C'è questo album che probabilmente avrete sentito nominare, visto che è uscito da un po', Solace è la prima opera degli Held by Trees, un collettivo guidato dal musicista David Joseph che, non solo resuscita le sonorità ambiente/post rock dei due leggendari album dei Talk Talk Spirit Of Eden e Laughing Stock, ma va a pescare un legame diretto da quel lascito grazie al coinvolgimento di musicisti associati a quel gruppo (pure il responsabile dell'artwork James Marsh) e all'unico album da solista Mark Hollis che ne riprendeva le peculiarità. Oltre ai titolari chiamati da Joseph che includono Tim Renwick (Pink Floyd, Al Stewart), David Knopfler (Dire Straits) e Eric Bibb, si aggiungono Robbie McIntosh, Martin Ditcham, Simon Edwards, Lawrence Pendrous e Andy Panayi. Solace riprende anche i principi compositivi di quegli album, basandosi sull'improvvisazione e su progressioni di accordi scritte da Joseph sulle quali i musicisti hanno aggiunto le proprie "impressioni". La cosa che mi ha colpito è che il tutto funziona, anche tenendo presente che non è affatto semplice ricreare quelle atmosfere e, anche se ci troviamo su territori già battuti, la materia manipolata è così suggestiva da non risultare uno sterile esercizio di stile.
Interessante progetto messo insieme nel 2012 da Luigi Varanese, Costantino Mazzoccoli,
Emanuele Orsini e Ezio Romano. Gli Earthset, tra dissonanze, noise, minimalismo e post rock, con Bound mettono su disco un viaggio sonico registrato in un'unica sessione così come è inteso venga ascoltato. Alternando dolcezza indie rock a irruenza post punk, Bound mantiene una solida costanza e unitarietà, come prevede il concept, caratteristiche che ne fanno un'immersione tra le pieghe chiaroscure suggerite dai timbri ora aspri ora puliti della strumentazione. L'album, come ci informa la band, ha una valenza multimediale: "non è solo un LP, ma un'unitaria opera d'arte che abbraccia musica, letteratura, fotografia, performance live e arti visive.
Il tema centrale, le "relazioni", umane e non, quale base su cui poggia l'esistenza, , è la chiave di lettura
dell'intero progetto e della scelta di registrare il disco dal vivo, in un'unica sessione senza a soluzione di
continuità. Ogni canzone è collegata alla precedente ed alla successiva, ogni brano ha il proprio video che,
unitamente agli altri, andrà a comporre un'unica narrazione audiovisiva."
Questi alt. erano l'unico nome che non conoscevo nel cartellone di questa serata pazzesca che vede importanti nomi del prog australiano in concerto. Ovviamente il loro relativo anonimato è dato dal fatto che sono esordienti avendo pubblicato l'EP Dysfunctional nel 2020. Incuriosito dall'abbinamento quindi gli ho dato un ascolto e la reazione è stata tra il piacevole e il cringe. Gli alt. partono da un post metal molto incline all'accessibilità, sulla linea dei Dead Letter Circus, giusto per citare un'altra band australiana. Solo che quando la parte electro pop inizia a prevalere gli alt. sconfinano pericolosamente nel kitsch del nu metal.
Dopo la dissoluzione degli A Lot Like Birds alcuni dei componenti si sono impegnati in vari progetti (Royal Coda, Gold Necklace). Il fondatore di quel gruppo, il polistrumentista Micheal Franzino, si era dedicato finora a lavori di produzione e da qualche anno a quello che adesso si è rivelato il suo nuovo progetto, i Moxy The Band, formato con la sua fidanzata Amber DeLaRosa e Dryw Owens, con il quale nel 2015 aveva anche prodotto il suo debutto solista alone. The Cost è il primo singolo ad essere reso noto dal trio e nell'album di prossima pubblicazione tra gli ospiti ci saranno Yvette Young (violino) e un altro ex ALLB: Joseph Arrington alla batteria. Ovviamente il genere non è più il cervellotico experimental post hardcore degli ALLB, ma un levigatissimo e sofisticato synthpop abbastanza ben realizzato da accendere la curiosità per il resto.
Rimanendo in tema, il batterista Joseph Arrington ha preso parte al terzo album dei Secret Gardens, progetto del chitarrista Greg Almeida. Everbloom è un interessante studio e variante sul tema dello stile che fonde post rock, ambient e prog fusion sulla falsariga del patinato chitarrismo di Plini. "Variante sul tema" perché all'interno di ogni pezzo Almeida mette sul piatto timbri, colori e stili disparati che possono anche cozzare tra di loro, rendendo così lo sviluppo e il relativo punto d'approdo imprevedibile. Il grande apporto ritmico di Arrington (co-autore di quattro tracce) aggiunge un tocco di impagabile dinamismo ed in più c'è spazio pure per le ospitate di Brandon Ewing (Gold Necklace) alla chitarra su Coastal Cadence e di Andrew Wells (Eidola) alla voce nel brano Sunshower.
Gli Sweet Pill sono una band di formazione relativamente recente (2018) e prova ne è il qui presente debutto Where the Heart Is che si guadagna subito un posto nella scuderia della Topshelf Records, una delle label più ispirate nel lanciare gruppi di estrazione indie, emo e post punk. E proprio questi due ultimi generi sono presi a soggetto dagli Sweet Pill per dare voce ad un lavoro in cui si assorbe e si respira la giovinezza e l'irrequietezza dei componenti, portate a galla dai testi della cantante Zayna Youssef con tutte le frustrazioni tipiche della loro età. Caratterizzate da una forte energia e dall'irruenza liberatoria, dalle canzoni però traspare tutt'altro che spensieratezza, ma le classiche preoccupazioni per il futuro e le mille insicurezze che ci assalgono nel "post-coming-of-age".
Gli altri componenti Jayce Williams, Chris Kearney, Sean McCall e Ryan Cullen accompagnano la voce passionale della Youssef con contrappunti e fraseggi chitarristici ripresi tanto dall'emo quanto mutuati dal math rock e in poco più di ventotto minuti mettono a segno una serie di brevi ragnatele d'impressionismo su musica. Il realismo quotidiano raccontato dalla Youssef trova quindi una tela musicale più varia, elaborata e dinamica del classico emo o pop punk, che catapulta gli Sweet Pill di diritto nella mischia della quinta onda emo, regalandoci piccoli gioielli come Diamond Eyes, la title-track e High Hopes. Nella loro brevità essenziale le canzoni che compongono Where the Heart Is sono abbastanza interessanti da uscire dalle strutture omologate del pop punk grazie all'ormai consolidata adozione di canoni math rock, utilizzati per costruire tensioni e dinamiche che rendono avventurosi anche i pezzi di pochi minuti.
Il rapporto con i Coheed and Cambria può essere frustrante, poiché nella loro carriera ormai ventennale sono passati da album brillanti e intuizioni ad alto potenziale ben esposte, ad altri in cui le loro doti vengono sopraffatte da ipertrofiche repliche di idee riciclate, appesantite da dimenticabili melodie. Dopo il mezzo passo falso con The Color Before the Sun (2015),
che per i Co&Ca era praticamente la prima raccolta di canzoni inedite slegata da
qualsiasi contesto della saga "Amory Wars", Sanchez e soci nel 2018 hanno optato per
un ritorno alla forma con Vaxis – Act I: The Unheavenly Creatures. Vaxis II: A Window of the Waking Mind, che sarebbe dovuto uscire il 27 maggio ma poi è slittato a giugno per il diffuso ritardo nella manufattura dei vinili (grazie Adele!), è il decimo album del gruppo e, come il titolo fa intuire, rappresenta il secondo capitolo di una nuova storia all'interno dell'ormai infinita saga sci-fi.
Questa volta però, al di là di qualsiasi giudizio e punto di vista si consideri, Vaxis II è il primo lavoro dei Coheed dopo molto tempo a provare e ad aggiungere qualcosa di nuovo nel loro universo sonoro e allo stesso tempo a rimanere fedele alla propria estetica. Non per questo però bisogna mettere le mani avanti e si dia per scontato che l'esperimento sia riuscito. A giudicare dall'intro solenne di The Embers Fire, pare attenderci un viaggio epico in un concept emo per emarginati, nella vena dei My Chemical Romance, ma Beautiful Loser e Comatose rientrano in piena modalità emocore/pop punk col marchio Co&Ca, ripresa più avanti anche da The Liars Club. Cadenzato da un ritmo moderato la prima, più propulsive le ultime due, ma fondamentalmente tutte e tre focalizzate nel dare una differente lettura di cosa significa per la band scrivere pezzi ad alto tasso di contagiosità. Un proposito o concetto, quello della maggiore semplificazione, che sembra essere al centro della direzione dell'album, dato che le prime 10 tracce non toccano mai e non vanno oltre i quattro minuti di durata.
Il timbro elettrico virulento che assume Shoulders è vicino all'industrial/nu metal e dona al brano un aspetto aggressivo, salvo poi tornare durante il chorus sui canoni cantabili alla Coheed. Con A Disappearing Act si ha il primo assaggio delle nuove contaminazioni portate in dote da Vaxis II, le quali vedono intento il gruppo a flirtare con il pop e il synthpop come mai fatto finora: ritmiche che sfiorano la dance, refrain tastieristici ballabili che si incontrano con cadenze da arena rock. L'esperimento continua su Love Murder One che appare come una articolata hard rock ballad con un groove ritmico killer, ma la vera sorpresa è l'uso dell'autotune da parte di Claudio Sanchez. Il principio si spinge al limite su Bad Man, che è un ibrido di electro rock e synthpop abbastanza dimenticabile.
Negli ultimi tre brani i Coheed riprendono il timone del loro spirito primario e, se con Ladders of Supremacy attivano la modalità "epic prog" grazie alla quale sembra essere tornati ai tempi del dark metal progressivo di Good Apollo, I'm Burning Star IV, la seguente RiseNaianasha (Cut the Cord) ne abbraccia la parte più melodica e anthemica. Il gran finale riservato dalla title-track spende la carta della grandiosità alternata alla pomposità, ponendo in sottofondo un'orchestra con fiati e archi che fanno da sfondo ad uno sviluppo multitematico dove si contrappongono marziali esplosioni elettriche e movimenti da colonna sonora. L'amalgama suona come qualcosa di mai provato nell'universo Coheed, forse la cosa più vicina che abbiano mai prodotto alla natura "cinematica" della loro saga . Il che suona strano che ci siano arrivati solo ora, per un gruppo che ha fatto della narrazione per immagini il proprio scopo stilistico. Tutto considerato Vaxis II ha dei buoni momenti, ma manca quella scintilla che possa far spiccare almeno due o tre brani per renderlo al pari delle loro migliori prove, ma va piuttosto ad attestarsi in un punto intermedio del loro repertorio.
Questa vuol essere un nuovo tipo di rubrica non continuativa, come lo è quella delle scoperte del mese, ma una specie di esperimento per ora. In pratica l'idea è di raccogliere pensieri su album usciti in settimana o ascoltati di recente che 1) o non ho avuto tempo di recensire 2) o non mi hanno stimolato abbastanza per scriverne nel dettaglio, ma che comunque ho voglia di condividere perché meritano la vostra attenzione. (Il titolo della rubrica si ispira alla fan page degli Yes).
Dopo una campagna Kickstarter per finanziare il nuovo album, ritroviamo i The Family Crest a quattro anni di distanza dal primo capitolo con The War: Act II. Diciamo che per un gruppo indipendente non è sicuramente una passeggiata racimolare un budget adeguato per una concezione musicale a grande respiro come quella dei The Family Crest. Infatti si tratta di un pop barocco orchestrale con grandi potenzialità commerciali, per la sua accessibilità e la sua componente romantica ad alto tasso di melodia. Forse a lungo andare è proprio tale aspetto a rendere il tutto un po' troppo sdolcinato e stucchevole, ma di positivo c'è che in qualche passaggio è presente quel gusto di alternative prog sinfonico abbracciato anche dai The Dear Hunter.
Se da molte parti sto leggendo che Raw Data Feel è diventato all'improvviso il miglior album degli Everything Everything, superando in eccellenza Get to Heaven, ovvero quello che finora era ritenuto il lavoro più solido del gruppo, vuol dire che ho dei seri problemi a connettermi con la percezione imperante, dato che non ritengo entrambi lontanamente paragonabili all'eccellenza di Man Alive. Va dato atto agli EE di aver portato con Raw Data Feel il synthpop, ma pure la dancepop vista la direzione radicale, in territori inusuali per il genere. Ma tutto si risolve in un art pop che perde di vista il gusto decostruttivo del math rock, con ritornelli talvolta troppo ripetitivi, che si usurano dopo qualche ascolto, e in una predominanza di una straripante elettronica che soffoca il talento dei quattro strumentisti, come l'insistere sui drum beat programmati invece che utilizzare le doti di un batterista sopraffino come Micheal Spearman.
I FES sono già stati presentati in passato in questo blog, ma ora è arrivato per loro l'importante momento dell'esordio con With Regards Form Home. Il trio, guidato dalla cantante/chitarrista Pollyanna Holland-Wing, firma un album math pop di tutto rispetto, gradevole e scorrevole da ascoltare, con molti punti in comune con gli altri gruppi della "math rock wave" inglese come Orchards, Sketchshow, Signals.
Ho iniziato ad apprezzare i Moon Tooth con il precedente Crux e, per quante lodi stia accumulando il nuovo Phototroph, non mi ha coinvolto in modo altrettanto efficace. Certo, è sempre una potente collezione di pezzi granitici, ma questa volta mi pare tutto molto più diretto verso un metal pirotecnico dall'immediatezza quasi pop, che ha perso quella sottile componente prog. In questo ci sono sicuramente brani di spessore che si ricordano più di altri, come I Revere, Alpha Howl o Nymphaeceae, ma non tutto è solido come l'opera precedente.
Il chitarrista Ryan Albert Miller è ormai un veterano della sperimentazione in ambito avant-garde, toccando con i suoi vari progetti U SCO, Teton e With Eyes Abstract vette di astrazione free form che di solito si ammassano in un groviglio ai limiti dell'indeterminazione sonora, sfiorando cacofonica e dissonanza. L'ultima sua avventura musicale è il supergruppo mmulreso, messo insieme nel 2019 e formato con il batterista Danny Piechocki (Ahleuchatistas, Terms) e i bassisti Andrew Jones (Julia Holter band, Teton, The Crenshaw) e l'apprezzato Logan Kane (Thumpasaurus).
Il primo album di questo combo è fate wave che, rispetto alle precedenti esperienze di Miller, appare leggermente più orientato ad un caos organizzato dal quale emerge, se non una parvenza di direzione formale, qualche traccia di armonia. Il fatto è che l'architettura sonora appare così intricata, tanto che ogni strumento si accavalla sull'altro, formando una nebulosa timbrica compatta in perpetuo movimento. aerial bell è quasi melodioso nei suoi groove geometrici e le sue continue disgregazioni in mille rivoli, che vanno ad erodere i confini tra math rock, prog e jazz, come insegnano i Monobody, e ne fanno una delle composizioni più stimolanti ascoltate ultimamente.
Ma che per Miller e il resto della band la partitura ritmica rivesta un ruolo preponderante rispetto a quella armonica lo conferma owl, nella quale non si trova un filo conduttore armonico nell'ammasso frenetico di note che viene vomitato dalla chitarra perennemente irrequieta - come un incontro tra il virtuosismo zappiano di Mike Keneally e l'aleatorietà di Henry Kaiser -, ma il tutto si dipana in funzione delle tentacolari deviazioni percussive, caricate come una sorta di moto perpetuo nello scandire tempi complessi e macchinosi.
Se glowworm conferma tale aspetto e prospettiva, beam shear colleziona una serie di scombinati arpeggi e riff all'insegna del math rock più convulso, mentre il suo seguito beam shear [alt] e arp salix sono dei saggi di "guitar craft" frippiana ipercinetici, che appaiono discendere direttamente da quello che sembra un ramo derivato dai "projekct" crimsoniani giunto dal futuro. Il disco è completato da cinque brevi bozze sonore basate sull'improvvisazione che si dedicano maggiormente all'avant-garde atmosferico e che fanno di fate wave una totale esplorazione delle molteplici forme di cui si nutre il prog (jazz, classica contemporanea, metal e math rock) portandole all'estremo. Un album affascinante e stimolante al quale però bisogna approcciarsi con il giusto stato d'animo per concentrarsi nell'ascolto e godere appieno della sua complessità.
I Gospel rappresentano un'altra realtà all'interno del prog hardcore del tutto sconosciuta dalle nostre parti (e con questo non intendo solo l'Italia), però venerata come un culto su suolo statunitense per la sua importanza nell'aver apportato nuovi parametri nel genere. Il gruppo di Brooklyn è stato fino ad oggi autore del solo The Moon is a Dead World, prodotto da Kurt Ballou dei Converge, che quando fu pubblicato nel 2005 passò quasi inosservato, tranne per quei pochi che seguivano con devozione la scena hardcore di Long Island, che all'epoca era in pieno fermento (qui si può leggere un interessante resoconto del contesto in cui nacque l'album), guadagnandosi anche le lodi di quei barbosi di Pitchfork.
Nel corso del tempo la sua fama di opera seminale per definire e consolidare con maggior incisività il rapporto tra post hardcore, prog rock e screamo è cresciuta fino a raggiungere lo status di valenza imprescindibile per l'evoluzione del genere. Come successo per i The Mars Volta, i Gospel si erano impegnati a rendere cerebrale il punk hardcore, ma con caratteristiche ancora più accese ed estreme. I synth, l'organo e le tastiere di Jon Pastir fuse con la chitarra e una sezione ritmica guidata dalla batteria indomabile di Vincent Roseboom, formavano un requiem sinfonico incessante contrappuntato dalla vocalità screamo di Adam Dooling, per arrivare ad un punto di saturazione di ogni aspetto, così come sintetizzato da Rolling Stone, "Received rock wisdom teaches us that punk and prog are sworn enemies. But by the early-to-mid-2000s, genres that seemed worlds apart in the late Seventies had started to creep closer together. The Mars Volta’s psychedelic 2002 post-hardcore fever dream De-Loused in the Comatorium suggested a wondrous hybrid; further underground, a one-off album by an obscure New York band called Gospel made these active ingredients explode."
I Gospel si erano sciolti subito dopo quella prova, quasi nell'indifferenza generale, ma come spesso accade in questi casi, il riconoscimento postumo della loro influenza ha fatto in modo di trasformare The Moon is a Dead World in qualcosa di leggendario. E in un certo senso anche questo fattore ha contribuito a preparare il terreno ad un loro lento ritorno sulle scene, iniziato con una reunion nel 2010 per suonare alcuni concerti, seguito poi dal singolo inedito Tango, che faceva presagire l'arrivo imminente di un secondo album, ma al contrario il gruppo tornò ben presto in una pausa indefinita.
Solo ora, a distanza di 17 anni da The Moon is a Dead World, i Gospel si ripresentano con nuovo materiale raccolto su The Loser, ancora una volta prodotto da Ballou. Un ritorno che a suo modo quindi rappresenta un evento. Anche se di acqua sotto i ponti ne è passata, l'approccio dei Gospel alla materia non è cambiato: il tappeto strumentale ribolle di magmatiche note di organo, l'andamento si dispiega musicalemnte in modo simile a delle jam session che improvvisano cavalcate prog e math rock, e per rifinire il tutto e sollevare ancora di più la tensione Dooling non lascia scampo alle mezze misure con il suo cantato screamo, isterico e melodrammatico. E alla fine è quest'ultimo l'elemento che rende il pulsare porg hardcore della musica dei Gospel non per tutti i gusti. L'impianto sonoro che scaturisce ha comunque la stessa dirompenza, traducendo nel contesto contemporaneo le medesime asperità elettriche pre-punk anticipate dai Van der Graaf Generator (Bravo) e le elucubrazioni proto metal dei King Crimson, sfociando talvolta in vere e proprie ondate epiche di space punk sinfonico (Hyper, S.R.O.), come una versione più schizzata e punk dei The Mars Volta (Tango).
La musica dei Gospel in pratica ha ripreso il discorso interrotto all'improvviso con la stessa enfasi e veemenza di molti anni fa, senza perdere quello slancio che all'epoca gli fece acquistare i tanti consensi, in un crogiolo che unisce due generi distanti, che ormai abbiamo imparato a conoscere, con ancor più radicalità di altri colleghi. Ovviamente questa estremizzazione dai due lati può piacere o meno, ma ciò non toglie che i Gospel siano di diritto tra i pionieri che hanno spinto e sperimentato nuovi confini per il prog.
Attivi fin dal 2017 con il nome Xero, Steff Fish (voce), Jamie Southern (chitarra), Jordan Gregory (basso) e Alex Black (batteria), per il loro esordio hanno deciso di cambiare nome in Giant Walker e dare una svolta più concreta e matura al proprio sound prog metal. Anticipato da quattro potenti singoli, l'album All In Good Time è il risultato di una paziente ricerca d'identità e di una scrittura (avvenuta nei primi mesi del 2020 in pieno lockdown) che possa racchiudere nel medesimo ombrello efficaci riff heavy prog, incisive linee melodiche e allo stesso tempo abbia le caratteristiche di far presa sui fan del genere, cercando di evitare il rischio di passare inosservati nella già abbondante proposta metal. Insomma, il gruppo è voluto arrivare all'appuntamento del primo album senza che nulla sia lasciato al caso, come ne è un'altra prova la scelta di Chris Coulter (Arcane Roots, Jamie Lenman) come produttore e ingegnere del suono.
I Giant Walker non fanno mistero di essere influenzati da Karnivool, Tool, Deftones e Soundgarden, giusto per chiarire a quali latitudini musicali ci avviciniamo, e All In Good Time mantiene le promesse nel regalare un susseguirsi praticamente incessante di riff che vanno dall'elaborato al viscerale, ma sempre con abbondante distorsione, quasi a sfiorare in alcuni casi i cupi abissi del djent. A far trapelare la luce in tanta aggressività è la melodiosa, cristallina e duttile voce di Steff Fish, la quale si porta dietro un adeguato bagaglio di studio e preparazione professionale. The Fact In Fiction, non a caso posta in apertura, è un po' la summa e un po' il migliore esito di questa dirompente miscela delle parti che è subito controbilanciata dalla pur buona Katoomba, senza però procurare particolari sorprese o sussulti.
La sferragliante Podha (ripescata e aggiornata dal repertorio degli Xero), in coppia con la martellante Left to Wreck, ci trasporta nei gorghi oscuri dei primi Tool, quando ancora agli albori traspariva in loro un'ombra di grunge. Inertia e Past the Peak donano un tocco etereo e post rock al massiccio contorno sonoro, ma comunque si mantengono fedeli a strutture formali ortodosse, senza particolari deviazioni. Ed è da questo lato che spunta il richiamo a territori più convenzionalmente rock vicini al grunge e all'alternative (Optophobia e All We Have is Gone) e il prog passa sullo sfondo. Come ibrido All In Good Time offre quindi il meglio dei due mondi, anche se non rivoluziona alcunché, convergendo su un'accessibilità potenzialmente aperta a gusti trasversali.
Una band tra il post rock, il post hardcore e il post metal quella che appare dal primo EP Beasts of a Future Decay, con il quale si presentano già sicuri dei loro mezzi i Design Flaw.
Anche il quartetto norvegese Tenderton è all'esordio con The Chateau, qui siamo però su coordinate differenti. Il gruppo, neanche a dirlo, si allinea alla rigorosa estetica del prog scandinavo, utilizzando tutta la serie di strumentazione vintage che vuole la prassi, però lo fa in modo che sia percepito meno il pesante legame con il prog classico del passato. I brani strumentali risultano ben eseguiti e composti, così The Chateau diventa un bella novità nel panorama prog scandinavo.
Sempre dalla Norvegia arrivano i Soft Ffog ed è il primo gruppo ad inaugurare l'etichetta Is It Jazz? Records che nasce come deviazione della Karisma Records, indirizzata a suoni orientati verso il prog jazz, come il nome fa intuire.
Misteriosa band, o progetto solista, proveniente da Milano, di cui si sa poco o nulla. I Fight for Attention per ora hanno pubblicato solo due singoli di cui The Point è il più recente, abbastanza però da incuriosire per una buona miscela tra prog e alternative rock.
Former Wrestlers non è altri che il chitarrista Derya Nagle, ex The Safety Fire e ora nei Good Tiger. Champion of the World è il suo primo EP da solista nel quale suona lui stesso ogni strumento.
Da qualche anno il chitarrista e cantante Nathan Kane ha creato i Whale Bones, sua creatura musicale con cui ha esordito nel 2018 con l'album Island Fire. Il lavoro si va ad inserire in quell'alternative americano che, dentro brevi canzoni, riesce ad assemblare sonorità post hardcore, post rock e prog senza mai portare all'estremo nessuna di esse.
Ormai insieme da più di dieci anni, i Caterpillars nei loro album sono riusciti sempre con grande coerenza a pagare tributo ai grandi nomi dell'emo come Sunny Day Real Estate, Mineral, Penfold.
Il quarto album Frontier For The Fallen non è da meno e condensa ancora una volta con efficacia la poetica estetica
dell'emo di quei gruppi.
A distanza di quindici anni dalla loro dissoluzione e con soli due
album in carriera prodotti tra il 2005 e il 2007, è quasi naturale essersi dimenticati dei The
Receiving End Of Sirens. In realtà il gruppo non ha mai raggiunto un successo
clamoroso durante la sua esistenza e neanche è stato soggetto di una doverosa
riscoperta tra i tanti vari revival che costellano la nostra epoca. Il che non
faccia pensare ad una mediocre proposta musicale, anzi tutt’altro: i The
Receiving End Of Sirens sono stati fautori di una complessa e ambiziosa fusione
prog hardcore che in un certo senso ha anticipato i tempi. E forse la causa
della loro relativa scarsa fama va ricercata proprio in questo ibrido spinto ai
massimi livelli e destinato a schiacciarli sotto il peso della loro
intraprendenza. Troppo prog per attrarre i fan del post hardcore e poco emocore
per fare tendenza. È anche vero che i due album in questione generarono una
divisione netta tra i consensi, anche se quelli positivi superarono quelli
negativi.
Partendo dall’inizio della storia e facendo una breve introduzione, i The
Receiving End Of Sirens si formarono a Boston nel 2003 con un nucleo originario
che comprendeva Brendan Brown (basso, voce), Alex Bars (chitarra, voce), Nate
Patterson (chitarra, tastiere) e Andrew Cook (batteria), riuscendo a registrare
alcuni demo. Nel 2004 si aggiunse alla formazione Casey Crescenzo (chitarra,
tastiere, voce) con il quale registrarono nello stesso anno il primo omonimo EP, seguito dal primo full length Between The Heart And The Synapse, pubblicato il 26 aprile
2005. Quest’ultimo eleva con effetto immediato i The Receiving End Of Sirens a
nuovi pionieri del prog hardcore. Sia i temi trattati che le musica proposta appaiono
frutto di un lavoro ricercato e fuori dai soliti schemi del genere, privilegiando
la sperimentazione multitematica piuttosto che la melodia pop punk di facile presa. I brani,
compreso il singolo Planning a Prison Break, si dipanano a più riprese con
variazioni e cambi che molto spesso guidano a continue reinvenzioni della
trama. Il tessuto sonoro è ricco ed eterogeneo, mescolando spore di elettronica e beat programmati
a riff da arena rock e fraseggi math rock. A tutto questo imponente impianto si somma un
cantato a tre voci che può oscillare tra la polifonia o l’uso della chiamata/risposta,
che aumenta in modo esponenziale l’accavallarsi delle parti.
Proprio questo flusso di idee in continuo mutamento non
rende facile l’assimilazione dei 70 minuti dell’album che, se preso nella sua
totalità, somiglia a un tour de force di experimental post hardcore,
sottogenere del quale Between The Heart And The Synapse è sicuramente uno dei
primi esempi. Se non ascoltato con la giusta attenzione, può rivelarsi
dispersivo e caotico, e questa sua costante elusività nel rincorrere a parametri
prog e free form all’epoca ha probabilmente ha complicato il rapporto col pubblico
emo/hardcore. Ovviamente non mancano i chorus epici e risplendono quasi in ogni
brano, da ThisArmistice a The War of All Against All, da The Evidence a Venona, ma sono incastonati in una
materia così instabile e complessa da essere inghiottiti dalla grandiosità del
tutto. I testi dell’album non sono da meno, con il ritratto di William
Shakespeare a fare da nume tutelare in copertina, si spazia da allitterazioni,
metafore, giochi di parole, Romeo e Giuletta, per una caccia al tesoro sui
significati nascosti che possono ricondurre ad una storia unitaria dalle
molteplici interpretazioni.
Dopo questo album Crescenzo fu licenziato dalla band in
maniera abbastanza brusca e gelida. Ma lui stesso ammetterà in seguito di aver
avuto una certa responsabilità sulla scelta e le cause. In pratica alla
conclusione del tour di supporto all’album nel 2006, Crescenzo si ritrovò in un
forte periodo di stress che aveva minato la sua salute e il suo stato mentale,
allontanandolo dal resto del gruppo, in alcuni casi anche in modo conflittuale.
Quindi la decisione da parte dei suoi compagni di rimuoverlo dalla line-up fu inevitabile
e il suo posto venne preso da Brian Southall.
The Earth Sings Mi Fa Mi
Il secondo album The Earth Sings Mi Fa Mi, pubblicato il 7
agosto 2007, se possibile era ancora più ambizioso e non accettava compromessi
nel rafforzare la componente prog e sperimentale, un fattore indirizzato
soprattutto alla ricerca di un “wall of sound” ibrido che potesse contenere elementi
di alternative rock così come quelli di elettronica e manipolazione sonora.
Ovviamente tale scelta finì per rendere ancora più netta la linea di
demarcazione tra detrattori ed estimatori. Anche il concept dell’album seguiva
questa linea bipolare: partendo dalla teoria dell'astronomo Giovanni Keplero secondo la quale il
moto dei pianeti intorno al Sole genera per ognuno di essi un’armonia specifica, il gruppo arriva
a parlare della dissoluzione dei rapporti personali e famigliari.
Catturati tra
lo spazio e la Terra i The Receiving End Of Sirens ritornano di nuovo all’elusività
dell’esordio, ma questa volta lo fanno con un lavoro più cervellotico, elaborato
e sofisticato. Swallow People Whole è proprio un brano atipico per il genere,
con bordoni elettronici di basso, ritmiche programmate pulsanti e tappeti di tastiere
che fanno da preambolo ad un crescendo insinuante che rimane sempre sullo
sfondo non esplodendo mai veramente. Con Disappear (Oubliette) e Smoke and
Mirrors si ritorna brevemente sui binari post hardcore, ma The Crop and the
Pest pone con grande lucidità tutte le potenzialità di questo nuovo ibrido di
emo psichedelico scontrando synth e chitarre. The Salesman, The Husband, The
Lover porta a compimento il modello di tale direzione in una serie di chorus
ricorrenti sempre più ricchi (si sentono anche gli archi), intermezzi e breakdown, che testimoniano l’espansione
strumentale. A tal proposito si nota come l’uso delle tre voci, di nuovo presente
come tratto distintivo del gruppo, questa volta venga posto leggermente più
basso nel mix, come offuscato e avvolto dall’ingente impasto degli strumenti.
A Realization of the Ear, che riprende e riporta in primo
piano gli elementi di elettronica dell'introduttiva Swallow People Whole, è come se aprisse una
seconda parte, seguita anche qui dalla vitale melodrammaticità post hardcore di
Saturnus. Wanderers, con un attacco tribale nel quale si celano certe sfumature
sonore che ricordano i Pink Floyd, va a consolidare quel tratto psichedelico
tanto in sintonia con il cosmo, quasi a vagheggiare il lato space rock dei Cave
In. D’altra parte Brown stesso aveva dichiarato all’epoca: “L'idea era che le
canzoni fossero già là fuori nello spazio; era solo il nostro lavoro mettere
insieme i pezzi”, forse parafrasando il concetto di Michelangelo nel rapporto tra scultura e marmo.
Alla fine le due anime che hanno pervaso tutto l’album si
ritrovano nella lunga coda finale rappresentata da The Heir Of Empty Breath e
Pale Blue Dot, a coronamento di un magnum opus nuovamente divisivo. Se Between
The Heart And The Synapse aveva le potenzialità per spaccare in due il
pubblico, di sicuro The Earth Sings Mi Fa Mi le ha amplificate e portate ad un
nuovo livello. Un’opera ancora più ostica e personale nelle sue idiosincrasie e molto più
difficile fare propria rispetto al predecessore. Fatto sta che The Earth Sings
Mi Fa Mi rimane un esperimento unico nel suo genere, adattando elementi esteticamente
distanti come elettronica, beat programmati e strutture prog ai voleri dell’emocore.
Di lì a poco, nel marzo 2008, i The Receiving End Of Sirens si sciolgono, salvo poi riunirsi tra il 2010 e il 2012 solo per qualche concerto, ma senza produrre nuovo materiale. Il caso ha poi voluto che nel 2020 avessero annunciato un reunion tour con tutti i membri originali (anche Crescenzo), però il Covid si è messo di mezzo ed è tutto sfumato nel nulla. Per chi volesse approfondire, qualche anno fa è stato reso disponibile dalla loro etichetta Triple Crown Records un documentario dal titolo The Lost Tape.
Gli Empire Springs si sono rivelati al pubblico all'inizio di quest'anno, palesandosi con i due singoli Broken Glass e Ascend che hanno anticipato il disco d'esordio The Luminescence (ma non contenuti in esso). Il gruppo è nato come un progetto di studio tra gli amici di college Brett Bellomy (basso/voce), Michael Naro (chitarra), Chadwick McDowell (tastiere) e Ethan Standard (batteria) e nel momento in cui sono iniziati a germogliare i primi pezzi i quattro si sono spesi con costanza nella pratica di prove per affinare tecnica e sound del materiale. I principali autori sono Bellomy e Naro che, partiti da dei demo, hanno in seguito coinvolto McDowell e Standard per fargli aggiungere le loro parti. Nelle fasi finali della produzione gli Empire Springs sono riusciti persino a coinvolgere il tastierista Eric Guenther dei The Contortionist per rifinire e dare piena forma a The Luminescence.
L'inaugurazione strumentale di Chasing Light ricorda in effetti il djent ambient dei The Contortionist, ma nel suo dipanarsi l'album prende una piega maggiormente indirizzata ad una personale interpretazione di prog metal atmosferico e psichedelico. Ad esempio, l'altro strumentale posto quasi in chiusura Apostasy è concepito come un interludio multipartito, che vuole racchiudere in sé tutte le sfaccettature dell'opera. Transit pone le basi per ampi spazi dominati da rifrazioni di tastiere e fluide chitarre elettroacustiche. Sullo sfondo fluttuano echi e riverberi delle stratificazioni strumentali che si sommano in una bolla evanescente, come in This Place e Protector, che rimane costante anche quando entrano in gioco le distorsioni chitarristiche.
Talvolta la componente metal prende il sopravvento e affiora il gusto per tecnicismi, tipo su Galatia e nella title-track, dove la materia si fa elaborata e allora si va a sfiorare quei territori più compositi vicini ai connotati djent dei Tetrafusion. Non mancano richiami neoclassici, accennati dalle tastiere sulla title-track e poi palesati con maggior rilievo su Khan e Drawing Lines. The Luminescence è quindi un album che può offrire alcuni buoni spunti agli amanti del genere, pur rimanendo un lavoro nella norma, che non fa gridare al miracolo, ben orchestrato e prodotto.