La recente scoperta dei Lakes attraverso il primo album The Constance LP mi ha portato automaticamente alla conclusione che il sestetto di Watford sia la miglior espressione inglese del midwest emo, genere di origine prettamente statunitense. Quell'esordio era praticamente perfetto e non aveva una traccia fuori posto, coglieva in pieno la malinconia crepuscolare del genere ma con un effetto di sottesa spensieratezza e leggerezza che si apriva ad ariose melodie. La seconda prova Start Again, registrata e concepita durante il lockdown, è nata forzatamente con tutti i presupposti e le condizioni per amplificare quella parte di sentimenti più depressivi e nostalgici nei quali l'emo ama crogiolarsi, tanto più se si pensa che anche i testi sono dedicati ai traumi e alle afflizioni legate a questo periodo di solitudine e isolamento.
I Lakes al contrario si pongono al lato opposto della barricata, guardando al futuro con fiducia e ottimismo, come il primo singolo tratto dall'album, e da cui prende il titolo, è una chiara esortazione alla rinascita. L'intreccio delle tre chitarre di Roberto Cappellina, Rob Vacher e Gareth Arthur tra arpeggi elettroacustici e delicati riff, è ciò che lega di più la band all'estetica midwest emo, in più abbiamo il valore aggiunto del glockenspiel e della voce della nuova arrivata Blue Jenkins (che ha sostituito Sam Neale, fuoriuscita dal gruppo poco prima della pandemia). Ma l'abile scrittura di Cappellina e del batterista Matt Shaw mette in atto una contrapposizione di stampo pop dai colori accesi e pastello.
Per questo le tracce coprono musicalmente un duplice stato d'animo: quello più meditabondo e introverso di Peace, Matches e Retrograde anche se spinto costantemente da energia e propulsione dalla sezione ritmica formata da Shaw e Charlie Smith (basso), così come accade in Mirrors che viene introdotta come fosse una serenata emo degli American Football, per poi cambiare ben presto aspetto in una spensierata ballad dai risvolti power pop. Poi c'è quello apertamente gioioso che si trova nell'uptempo di No Excuses, nell'ottimismo palpabile della title-track (anche dal video che alla fine ospita il cameo d'eccezione di Mike Kinsella), nell'esortante Get Better. I Lakes tramutano la consueta dolcezza di cui il midwest emo si serve per attutire e smussare il retaggio hardcore punk, cioè polifonie vocali, largo uso di arpeggi con accordature aperte e ritmiche elaborate, in una sorta di emo pop sperimentale e non convenzionale, rimanendo allo stesso tempo fedeli all'accessibilità dell'indie rock.
Sinceramente non sono molto preparato sulla discografia dei Lantlôs ma, incuriosito dai primi singoli tratti dal nuovo album Wildhunt, sono andato ad approfondire. Nella mia ricerca ho imparato che l'ultimo lavoro della band fondata dal polistrumentista Markus Siegenhort a.k.a. Herbst - e completata da Cedric Holler (chitarra, voce) e Felix Wylezik (batteria) - risale a sette anni fa, che nella loro carriera hanno cambiato direzione spesso e volentieri toccando doom metal, sperimentazione e, nell'ultima fase con Melting Sun, si sono dati allo shoegaze con spunti di post rock, alleggerendo nel fattempo il pesante tocco da blackgaze che avevano in precedenza.
Wildhunt può essere letto come una versione più accessibile e melodica di Melting Sun. Pur rimanendo nei confini shoegaze lascia da parte gli ipnotici ed estesi bordoni elettrici di chitarra per andare a sostituirli con strutture più articolate sia dal punto di vista ritmico, sfiorando talvolta la geometria math rock, sia dal punto di vista della trama, la quale si tinge di nebulose arie art pop e allo stesso tempo mantiene una massiccia matassa distorta di chitarre e synth, ma con dinamiche involute ed accentuate.
Fatto sta che questo lavoro dei Lantlôs mi ha attratto con maggior convinzione rispetto a quanto hanno prodotto in passato, per questo suo accostarsi a scelte stilistiche e soluzioni che permettono a Siegenhort e compagni di viaggiare su molteplici livelli, incorporando linguaggi che oltrepassano lo shoegaze. Il fatto di dedicarsi ad un formato canzone contenuto e indirizzato verso una maggior inclinazione per l'orecchiabilità, non cede il passo necessariamente all'appiattimento della formula. Ma anzi, in questo caso nei brani di Wildhunt si possono notare tracce, neanche troppo velatamente nascoste, di quella concezione da "Wall of Sound" presente nel prog metal di Devin Townsend. Allo stesso modo le linee vocali, doppiate talvolta in maniera polifonica, vengono immerse in un contesto in cui l'elettricità è talmente polarizzata verso lo space rock e la psichedelia da trasfigurarsi in dreampop.
Due anni dopo l'esaltante debutto con Here Comes A Man From The Council With A Flamethrower, ilquartetto inglese A Formal Horse si presenta per la conferma con la seconda prova Meat Mallet. In sostanza l'album prosegue su quelle coordinate, provando ad approfondire il formato canzone attraverso brani che si permettono un'esplorazione più ampia delle dinamiche e delle variazioni lasciando più spazio alla durata. In più, se Here Comes A Man From The Council With A Flamethrower manteneva maggiormente le sembianze di un lavoro omogeneo grazie ad uno stretto legame tra una traccia e l'altra, su Meat Mallet si percepisce una più marcata differenziazione tra i vari brani.
L'aperutra con This One's Just a Warning pone un nuovo livello di metal per gli A Formal Horse, per lo più strumentale e con solo qualche sporadico intervento vocale di Hayley McDonnell, il brano prende di petto riff molto aggressivi che sfiorano addirittura il djent. Alla seconda traccia You've Got a Billion and I've Got a Half, la formula appare più chiara: la band pilota un complicato tessuto strumentale formato da tribali e meccaniche ritmiche math rock, insormontabili barriere elettriche alla King Crimson (periodo 73-74) e la McDonnell che declama un testo breve per lo più formato da frasi reiterate.
Ovviamente non è sempre così, però è chiaro più che in ogni altro gruppo come gli A Formal Horse compongano a due compartimenti distinti, privilegiando la parte strumentale per poi completarla con linee vocali che a quel punto si integrano con abilità, come un innesto, nella elaborata trama sonora. Il sound risulta talvolta oppressivo e altre frenetico, dove la chitarra di Benjamin Short si divide equamente verso distorsioni aspre ed avvolgenti, interpolate ad arpeggi clean alla Robert Fripp che attenuano l'atmosfera cupa. La sezione ritmica con Russell Mann (basso) e Mike Stringfellow (batteria) è altrettanto potente nel donare slancio e sostegno ai riff primordiali e geometrici. Il gruppo rimane quindi solido e sicuro della propria tecnica e di conseguenza Meat Mallet più che un passo avanti è una valida appendice al primo lavoro.
Il duo canadese Jupiter Hollow formato dai polistrumentisti Grant MacKenzie (chitarra, basso, synth) e Kenny Parry (voce, batteria, piano, synth) sta continuando a promuovere l'album Bereavement, pubblicato nel giugno 2020, con dei video in cui suonano dal vivo il materiale tratto da esso e disponibile nella sua interezza tramite il sito ufficiale della band. Grazie a questi video caricati ultimamente sono venuto a conoscenza di questa band che, stando alle informazioni di Prog Archives, si è formata quando i due Parry e MacKenzie, appena poco più che ventenni, si sono conosciuti ad una "battle of the bands" della loro cittadina di Barrie, in Ontario.
Da quel momento hanno iniziato a lavorare insieme. Dopo aver pubblicato nel 2017 l'EP Odissey, i Jupiter Hollow riprendono tutte le tracce in esso contenute (tranne la title-track) e le trasformano nel primo album AHDOMN (2018), aggiungendo due suite da dieci e sedici minuti ciascuna. Il secondo capitolo Bereavement, è il proseguimento del concept fantascientifico portato avanti dal duo: la storia di un antieroe che, grazie ai suoi poteri, riesce a salvare la propria famiglia dall'estinzione della Terra inviandoli in un altro sistema solare. Ma il conflitto interiore causato dalla sua potenza lo porterà ad abbandonare il resto dell'umanità e continuare il proprio viaggio cercando si sfuggire ai suoi demoni.
Da veri canadesi i Jupiter Hollow sono influenzati dai Rush, ma naturalmente vi aggiungono una quantità tale di richiami moderni che la fonte primaria viene offuscata da un prog metal molto versatile e viscerale che sa attraversare melodismo atmosferico, aggressività con tanto di growl e harsh vocal, oltre che complesse ed oscure progressioni in sintonia con il metal trascendente di Tool e Karnivool.
I primi due brani di Bereavement, L'Eau du Papineau e Scarden Valley, hanno il compito di allestire una lenta e pacata introduzione all'album, in quanto il primo è un breve numero acustico che ci trasporta in un'atmosfera bucolica e incontaminata, il secondo inizia come ballad per pianoforte e si sviluppa di conseguenza verso uno struggente e lirico surrogato tra AOR e psichedelia, sottolineato anche da un ottimo assolo di chitarra in odore di Pink Floyd.
Con The Rosedale si può dire che l'album prende quota introducendo un cadenzato corollario di riff seducenti e aggressivi allo stesso tempo. Kipling Forest non fa altro che mantenere le promesse entrando in pieno regime prog metal, squarci djent e thrash ne amplificano la dinamica e la varietà, con Parry che dà sfogo ad ogni tecnica vocale in suo possesso per allinearsi con le improvvise svolte strumentali. L'essenza rimane un'intricata selva di cambi tematici e ritmiche propulsive e potenti, contornata da uno spiccato senso melodico che rimane costante anche nella successiva The Mill, seppur nella sua più breve durata, ma che mantiene alto il livello di tensione.
Dopo il breve interludio strumentale Mandating Our Perception, Sawbreaker è un altro imprevedibile tour de force che al suo interno fa sfoggio di molteplici variazioni di registro, passando da momenti djent, metalcore ed experimental post hardcore ad altri dove spiccano solismi tastieristici prog e atmosfere space rock. Extensive Knowledge è un altro pezzo acustico, ma non la classica ballata con accordi strimpellati, i Jupiter Hollow la condiscono con virtuosismi chitarristici e intricati arpeggi per abbellire e valorizzare la ritmica, sulla stessa linea della ballad di Rush e King's X.
La traccia di chiusura Solar Gift, con i suoi oltre dodici minuti, più che una suite è una lunga coda d'appendice, nella quale i Jupiter Hollow riassumono i propri dettami prog metal, nella prima parte, mentre nella seconda aprono un mini concerto per tastiere e synth che sfocia in paesaggi sonori da djent new age simili a quelli dei TesseracT. In sostanza Bereavement appare come un lavoro piuttosto intraprendente nel coniugare varie tipologie di prog metal, da quelle più pacate a quelle più estreme, e nonostante tutto mantiene il pregio e il potenziale per attirare anche chi non è avvezzo agli aspetti più estremi del genere. Merito di due giovani musicisti che oltre alla tecnica sfoggiano anche un'invidiabile versatilità. Consigliato e da recuperare anche l'esordio AHDOMN nel caso Bereavement faccia breccia nei vostri gusti.
Dopo averli notati con il loro interessante EP d'esordio Stratus, si ritorna a parlare degli Haven State che, a distanza di tre anni, debuttano ora con il full length Adapt, senza dimenticare di essere passati dal solido singolo Finite del 2019 qui non incluso. Josie Banks (voce), Lucas Martucci (batteria), Cody House (chitarra) e Brendan Mickoloff (basso), provenienti da Pittsburgh, Pennsylvania, sono dei giovani musicisti che hanno iniziato a suonare un ibrido di prog metal condito da un pizzico molto leggero di post hardcore e math rock.
Con Adapt la loro dichiarazione di intenti sposta l'interesse maggiormente verso quest'ultimo aspetto, dando risalto all stesso tempo a trame imprevedibili, dinamiche convulse e progressioni non scontate. Gli Haven State riescono a preservare tutto questo anche se la prospettiva rimane molto spesso sul versante melodico e più accessibile della tipologia di stile. Un compito facilitato dalle linee vocali della Banks le quali, salvo rari casi come su Running, privilegia un marcato approccio pop rock piuttosto che spingere sul lato aggressivo. Mentre sul versante strumentale la chitarra di House si destreggia sia su riff metal che su tapping math rock, solidificando il commistione tra i due.
La scena mathcore canadese, ed in particolare la città di Toronto, negli ultimi tempi si è particolarmente distinta per l'emergere di un nutrito numero di band interessanti come Bird Problems, Autocatalytica, Bastila e Parliament Owls. A queste adesso vanno aggiunti i Telomēre che se ne escono con il loro primo EP Where Are We Still, anche se in realtà il loro singolo d'esordio Kindred Will risale all'anno scorso. I Telomēre sono nati proprio dall'incontro di due membri provenienti da Bastila e Parliament Owls, ovvero Brodie Clark (batteria) e il cantante Devlin Flynn (qui anche nelle vesti di chitarrista) rispettivamente. A loro si sono affiancati Brody Post (voce), Quinn Henderson (chitarra, voce) e Dylan Burrett (basso).
La proposta che offrono i Telomēre è molto vicina ai canoni swancore che incontrano l'experimental post hardcore. Le evoluzioni dei brani sono complesse, elaborate ed imprevedibili non solo musicalmente, ma anche per ciò che riguarda il range vocale ed i salti improvvisi di dinamica, che vanno da sezioni di clean vocals accessibili e orecchiabili fino a scontrarsi con violenti growl e harsh vocals piuttosto inaspettati.
Sequoia I: Ashes è il brano dove questi contrasti spiccano maggiormente, mentre Sequoia II: For The Wind To Take dopo un'apertura rilassata si dedica ad una serie di passaggi math rock in versione hardcore. Con le sue soluzioni costituite da molteplici direzioni, Microcosms è invece quello che più si avvicina al prog hardcore. La title-track che chiude l'EP è un estremo studio sperimentale sulle possibilità noise e avant-garde del mathcore, dato che la maggior parte del pezzo, dopo un inizio tutto sommato contenuto nei soliti parametri, sceglie di deviare verso rumorismi elettrici e vocalità delirante. Where Are We Still è un biglietto da visita che potrebbe promettere interessanti evoluzioni in futuro.
Il tastierista Paolo Botta, in arte SKE, aveva esordito come solista esattamente dieci anni fa con l'album 1000 Autunni, anche se il suo nome è stato associato ad alcuni tra i più interessanti progetti prog di casa nostra come Yugen e Not a Good Sign, due band che lo hanno tenuto impegnato durante questo distacco temporale che è intercorso tra il suo primo e il suo secondo album. Ecco quindi Insolubilia, un'opera che ha occupato un anno di lavoro e mette in musica l'interesse di Botta per i rompicapo e i paradossi.
Con questo in mente, Insolubilia si presenta concettualmente come un viaggio musicale che esplora tali suggestioni, servendosi delle influenze che già facevano parte del bagaglio sonoro di 1000 Autunni. Nelle complesse stratificazioni musicali ritroviamo quindi l'amore di Botta per il prog più angolare: il Rock In Opposition, l'avant-prog, ma anche il prog sinfonico di matrice scandinava come quello degli Änglagård. Nonostante ciò, questa volta l'album appare nel suo insieme leggermente più accessibile del precedente, anche se parlare di accessibilità a queste latitudini sembra paradossale, grazie a spunti e cellule melodiche che si sviluppano con maggior incisività. La sfida da decifrare per l'ascoltatore sarà in questo caso la verticalità della partitura con l'accavallarsi delle armonie, piuttosto che l'orizzontalità.
A tal proposito la ricchezza degli impasti è mutuata dall'impressionante stuolo di musicisti ospitati su Insolubilia (riportati in appendice se vi interessa), che è pari solo al dispiegamento della varietà di tastiere utilizzate da Botta (Hammond, Mellotron, Moog, Wurlitzer, Fender Rhodes, Farfisa, ecc.), il quale si serve di questo dispiegamento strumentale per dirigere e arrangiare le composizioni come se si fosse servito di un'orchestra o di un ensemble per costruire partiture sinfoniche. Il pezzo che dà il titolo all'album ad esempio è una suite divisa in cinque parti che troviamo scomposte nello scorrere della tracklist e dove l'ordine di apparizione delle ultime tre, forse per tener ancora più fede al tema portante, è stato posto in senso cronologico invertito (dalla quinta alla terza). La suite Insolubilia è in pratica lo sforzo più compiuto di Botta per avvicinare linguaggio colto e popolare: un concerto classico moderno riletto in chiave avant-rock che attraversa molteplici stili, i quali si rifanno a tradizione medioevale (specialmente la parte II), musica corale, etnica e folkloristica.
In particolare le interazioni all'interno di un altro brano come Akumu, che passano con disinvoltura da innesti rinascimentali e barocchi ad elettronica rock atmosferica, o Sudo che è un tiratissimo prog rock che prende i contorni da big band, mentre la multiforme La Nona Onda si muove su canoni più aderenti al genere, talvolta genesisiani talvolta crimsoniani, sottolineano i differenti percorsi nei quali si dirama Insolubilia, proprio come le molteplici scelte e i tentativi per risolvere un rompicapo. Naturalmente nel contribuire a tali suggestioni giocano un ruolo fondamentale strumenti come fagotto, clavicembalo, mandolino, metallofoni, theorbo, che in genere troviamo solo nelle deviazioni più avanguardiste e radicali del prog, tipo Henry Cow, Isildurs Bane, Univers Zero o ancora nei già citati Yugen dei quali Botta, oltre che esserne membro, ne prosegue l'estetica con grande competenza.
Fabio Pignatelli (Goblin) - Bass,
Luca Calabrese (Isildur's Bane) - Pocket Trumpet,
Lars Fredrik Frøislie (Wobbler) - Harpsichord,
Keith Macksoud (Present) - Bass,
Tommaso Leddi (Stormy Six) - Mandolin,
Nicolas Nikolopoulos (Ciccada) - Flute,
Evangelia Kozoni (Ciccada) - Voice,
Vitaly Appow (Rational Diet, Five Storey Ensamble) - Bassoon,
Per chi non è cresciuto negli anni ’80 probabilmente il nome di Vince DiCola risulterà nuovo, ma anche ad altri che hanno vissuto quell'epoca può rimanere oscuro. La causa dell’elusività di DiCola riguarda il fatto di essere stato legato, più che al mondo delle rock band, a quello della cultura pop di quel decennio, lavorando principalmente a colonne sonore di successo come "Rocky IV", "Staying Alive" e "Transformers: The Movie". Pur avendo quindi operato in un ambito musicale non prettamente rock, le sue tastiere hanno comunque contribuito a forgiare quel sound a cavallo tra prog, AOR e pomp rock tipico degli anni ’80, grazie soprattutto a pezzi immortali come Training Montage e Hearts on Fire. Questi due titoli in particolare hanno segnato un imprinting nella mia personale memoria musicale, essendo stato segnato a suo tempo da "Rocky IV" e dalla relativa soundtrack tenuta all'epoca in heavy rotation, DiCola mi ha introdotto inconsciamente al progressive rock quando ancora non sapevo neanche cosa fosse. In seguito, ho saputo ritrovare quei suoni, apprezzandoli ancora di più, una volta scoperto il genere.
Nel suo percorso creativo DiCola negli anni '90 ha anche avuto modo di fondare e far parte delle due band Storming Heaven, con Rick Livingstone e Doanne Perry dei Jethro Tull, che poi si sono evoluti nei Thread con l'arrivo di Ellis Hall dei Tower of Power alla voce al posto di Livingstone. Durante gli ultimi anni DiCola ha inoltre collaborato con molti altri artisti sempre in ambito prog e AOR, registrando e producendo demo per svariati progetti che però non sono mai stati pubblicati ufficialmente. Tra di questi c'erano anche tre brani scritti in collaborazione con l'ex frontman dei Kansas Steve Walsh, e sono stati proprio questi a spingere Khalil Turk della Escape Music, etichetta specializzata in AOR, nel convincere DiCola a recuperare ciò che aveva nei suoi archivi.
Il suo nuovo album Only Time Will Tell cerca proprio di mettere ordine alle canzoni da lui scritte durante un considerevole arco di tempo e raccoglierle insieme in una versione definitiva, con l’apporto di molti cantanti ospiti tra cui spiccano Steve Walsh appunto, Jason Scheff (Chicago) e Bobby Kimball (Toto). Anche se le tracce dell’album hanno per lo più un’impostazione AOR, nel solismo tastieristico di DiCola emergono tutte le sue dichiarate influenze prog, che vanno da Keith Emerson ai Genesis fino agli Yes (ed in questa sede non mancano richiami al periodo pop prog con Trevor Rabin, specie su Living in a Daydream). Ascoltare Only Time Will Tell equivale ad un tuffo nel passato, capace di riportare quel gusto pianistico fluido di Bruce Hornsby (Karla) o le ballad alla Chicagoe REO Speedwagon (Miracles e You’re Not Alone Tonight). Non c'è neanche da dire che Only Time Will Tell sia un album fuori dal suo tempo, visto l'attuale ritorno di interesse verso l'estetica degli anni '80.
Ovviamente i fan dei Kansas non potranno che rimanere soddisfatti degli interventi di Walsh il quale, con la sua partecipazione, sottolinea ancora di più la somiglianza stilistica con il suo ex gruppo su Broken Glass e la title-track. Racchiudendo una collezione di brani scritti nell’arco di diversi anni, Only Time Will Tell ha il pregio di far emergere tutti gli aspetti della scrittura di DiCola, cimentandosi in modo alterno in ouverture da soundtrack, power ballad da romanticismo barocco (She’s My Last Mistake, No Risk, No Glory) e arrangiamenti da suite prog (Suffer the Children). Di sicuro, anche se DiCola è rimasto per tutta la propria carriera un autore di nicchia, la sua competenza e autorevolezza nella metodologia compositiva non sono stati da meno rispetto ad altri attuali tastieristi prog. Una lacuna che, con questo riassunto di carriera che rappresenta Only Time Will Tell, si spera possa essere colmata e, almeno in parte, trovi la possibilità di presentarlo ad un pubblico più vasto.
TRACKLIST
01. Bound & Gagged (Lead Vocal: Rick Livingston x Thread / Agent)
02. Karla (Lead Vocal: Vince DiCola)
03. Miracles (Lead Vocal: Jason Scheff of Chicago)
04. Just Hanging On (Lead Vocal: Ellis Hall x Tower Power)
05. She’s My Last Mistake (Lead Vocal: Stan Bush)
06. You’re Not Alone Tonight (Lead Vocal: Vince DiCola)
07. Stay / Exit Wound (Lead Vocal: Bobby Kimball x TOTO)
08. Only Time Will Tell (Lead Vocal: Steve Walsh x Kansas / Street)
09. Broken Glass (Lead Vocal: Steve Walsh x Kansas / Street)
10. Living In A Daydream (Lead Vocal: Mark Boals x Yngwie Malmsteen)
11. No Risk, No Glory (Lead Vocal: Bob Reynolds)
12. I’m Not In Love For Nothing (Lead Vocal: Vince DiCola)
13. Suffer The Children (Lead Vocal: Steve Walsh x Kansas / Street)
Ricordarsi degli Adjy è forse un'ardua impresa. Già all'epoca del loro primo EP Prelude (.3333) risalente al 2016 si sapeva ben poco di questa band e con il passare del tempo le cose non sono migliorate, complice il fatto che la presenza sul web degli Adjy è stata costantemente defilata ed in più il gruppo si è preso una lunga pausa prima di tornare sulle scene con nuovo materiale. Il silenzio si era interrotto un paio di anni fa con i due singoli A Boy Called June(I e II) e In Medias Res, annunciando al tempo stesso, con la laconicità che gli è propria, la loro appartenenza a qualcosa di più grande. Il fatto che ora se ne escano con un'opera monumentale come The Idyll Opus (I–VI) mi ha obbligato ad una doverosa indagine su di loro per presentare l'album come si merita.
Il leader della band Christoper Noyesa suo tempo dichiarò di essere affascinato dal tipo di artista che si nasconde dietro la sua opera d'arte, lasciando piccole tracce o indizi da far scoprire al fruitore. E così ha fatto egli stesso. Gli Adjy rappresentano la sua personale emanazione di progetto artistico, musicale, visivo e poetico. Appassionato di scrittura, linguaggio, grafia (tanto che al college, in pieno stile Tolkien, aveva tentato persino di inventare una lingua fittizia per una sua storia) e influenzato dal saggio Della grammatologia del filosofo Jacques Derrida, Noyes ha riversato questi interessi fin dalle sue prime opere precedenti alla nascita degli Adjy.
Attivo inizialmente con i Solia Tera, che hanno prodotto i due EP A Flammarion Woodcut (2009) e Diamonds, Dirt, Iron Pyrite, And A Pearl of Great Prize (2010), Noyes ha proseguito la propria carriera come solista con altri due EP Grapheme (2011) e 3 (2012) per poi formare gli Adjy. Il gruppo è praticamente l'evoluzione della visione musicale che Noyes aveva portato avanti prima con i Solia Tera ed in seguito da solista, consolidando al meglio la sua fascinazione per un indie rock da camera che unisce folk, emo e experimental pop con un particolare interesse per le possibilità offerte dagli strumenti a percussione, anche non convenzionali (macchine da scrivere, forbici, utensili da lavoro). In un primo momento gli Adjy si presentano come sestetto operando in modo indipendente con l'EP a edizione limitata Grammatology (2014), per poi entrare stabilmente nella scuderia dell'etichetta Triple Crown Records con l'EP Prelude (.3333).
La formazione odierna consta di cinque elementi alle prese con una varietà di strumenti che vale la pena menzionare: Christoper Noyes (voce, piano, chitarra, banjo, vibrafono, trombone, percussioni, melodica, field recordings), Austin Smith (batteria, bodhran, percussioni, dulcimer), Kaeli Riccardi (voce, piano, percussioni, vibrafono), Griffin Smith (voce, chitarra, bouzouki, percussioni), George Rutsyamuka (basso, voce), ai quali vanno aggiunti una sezione di archi e fiati i cui interventi fondamentali si addizionano all'insieme come una piccola orchestra.
Partendo dalle premesse di A Boy Called June possiamo comprendere il concept che sta dietro a The Idyll Opus(I-VI) che stavolta mette da parte (ma solo velatamente) argomenti astratti come letteratura e filosofia per concentrarsi su un racconto mitico, metafora di sentimenti universali dove il tema portante dell'estate gioca un ruolo centrale. Noyes, consapevole della scelta di mantenere un profilo bassissimo per la band, è riemerso dal silenzio due anni fa e introdusse l'argomento paragonando la parabola degli Adjy alla vita delle cicale: “Le cicale lavorano sottoterra in segreto, a volte fino a 17 anni, aspettando il momento giusto per emergere e cantare la loro famigerata canzone dell'estate.Allo stesso modo gli Adjy stanno emergendo di nuovo, inaugurando un capitolo dentro qualcosa di molto, molto più grande." A due anni di distanza scopriamo che quel qualcosa non è altro che The Idyll Opus (I-VI) e, a giudicare dalla cover e dal titolo, ci sono in attesa altri sei capitoli da raccontare, che proseguiranno in un'opera futura.
Quando Noyes annunciava A Boy Called June come un frammento di un progetto su più larga scala, era difficile prevedere che il soggetto sarebbe stato un album doppio di quasi 98 minuti. In primo luogo il tema centrale di The Idyll Opus è la celebrazione dell'estate e le sensazioni ad essa legate, dell'ultimo giorno di scuola nel quale assapori la libertà che sta per arrivare e "il fuoco irrequieto della giovinezza", ma tutto raccontato attraverso la lente del mito classico. Anche la scelta di pubblicarlo il 30 giugno non è stata casuale: quel momento "dove giugno incontra luglio" che poi è il titolo della suite centrale composta da nove parti o capitoli, come sarebbe giusto interpretarli, dato che per Noyes letteratura e arte vanno di pari passo.
L'assoluto silenzio del gruppo, sia sui social che sui media, è stato causato anche dall'imprevista separazione avvenuta dopo il tour di supporto a Prelude (.3333). Noyes si è quindi rifugiato in una piccola cittadina situata nella regione dei monti Appalachi ed ha iniziato a scrivere in completa solitudine i brani per The Idyll Opus. Nei mesi estivi tra il 2016 e il 2019 il gruppo tornava a collaborare al progetto a fasi alterne per poi lasciarlo di nuovo nelle mani di Noyes. I luoghi rurali e legati a tradizioni antiche hanno giocato sicuramente una parte nell'ispirazione musicale e si respirano quelle atmosfere bucoliche che trasportano nei grandi spazi aperti dei parchi naturali americani dove in genere si consumano i campi estivi degli adolescenti.
Ed è proprio in questi scenari che si svolge la storia, piena di significati nascosti e metafore, citazioni colte e un linguaggio lirico forbito, nel quale Noyes riversa tutta la sua competenza di paroliere. Il racconto è quello di June (lui irrequieto musicista in viaggio con la band) e July (lei scrittrice molto composta) e del loro incontro ad un festival estivo che li porterà a conoscersi profondamente ed insieme passeranno la stagione estiva tra connessioni, argomentazioni, scelte e amori con l'ombra della salute precaria di July ad incombere e che porterà June a seguirla nella città in cui vive. O, più sinteticamente, come scrivono gli stessi
Adjy: "La mitica rivisitazione della tua storia d'amore al campo estivo, solo che il coro greco è la banda della scuola." In tutto questo infatti la narrazione è filtrata dagli occhi di un alchimista che vuole servirsi della storia di June e July per resuscitare dalla morte il proprio fratello gemello. Un espediente strano come aggiunta alla storia, ma forse Noyes approfondirà il ruolo dell'alchimista e il suo legame con June e July nell'album successivo.
The Idyll Opus (I-VI) rimane un album ambizioso e complesso, naturalmente non solo dal punto di vista lirico, ma anche musicale. Un disco che si struttura attraverso brani lunghi che si prendono tutto il tempo necessario per svilupparsi nell'epica della narrazione, dei capolavori di arrangiamento grazie alla ricchezza strumentale che si insinua in ogni dettaglio. Per assaporare in pieno il dispiegamento di mezzi è bene fare attenzione ad ogni piccola variazione e cambiamento nei quali si dipanano le canzoni. Gli Adjy non scrivono in modo convenzionale sul modello strofa/ritornello, ma ogni brano è compiuto solo se lo si ascolta fino in fondo, dato che è solamente alla fine che si può comprendere il quadro completo, quando ogni tassello è andato al proprio posto. Come un racconto letto a metà o come concentrarsi solo su un particolare di un'opera d'arte non rende giustizia alla loro totalità, allo stesso modo un brano degli Adjy necessita di tutta la sua durata per dispiegarsi nei suoi continui crescendo che aggiungono elementi su elementi, come il bozzo di una farfalla che si schiude per poi mostrarsi in tutta la sua bellezza.
L'album si apre con il trittico introduttivo In Medias Res (Between Longing and Mystery), A Boy Called June, Pt. I e A Boy Called June, Pt. II, che erano stati pubblicati separatamente due anni fa come singoli ed offrono già uno spaccato sufficiente per comprendere la magniloquenza armonica di cui gli Adjy solitamente fanno uso. Voci che si rincorrono costantemente in precario equilibrio tra polifonie e "gang vocals", percussioni che battono freneticamente come in un rituale estatico, folk tradizionale che incontra l'art rock e le dinamiche dell'emo, in pratica elementi già sufficienti per una tela complessa e intricata di suoni...ma questa è solo l'introduzione, l'opera deve ancora tuffarsi nell'imponente suiteWhere June Meets July.
Where June Meets July: I. Overture è, come suggerisce il titolo, una vera e propria apertura sinfonica dove gli Adjy si confrontano con una parentesi classica, quieta e calma come una notte d'estate nella quale gli archi e il clarinetto non pennellano mai una melodia distinta. Noyes preferisce incaricarli di creare un'atmosfera impressionista, mutuata da tappeti di note che si sovrappongono con delicatezza.
Where June Meets July: II. On a Road Trip That Summer's Day ci introduce al magico incontro di June e July, prendendo a piene mani dal folk, country, blugrass e li trasforma in qualcosa di trascendentale come solo Sufjan Stevens in Illinois e gli Anathallo in Floating World hanno saputo fare in passato. Senza soluzione di continuità sfociamo su Where June Meets July: III. at a Dance Where the Stars Cross che prosegue sulla medesima impostazione, impreziosita dalle corde martellate del dulcimer, per poi crescere in una danza. In tutto questo il banjo è lo strumento centrale, ma gli Adjy si servono di quel genere musicale chiamato appunto "americana", per stigmatizzare stilemi che appartengono a quella tradizione, solo come tramite per richiamare il legame a quella terra di vecchi coloni.
In realtà negli Adjy è presente una profonda padronanza dei linguaggi musicali moderni e tradizionali, tale da far incontrare vecchio e nuovo senza risultare anacronistici: ad esempio la ballad Where June Meets July: IV. O Tonight potrebbe essere allo stesso tempo sia un inno alternative sia una canzone da cantare accampato la sera davanti a un fuoco sotto le stelle. Where June Meets July: V. Maps (To the Tune of "The Great Midwestern Summer Jig") parte lentamente per poi prendere i contorni di una danza, una giga in effetti, con tanto di contrappunti di violino irlandese.
Se lo scorrere dell'album finora non fosse ancora abbastanza memorabile, ecco arrivare una mini suite all'interno di una suite: Where June Meets July: The Cicada's Song, Pt. I e Where June Meets July: The Cicada's Song, Pt. II si rivolgono alle altre piccole protagoniste della storia, le cicale e la loro canzone estiva. La prima parte è un preparativo, un'ouverture che anticipa alcune variazioni tematiche in crescendo che ritroveremo riproposte in modo differente nella seconda parte. Quest'ultima si può dire consista di tre movimenti: un'introduzione quasi sussurrata, talmente raccolta che quando entra in campo un organo pare di ascoltare una preghiera, viene troncata di botto e riemerge il tema principale della prima parte questa volta rielaborato in modo gioioso e frenetico con tamburi e polifonie. Infine entra in scena tutta l'orchestra per un finale festoso ed emozionante. E qui spunta tutta la maestria degli Adjy nell'attuare lo stratagemma di cui prima parlavo: Where June Meets July: The Cicada's Song, Pt. II respira di un'epica meravigliosa, che si compie nella sua totalità solo se la si considera nell'arco di tutta la canzone. Un altro apice di questo capolavoro.
Avviandosi verso la conclusione, Where June Meets July continua nella propria ambizione con i nove minuti di Where June Meets July: VIII. Secretus Liber (Beneath the Fireworks That Fell in Mystique Participation), dove July racconta a June di quando da piccola trovò un libro misterioso nella soffitta di suo nonno scritto a metà e senza autore, proponendo a June di finirlo insieme. Praticamente una racconto breve all'interno di un racconto, messo in musica come fosse una mini opera da camera trascinata lentamente e che va a collegarsi alla sonata per banjo Where June Meets July: IX. In the Space Between Pages... che ancora una volta ci conduce ad un finale intenso intriso di malinconia ed energia.
Una volta chiusa la suite le sorprese non accennano ad esaurirsi. Altri tre brani ci attendono, il primo dei quali, The Farmland and the Forest's Edge, è quanto di più vicino ad un mix tra gospel e indie folk gli Adjy abbiano prodotto, mentre Lake Adeyoha è un altro brano che prepara con calma il suo climax, partendo come una torch song emo per cori e vibrafono e a circa metà si trasforma in una marcia orchestrale in stile The Dear Hunter. Come se non bastasse l'ultima traccia Eve Beneath the Maple Tree è un tour de force di diciassette minuti, fungendo da compendio musicale, sonoro e lirico di questo gigantesco calderone di idee e ispirazione.
Il primo volume si conclude con la salute di July che peggiora e, temendo di rimanere con June ancora per poco, lo prega di piantare i semi di acero che le aveva regalato e di concludere il libro prima della sua morte. Due atti per ricordarsi di lei quando non ci sarà più. Quella che all'apparenza sembra essere una classica storia romantica è in realtà uno sforzo creativo che nasconde temi come filosofia, mitologia e letteratura, la quale avrebbe giovato di un libretto con note esplicative in appendice (purtroppo l'album è e sarà disponibile solo in versione digitale).
Ovvio che per digerire a livello musicale, nonché a livello lirico un lavoro così imponente e pregno di significati su più livelli ci vorrà la pazienza che di questi tempi non va più per la maggiore. Ma gli Adjy meritano tutta l'attenzione necessaria perché alla fine dell'ascolto se ne esce ripagati e arricchiti. Intanto ci hanno fatto un bellissimo regalo con cui trascorrere la torrida estate: non riuscirei ad immaginare un album più appropriato di questo da abbinare ad una stagione. Per ora so solo che quando sentirò il canto delle cicale non sarà più la stessa cosa.
edit 08/07/21: fortunatamente gli Adjy hanno colmato una lacuna e caricato nel loro sito ufficiale note e testi dell'album:
I synchre sono un trio giapponese formato nel 2017 da Tsurugi Sato (chitarra, electronics,voce), Koki Sekimoto (basso) e Eishi Harunari (batteria) e hanno da poco pubblicato il loro secondo EP correlation. Il loro genere si fonda su beat elettronici, math rock e scenari sonori a confine tra post rock, emo e prog, creando un suggestivo corto circuito tra geometrica interazione digitale e malinconici tappeti sonori di chitarra.
Physical Architecture dei Fly in Formation è l'esordio del chitarrista Dante Frisiello (il quale, a dispetto del nome, è statunitense) che in pratica si prospetta come l'ennesima proposta che si inserisce nell'ormai saturo panorama dei virtuosi prog djent fusion. Nonostante ciò Physical Architecture ha una qualità di scrittura pregevole, grazie alla quale gli è permesso il merito di distinguersi tra la "folla", presentando un pugno di brani sonicamente interessante, dinamico e ben arrangiato.
Waxamilion è il chitarrista austriaco Max Dornauer, attivo ormai da tre anni e apparso nel mio radar da un po' di tempo, grazie alla collaborazione con Ben Rosett. Come saprete quest'ultimo fa parte degli Strawberry Girls e, partendo da quel math rock/post hardcore strumentale, da solista ha affinato uno stile che unisce questi generi al neo soul e all'RnB, se non addirittura a certi richiami all'hip hop. Max Dornauer non ha fatto altro che portarsi al livello successivo, soprattutto con il suo nuovo singolo Vanish che ho voluto ribattezzare come stile "chill-out math rock" per quella sua caratteristica rilassatezza mutuata dai beat nello stile "lofi hip hop radio" e synthwave.
Dall'incontro di due chitarristi Gabriele Papagni ed Enrico Tripoldi che si sono formati al conservatorio, magari ci si aspettava un gruppo prog sinfonico, invece i Benthos con il loro esordio II vanno nella inaspettata direzione del prog metal alla Karnivool.
Markus Siegenhorst è il principale responsabile dietro la sigla Lantlôs. Fino ad ora si era dedicato al black metal, ma con Wildhund, in uscita a fine mese e che arriva dopo sette anni dall'ultimo Melting Sun, sembra aver preso un'altra direzione verso il prog shoegaze alternative, almeno a giudicare dai due singoli resi noti finora.
L'ultimo album dei Trade Wind The Day We Got What We Deserved è uscito da poco, ma nel suo stile è molto differente dagli esordi del gruppo. In particolare i Trade Wind hanno avuto un'evoluzione stilistica ad ogni uscita che li ha fatti passare dal post hardcore grunge in stile Thrice (il cantante Jesse Barnett è molto simile a Dustin Kensrue), molto accentuato nell'EP Suffer Just To Believe (2014), per poi virare su cose più elettroniche e rarefatte su Certain Freedoms (2019). In ogni caso per iniziare con loro questi due lavori sono abbastanza esplicativi.