
Ho sempre cercato e voluto trovare una ragione per eseguire
una cover di Bushes and Briars di Sandy Denny, una canzone che mi
ha entusiasmato per molto tempo. La sua storia dietro quella canzone è davvero
molto interessante. Eseguire cover è un modo per rendere omaggio alle canzoni
che ami o hai amato e fornire un nuovo modo originale di sentire e provare una
canzone che già conosci.
Nei tuoi lavori solisti si percepisce anche una gioia di
suonare piuttosto notevole: è forse la gioia di chi, dopo anni di militanza, sa
di poter ancora imparare tanto, ma di non dover dimostrare nulla?
(Sorride).. so dove vuoi arrivare. É fantastico avere un
pubblico interessato ad ascoltare le più varie e diverse strade musicali che
hai deciso d'intraprendere. Non penso ci sia mai stato imposto nulla e
tantomeno le aspettative hanno dettato qualcosa. Semplicemente abbiamo cercato
di fare qualcosa di buono e poi abbiamo continuato. Senza ombra di dubbio la
gioia è una parte enorme, un enorme fattore motivante. Mi sono divertito molto
in questi ultimi anni, soprattutto suonando da solo. In realtà tutto ciò è solo
una continuazione, perché suonare, giocare con la musica, è già di per sé una
gioia. Ci sono stati momenti con i Sonic Youth in cui credevo che
la gente sapesse bene cosa aspettarsi da noi e, quindi, cominciarono a
giudicare eventuali opere più recenti, non più così fresche ed originali e,
quindi, credo, che cedettero solo all'obbligo che fossimo i Sonic Youth e
dovessimo essere ascoltati. Il mio obiettivo fin dall'inizio è quello di creare
piacere attraverso il mio lavoro in un modo o nell'altro.
Quanto forte è e quanto ti influenza il legame con l'Europa?
Anche qui penso al tuo nuovo lavoro, registrato a Barcellona, o con un passo
indietro a canzoni come Lecce, Leaving.
Amo l' Europa e mi piace moltissimo suonare qui. In un certo
modo è assai più difficile suonare qui che negli States, poiché gli artisti non
sono sempre trattati rispettosamente. Sono interessato a diversi aspetti della
cultura europea: la sua storia e la sua arte. Credo che l'aspetto più eccitante
del viaggiare sia incontrare e stare in posti che non sono e sono completamenti
diversi da casa tua. Adoro tutto ciò..non potrei vivere senza!
Alcune settimane fa mentre pensavo a questa intervista ho
immaginato alcune canzoni dei Nirvana cantate da te e mi sono ricordato
del film del 1991: The Year Punk broke '90 dove i Sonic Youth e i
Nirvana vengono rappresentati piuttosto bene. Hai mai pensato di suonare
qualche canzone dei Nirvana dal vivo o hai mai pensato di registrare un
album di cover dei Nirvana?
Amo così tanto quelle canzoni, ma non ho trovato
l'ispirazione e la situazione adatta per tentare una loro nuova versione.
Qual è il tuo ricordo di Kurt Cobain?
Ricordo i miei primi incontri con lui – quando lui e la sua
band suonavano di supporto con i Sonic Youth intorno al Pacific NW in un van
piccolo prima che Dave si unisse alla band e arrivano fino a quando non divenne
una celebrità le cui canzoni erano ascoltate da tutti. Fu un personaggio a cui
accaddero moltissimi cambiamenti, ma che rimase, fondamentalmente, sempre la
stessa persona. Credo che alcuni miei ricordi personali non debbano essere
raccontati specialmente qui. Era una persona complicata, ha preferito cedere il
posto alle circostanze piuttosto che effettuare un cambiamento radicale.
C'è qualcosa che ti manca dei Sonic Youth?
Certo.. mi mancano i momenti di condivisione di idee e di
lavoro, quando tutti erano interamente impegnati a tale scopo e non eravamo
distratti da niente, semplicemente concentrati sul suono che volevamo ottenere.
È stato molto più di un gruppo, tutti hanno contribuito alle opere che abbiamo
fatto, soprattutto quand'era un territorio inesplorato e, quindi, nuovo per
tutti. È stato un periodo piuttosto sorprendente e che rimarrà impresso nella
memoria di noi quattro. Abbiamo lavorato insieme per 30 anni in modo molto
creativo. Non mi manca troppo, sinceramente, perché le esperienze non
evaporano, sono ancora con me e sono una parte importante delle nostre vite.
Sonofelice di vedere che ognuno di noi
s'impegna ed è eccitato e felice di sforzarsi a creare qualcosa di nuovo.
Il tuo rapporto con il cinema?
È enorme, troppo grande, forse, per discuterne qui. Ho
studiato cinema all'Università e ho un rapporto intimo, in particolare con
l'avanguardia americana di registi astratti e sperimentali della metà del XX
secolo. Quand'ero adolescente giocando con una 8mm con mio padre ho
fatto alcuni miei film. Ancora adesso faccio film di volta in volta e rimango
un allievo di tutti gli aspetti della storia del cinema. È realmente la moderna
arte del Novecento, come la cultura digitale è quella del ventunesimo.
I tuoi progetti futuri?
Attualmente sto cercando di scrivere la musica per il mio
prossimo album, oltre a lavorare su altri progetti musicali come quelli sopra
descritti. Sto anche lavorando come posso su un'opera visiva, faccio disegni e
stampe. La mia serie di disegni, LostHighway, è un qualcosa che
mi porto dietro dagli anni '70 e vuole riuscire a catturare dal finestrino di
una macchina in movimento il paesaggio in costante cambiamento. Questo cattura
il mio interesse per il disegno (ed anche nel cinema, visto che è comunque
basato sul tempo) durante i miei tour. D'altronde è la cosa perfetta da fare se
si è seduti in un veicolo per molto tempo. Negli ultimi anni ho lavorato su un
sacco di questi disegni in autostrada – paesaggio, delineati soprattutto dai viaggi
in tour. Sono schizzi molto veloci che cercano di catturare la qualità iconica
della strada che, come un fiume, è sempre diversa ma sempre comunque la stessa.
Ho provato ad esporre la mia idea nel corso degli ultimi anni e sto cercando di
sviluppare una serie.
Ho anche lavorato su una serie limitata chiamata BlackNoise, utilizzando vecchi dischi in vinile sui quali disegno e poi stampo
i diversi risultati. Alcuni di essi sono stati davvero interessanti ed è una
cosa che continuo a sviluppare...inoltre sto continuando a lavorare ad una
raccolta di miei diarie poesie che
prima o poi dovrebbero uscire.
I Chon, freschi di contratto con la Sumerian Records (la stessa di Animals As Leaders e Circa Survive), pubblicheranno il loro primo album Grow il 23 marzo che potete ascoltare in anteprima qui di seguito.
Una quantità limitata dei libri "Altprogcore - Dal post harcore al post prog" e "After the Flood - Progressive Rock 1976 - 2010" sono disponibili tramite questo blog. I costi sono comprensivi di spese di spedizione.
Se volete che la copia sia firmata dall'autore indicatelo nel messaggio di pagamento.(ATTENZIONE: una volta terminate le copie il bottone Paypal vi dovrebbe reindirizzare alla homepage di questo blog).
Di questa nuova band proveniente da Minneapolis avevo letto una intrigante definizione che li paragonava ad un incrocio tra Mutemath e Copeland (dei quali l'ex membro Aaron Marsh ha prodotto il loro EP d'esordio People Are Alike Over). Essendo un fan del primo album dei Mutemath ho dato un ascolto al brano Wander e, devo dire, che tra l'uso del piano elettrico e delle armonie vocali mi è subito piaciuto. Ascoltando il primo lavoro Of Brighter Days, uscito ormai da un paio di mesi,in vari brani vengono in mente paragoni anche con altri gruppi a me cari che sono gli Happy Body Slow Brain (Fiction), Stellar Young (nell'ottima Shadows) e From Indian Lakes (su Brighter).
Chiariamo subito che non si tratta di progressive rock, ma di un suadente indie pop lambito da una sottile elettronica e groove melodici che possono far colpo già al primo ascolto. Con le prime quattro tracce, fino a Wander appunto, Of Brighter Days è un crescendo di emozioni e da rock alternativo prodotto molto bene. Nella seconda parte si trovano anche delle canzoni maggiormente riflessive che hanno bisogno di più ascolti per essere penetrate, ma l'elemento affascinante dell'album risiede nei suoni caldi e avvolgenti determinati dagli strumenti e dalle voci stratificate.
A meno di un anno di distanza dal primo omonimo EP, gli A Formal Horse propongono un'altra breve collezione di cinque brani con Morning Jigsaw che continua su quella scia di poderoso math rock progressivo con riff e ritmi intricati che sfiorano il metal, passando per i King Crimson, come è chiaro negli ampi passaggi strumentali. Ma al trio basso, batteria e chitarra vi è aggiunta la soave voce di Francesca Lewis quasi come elemento inatteso e che si contrappone alla durezza della musica con un tono delicato, portando un tocco di melodia al quadro generale.
In questo post cumulativo voglio segnalare alcuni album strumentali che sto ascoltando in questo periodo e che sono a disposizione in streaming : Sea in the Sky - Serenity; Outrun the Sunlight - Terrapin e il nuovo EP del giovanissimo chitarrista australiano Plini, The End of Everything, nel quale compaiono come ospiti
Chris Letchford (Scale the Summit), Marco Minnemann, Jacub Zytecki (DispersE) e Simon Groove degli The Helix Nebula che sono anche loro compresi in questa lista. Comunque lo vogliate chiamare, prog metal, djent, post djent o post metal, il minimo comune denominatore di questi lavori è una musica strumentale molto tecnica che però, credo, riesca a trasmettere anche qualcosa alla fine, con una particolare attenzione ai Sea in the Sky che ho trovato molto intriganti.
Da una terra lontana come l'Australia forse è naturale aspettarsi che alcune band arrivino da noi a scoppio ritardato. Ora, forse qualcuno avrà già sentito parlare dei Chaos Divine dato che come gruppo sono insieme già da dieci anni e hanno alle spalle due album e un EP (che potete recuperare su Bandcamp), ma penso che questo terzo lavoro, Colliding Skies, darà loro la possibilità di far girare il proprio nome nell'ambiente del progressive metal in modo più efficace.
Colliding Skies è quel tipo di album che presenta un heavy prog che si divide in egual misura tra tecnicismo e melodia attraverso pezzi come Badge of Honour e Soldiers che, senza esagerazioni forzate, sintetizzano con secca efficacia tale formula. Ma l'album è anche un immane mischione di ciò che ha offerto fino ad oggi il crossover underground tra djent e metal espresso da band come Intervals, Tetrafusion e Circles. In un certo senso sarebbe anche doveroso tirare in ballo i conterranei Dead Letter Circus e Karnivool per avere un esatto quadro della situazione. C'è comunque da rilevare che i Chaos Divine non esagerano in tecnicismi, anche se ne avrebbero tutte le possibilità, preferendo privilegiare musiche dal gran respiro epico ed emozionale. Atmosfere nelle quali si immerge la memorabile apertura di Landmines, anche se l'album non riesce sempre a stabilizzarsi su questi livelli.
In pratica i Chaos Divine non sfigurerebbero nella scuderia della Basick Records che sarebbe il caso prendesse nota, dato che un pezzo come Painted in Grey è quanto di meglio si possa chiedere ad una band con queste caratteristiche. Colliding Skies possiede poi delle belle sonorità riverberate e quasi psichedeliche, chitarre stratificate e ritmiche solide che si fanno spazio sull'aerea Tides, su With Nothing We Depart e The Shepherd.Se in sporadici casi l'album può perdere di mordente, le parti strumentali sono sempre ben costruite, rimanendo su tratti progressive rock che ne fanno in ogni caso un ascolto gratificante.
Come spero avrete avuto modo di leggere le Tricot sono le mie nuove beniamine del math rock. Domenica scorsa, per anticipare e celebrare la realizzazione del loro secondo album A N D (in uscita il 18 marzo), hanno suonato cinque pezzi dal vivo in studio e in diretta streaming con l'apporto di cinque batteristi differenti. Da oggi questi esibizione è disponibile in download e streaming su Bandcamp.
Studio Live Sessions on March 8. At this studio live sessions, new songs from the coming 2nd album (released on March 18) were performed with 5 drummers who participated in the recording of the album: BOBO, Munenori Senju, Toshiki Hata (ex. Tokyo Incident), Miyoko Yamaguchi (detroit 7), Kosuke Wakiyama (tabaccojuice).
Suoni e progressioni armoniche non convenzionali, minimalismo e una ricerca quasi ossessiva per l'originalità sembrano essere le prerogative di questo secondo lavoro dei Firefly Burning (prima solo Firefly). Quattro anni fa questo quintetto inglese se ne uscì con il piccolo gioiello Lightships e oggi, inseguendo quelle forme di art rock acustico sperimentale, viene replicato su Skeleton Hill con un atteggiamento intellettuale sempre più teso alla fusione tra pop e avanguardia classica. Già la scelta della strumentazione, che prevede l'utilizzo esclusivo di strumenti acustici (piano, chitarra, violoncello, violino) e ritmiche ridotte all'osso per il peculiare ausilio di metallofoni come gender e gong tipici del gamelan giavanese, è sintomo di una presa di coscienza distintiva per presentarsi come piccolo ensemble di chamber pop più che come una band avant-folk.
I Firefly Burning non sono solo questo, ma anche la straordinariamente duttile voce di Bea Hankey, sono le polifonie vocali dei suoi compagni che si aggiungono alla sua, anche come punteggiatura ritmica, e una sensibilità classica tale da nobilitare una materia da "cultura bassa" come il pop. Se volete dei paragoni si possono trovare delle relazioni con Kate Bush, Bjork e Iamthemorning, ma il tutto è relativo. Skeleton Hill è anche il primo disco prodotto dall'ex Talk Talk Tim Friese-Greene che evidentemente ha trovato nei Firefly Burning delle affinità musicali che lo hanno stimolato in tal senso.
Da oggi è disponibile il mio nuovo libroAltprogcore - Dal post harcore al post prog sia su Lulu.com sia su Amazon. (una quantità limitata è disponibile anche tramite il blog)
La scelta del titolo è stata alquanto ovvia e naturale in quanto esso prende proprio in esame i gruppi di cui, negli anni, si è occupato questo blog.
Essendo ormai giunti ad un periodo storico in cui si possono tirare le somme dell'influenza e dei contorni di un nuovo genere che, a partire dai primi anni 2000, ha fuso in sé le peculiarità del post hardcore e del progressive rock in un unico, esaltante corto circuito sonoro, ho pensato che era giusto raccogliere in un volume la musica che ha ispirato il blog Altprogcore.
Con questo libro ho cercato di raccontare da dove ha preso le mosse questa deviazione hardcore del progressive rock e, conseguentemente, le storie dei gruppi principali che la hanno animata e il loro importante lascito nel rock alternativo contemporaneo.
Si parla di band note e meno note, ma in questa sede non conta l'esposizione mediatica o quanto sia "cool" una determinata band, conta piuttosto la creatività e lo spingersi oltre i canoni del prog rock come abbiamo imparato a conoscerlo.
Quando si parla di progressive rock vengono in mente mellotron, lunghe e contorte suite, liriche che descrivono mondi idilliaci. È possibile però definire prog qualcosa che non risponda a questi dettami, ma si spinga ugualmente oltre i confini del normale rock? Agli albori del nuovo millennio il post hardcore americano, volontariamente o meno, si è trovato al centro di un cambiamento che ha forgiato una nuova idea di progressive rock. La parabola artistica di Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixler-Zavala - prima con gli At the Drive-In e poi con i The Mars Volta - è stata l'emblema musicale di questo nuovo corso che ha unito due stili storicamente antitetici. Accanto ai The Mars Volta un manipolo di gruppi (Coheed and Cambria, Dredg, Oceansize, Biffy Clyro) si è distinto per uno stile che associava le ruvidezze del punk rock alla complessità formale del progressive. "Altprogcore" racconta le loro storie, la loro musica e la nascita e lo sviluppo del post progressive. Recensione su OPEN.it
Il libro Altprogcore parte dal raccontare le storie delle band citate nella copertina, ma da lì si snoda per comprendere tutto ciò che è nato grazie ad esse attraverso interviste, fatti, curiosità e i temi che hanno influenzato i loro album.
Capitoli: I – Planting seeds Post hardcore, emocore, math rock e le loro conseguenze II – Now I’m lost The Mars Volta, Dredg, Triple Crown Records, The Dear Hunter III – House of leaves Equal Vision Records, The Fall of Troy, Coheed and Cambria, Circa Survive, Damiera IV – Places, people, the stage is set Biffy Clyro, Oceansize, Aereogramme V – Final form Frammenti mancanti Appendice: le interviste di Altprogcore
Lo scorso 9 novembre un gruppo di musicisti tedeschi (Stefan Weituschat - lead vocals, guitars, Thomas Elsenbruch - keyboards, Christoph Granderath - guitars, vocals, Jens Grefen - guitars, vocals, Sven Hansen - drums, Max Klaas - percussion, Freddi Lubitz - bass, vocals, Paul Adrian Villareal - vocals), battezzatosi con il nome di The Virgilives, ha portato sul palco l'intera Rock Opera di Kevin Gilbert The Shaming of the True.
Da oggi il gruppo sta caricando su YouTube tutto il concerto e, contando la qualità della performance e che purtroppo non riusciremo mai a vedere tale capolavoro eseguito dal suo autore, questo documento assume un alto valore storico (non a caso lodato anche dal grande John Cuniberti che curò il mix dell'album).
A STATEMENT FROM CASEY CRESCENZO OF THE DEAR HUNTER
Having spent the better part of the last 6 months indoors, I’ve developed a bit of a necessary wall in regards to contact and communications, but Ill do my best in this message to convey surreal internal musings with realistic external translation.
Within the past decade spent behind The Dear Hunter moniker, it would be foolish to say I haven’t swayed with the times, and that I hadn’t rubbed elbows with thoughts of giving into the tide. There has been an always open door behind me, suggesting me to do any number of things to appeal to wider and more quantifiable audiences. However, in times when this door seemed widest of all, I always felt the need to turn and push further away.
It’s a pretty old cliché - the story of a band gaining notoriety on something unique, or at the very least, something honestly themselves - trimming just enough off of who they are to fit the mold, then living out a life of diminishing creative return.
When I started The Dear Hunter, there were never any aspirations associated with fame, or sales… only aspirations associated with creative output, and a cohesive body of honest and progressive work, that at the very least could account as some sort of chronology of my creative life.
Along with that wish to constantly grow as a songwriter, came the desire to improve as a performer. This, at first, felt incredibly foreign to me - as someone who spent almost all of his time locked away creating (a very introverted behavior), the idea of such a social display was frightening. Anyone who witnessed the early shows for The Dear Hunter, can vouch for that palpable discomfort. Over time, I began to discover the live performance as an opportunity to create something new, and fleeting, each night - with an entirely different palette of instruments, both musical and human. Though the fear of the stage, and nervousness associated with outgoing interactions never left, a new feeling eclipsed them both - and with this grew the desire to improve. It was always a journey of some strange faith.
This is what I spend my time doing. My life is lovingly devoted to improving myself in all areas. Mental, emotional, physical, creative, metaphysical… I have always tried to take the same approach with The Dear Hunter, no matter how hard the adversity, whether personal or financial, I have only strived to make better art.
From this desire to grow, and through incredible fortune, I was given the opportunity to design a tour that I had never thought possible. A night devoted to performing with The Dear Hunter and a string quartet.
Luckily, Equal Vision Records was kind enough to furnish us with a system capable of multi tracking the entire tour - something we had never done before. While moments of hilarity exist (and they are wonderful), we’ve lovingly combed through these recordings to bring 10 tracks of this tour to the ears of any and all who might be interested. I hope that you feel, listening to the music, the love and excitement we felt performing.
I wanted to surprise our fans with this release, as it is my gift to you all, for supporting me over the years, and never giving up on me. Thank you, from the bottom of my heart, for your continued faith in The Dear Hunter.
I want to humbly ask you all to share this letter. Word of mouth has always been the lifeblood of this music, and the suggestions of good friends always outweigh a well placed banner ad.
I leave you all now, scurrying back into my cave with my nose to the grindstone, preparing the next record for The Dear Hunter… It is coming along swimmingly, and I can’t wait to share it with you all. Please keep your eyes peeled for Act IV: Rebirth in Reprise, coming later this year.